venerdì 29 febbraio 2008

Non è un paese per vecchi

Joel & Ethan Coen

C’è una coincidenza interessante all’inizio del capolavoro di Joel & Ethan Coen “Non è un paese per vecchi”. “Le dispiace stare fermo per favore”, dice il killer Chigurh (Javier Bardem) alla sua prossima vittima; “Stai fermo”, sussurra Llewelyn Moss (Josh Brolin) al cervo inquadrato nel mirino. Cervi, cani, uomini, tutto è caccia; un inseguirsi e spararsi in un mondo dove gli occhi saggi e tristi dello sceriffo Bell (Tommy Lee Jones) non riescono più a vedere un senso. Ma questa è sempre stata la grande questione metafisica del cinema dei fratelli Coen: la polverizzazione della conoscenza, la perdita del senso, la possibilità di trovarlo solo nel punto fermo della violenza e della morte.
Tratto fedelmente (anche i dialoghi) dal romanzo del grande Cormac McCarthy, “Non è un paese per vecchi” contiene in sommo grado quella specifica qualità coeniana che è l’evidenza. Evidenza dei fatti: azioni, reazioni, spari; evidenza dei personaggi, la consueta serie di figure bizzarre dei Coen; evidenza della morte, la grande realtà che intesse il film. E’ la storia di Moss che trova una borsa con due milioni fra i cadaveri di uno scontro fra narcotrafficanti e la ruba, senza accorgersi che dentro c’è una trasmittente. Sulle sue tracce si pone Chigurh, personificazione del male, che raggiunge una irreale comicità molto coeniana proprio per l’estremismo della sua terribilità (impagabile il colloquio minaccioso con il negoziante). Insegue l’inseguimento lo sceriffo Bell, tormentato rappresentante del bene. Tutto sullo sfondo di un paesaggio che - nella splendida fotografia di Roger Deakins - più indifferente non potrebbe essere: tanto il deserto del Texas quanto le strade vuote di una città notturna dove sono vivi solo i neon, i verdi vialetti pretenziosi dei “suburbs”, la barriera di ferro e cemento della frontiera messicana, i tristi motel alla Edward Hopper; i sanguinosi drammi umani vi si svolgono come drammi di formiche in una boccia di vetro.
Moss, il “loser” che gioca a un gioco più grande di lui, con buffa abilità inventa piani e marchingegni – ma che valore ha la razionalità in un universo impazzito? La poderosa, quasi inconcepibile ellissi che inghiotte il destino di Moss (c’è anche nel romanzo ma qui è mostruosamente dilatata) oltre che a frustrare lo spettatore-popcorn serve a ricordarci che la morte è qualcosa di imprevisto e fortuito; non scatta lungo un percorso logico ma improvvisa e senza senso - se fermi l’auto per strada, se fai conversazione con l’uomo sbagliato, se ti distrai dietro una squinzia che ti offre una birra in camera sua… La morte è casuale come il testa o croce di una moneta, e il filosofo Chigurh lo sa meglio di tutti nel film.
Cormac McCarthy canta e i fratelli Coen ricantano il lamento della perdita dell’innocenza americana. In una magnifica scena di sapore fordiano i due vecchi sceriffi (Tommy Lee Jones e Rodger Boyce), onesti conservatori, discutono tristemente di come il mondo sia diventato un inferno; lungo il film il male - ossia la perdita di un senso morale che solo può fondare la ragione - si diffonde come un’epidemia e l’agente infettivo del male è il denaro, proprio come ne “L’Argent” di Bresson. Ma nonostante l’evidenza del degrado la storia western dello zio Mac ci dice che il male è cosa antica nelle costole dell’America. Nozione sconvolgente per un paese che ha nel suo codice culturale la tendenza alla palingenesi in opposizione alla vecchia Europa (dall’utopia religiosa dei puritani all’illuminismo dei costituenti) - perché nega il cuore stesso dell’autocoscienza americana: il mito del giardino in opposizione al deserto.
Il problema che pongono i Coen è lo stesso di David Lynch in “Twin Peaks” e sembra avere la stessa risposta: anche se lo sceriffo si ritira (ma dopo una vita intera), l’unica cosa è di tenere accesa la propria fiammella. Il monologo finale, che i Coen riprendono da McCarthy, traduce il vernacolo texano ad altezze bergmaniane: l’evocazione della luce che va accesa ricorda la messa da celebrare di “Luci d’inverno”.

(Il Nuovo FVG)

sabato 23 febbraio 2008

Lo scafandro e la farfalla

Julian Schnabel

La metafora è quella di essere chiuso in uno scafandro. Prigioniero all’interno del proprio corpo paralizzato, dopo un ictus, capace di muovere solo la palpebra sinistra: ecco la sindrome toccata al giornalista di successo Jean-Dominique Bauby, in una storia vera da cui Julian Schnabel ha tratto il film “Lo scafandro e la farfalla”, che si avvale di un’interpretazione dolente e naturalistica di Mathieu Amalric.
In quest’opera discutibile ma interessante, Schnabel si attiene rigorosamente alla macchina da presa in soggettiva per realizzare la mimesi della condizione visuale di Bauby e del faticoso sistema che usa per comunicare: chiude la palpebra in corrispondenza alla lettera scelta in un elenco che gli viene letto (domanda evidentemente ingenua, visto che non l’hanno fatto, ma non sarebbe stato più facile usare il codice Morse?). Quest’uso della mdp come mimesi dell’occhio ricorda gli esperimenti di soggettiva totale di cui il capostipite è “Una donna nel lago” di Robert Montgomery (1947), e naturalmente incontra lo stesso problema: l’ottica dell’occhio non è quella della macchina da presa; così la visione in soggettiva di Jean-Dominique non risulta totalmente convincente. Possiamo prenderla come una metafora, non una mimesi autentica.
La questione è però un’altra. A un certo punto del film la visione soggettiva se ne va, per poi fare brevi ritorni mentre il film si stabilizza sull’oggettiva. E’ un vero rovesciamento, e infatti il primo stacco dal soggettivo all’oggettivo, quando arriva, ci fa sobbalzare: ha qualcosa di gratuito, e come di sottilmente indecente. La voce interiore del protagonista ci accompagna per tutto il film, ma anch’essa con irregolarità. Invero, oggettivo e soggettivo nel film diventano un cocktail (anche a parte errori come un’ovvia soggettiva di lui, sulle gambe della logopedista scoperte dal vento, da un’angolatura impossibile) e questo oscillare del punto di vista non è fecondo ma dà un’impressione di irregolarità e confusione - che pesa, e conferma l’impressione di un film più effettistico che intenso.
Certo, v’è nel racconto un’evoluzione, col passaggio all’accettazione del sistema comunicativo (il lento avviarsi di un recupero) dopo la disperazione e il rifiuto. Ma tale sviluppo non è sufficiente - né peraltro quadrerebbe sul piano temporale - per giustificare un’inversione così netta di prospettiva visuale. Giacché il discorso del film parte agganciato all’occhio del protagonista con la perentorietà che vediamo, ci vorrebbe molto di più per farci accettare il rovesciamento totale – e questo perché l’occhio, lo sguardo, è il cuore stesso di qualsiasi film.
Beninteso, ne “Lo scafandro e la farfalla” v’è molto di buono. Ad esempio, il modo progressivo di rivelarsi (prima in un riflesso colto al volo mentre viene portato in carrozzella, e solo dopo in uno specchio) - della devastazione fisica del viso, con l’orrore del labbro pendulo: nello shock della visione siamo accomunati noi e il protagonista, ancora incatenati dalla soggettiva. Le efficaci meditazioni sul “lungo deserto” della domenica, o l’episodio della televisione che viene spenta sotto gli occhi impotenti del protagonista, bene rivelano di scorcio un altro aspetto, che il film non ama sviluppare: la storia di una disperata impotenza. E la pagina della telefonata in viva voce che mette a contatto nella camera le due donne rivali contiene una semplice verità dolorosa.
Parimenti v’è molto di deludente nel film. Esistono momenti telegrafati (il discorso-messaggio dell’ex ostaggio sul fatto di non arrendersi); montaggi d’immagini che sanno un po’ di videoclip (gli iceberg che crollano – e sui titoli di coda ci tocca vederli che si riformano!) e fiacchi momenti di fantasizzazione; un passaggio ingenuamente metanarrativo; pagine poco convinte (il prete) o francamente modeste, come la goffa sequenza della gita a Lourdes. Sarà bene ripeterlo: si tratta di un film dignitoso. Ma non all’altezza del suo terribile assunto.

(Il Nuovo FVG)

Caos calmo

Antonello Grimaldi

Ho visto “Caos calmo”, il film di Antonello Grimaldi tratto dal romanzo di Sandro Veronesi; e adesso dovrò leggere il romanzo di Veronesi per capire cosa succede nel film. Perché fanno sesso Nanni Moretti e Isabella Ferrari, nella famosa scena che non piace ai vescovi? (a proposito, Nanni Moretti, mentre sodomizza rumorosamente la Ferrari in salotto, non ha paura di svegliare la figlia che dorme in camera e ritrovarsela lì? Per mantenere l’erezione in un contesto simile bisogna essere meglio di Rocco Siffredi). Naturalmente l’ambiguità, l’ellissi, la reticenza sono risorse preziose dell’arte; ma nel caso di “Caos calmo” si ha piuttosto l’impressione che il film vada per conto suo, privo di un “ubi consistam”.
Però non vale scherzare troppo su Moretti perché è la sua interpretazione a tenere in piedi “Caos calmo “, dilatandosi in una presenza (anche come sceneggiatore) che lo rende una sorta di nume tutelare del film. Già l’inizio con il protagonista e suo fratello che giocano a una specie di pingpong sulla spiaggia è un’autocitazione morettiana; ed è in Moretti – o meglio, nella figura cinematografica di Moretti – che si risolve integralmente il personaggio di Pietro. Sono “total Moretti” i suoi elenchi, le sue osservazioni puntute, il suo scandalizzarsi per il fratello che fuma oppio, il suo bordeggiare analizzandosi con malinconico umorismo sull’orlo della nevrosi, il modo introverso in cui affronta episodi anche tratti dal romanzo, come quello dello svenimento, che gli si attagliano perfettamente, che attrae nella propria dinamica. E nella sua rabbia contro i deliri della cognata demente sembra di sentire un’eco delle sfuriate di “Palombella rossa”: ma come parla questa?
Va da sé, non è casuale in un’opera sul processo di elaborazione del lutto (quello di Pietro dopo la morte accidentale della moglie) la presenza dell’autore de “La stanza del figlio”. Grazie a lui “Caos calmo” disegna bene quel momento di sospensione ambivalente tra andare e crollare; come già ne “La stanza del figlio”, Moretti supera la sua naturale antipatia nel convivere con la tragedia, non per il semplice fatto di esserne vittima ma per quella silenziosa umanità dolente con cui la regge. Uno dei punti nodali di tutto il cinema di Moretti è il silenzio, il “non dire”: drammatizzato/parodiato nella forma dell’afasia, nobilitato nella forma del rifiuto del discorso inutile, fotografato nella forma della difficoltà di arrivare a esprimere quello che non si lascia esprimere - e questa è appunto la condizione del lutto.
A Moretti fa da ottimo contraltare la bambina Blu Yoshimi Di Martino nel ruolo della figlia Claudia, che attraversa tutto il film con una presenza forte senza il minimo accenno di leziosaggine. A queste figure che reggono il film (vi aggiungiamo un sobrio Alessandro Gassman) si oppone purtroppo un bel po’ d’inutilità e vecchiume. Per metà “Caos calmo” raggiunge una dimensione di quieta verità; per metà appartiene al peggio del cinema italiano, quel mare oleoso di fintume romano “arty” di cui veramente non se ne può più - che s’incarna in primo luogo nella detestabile figura della cognata psicolabile interpretata da Valeria Golino. Non se ne può più di flippati e flippate isteriche che girano per i film sparando scemenze gratuite (il personaggio della Golino è replicato da quello della compagna dell’amico francese, che ha una specie di sindrome di Tourette), e suonano falsi, sub-letterari, para-romantici, quasi che il regista si credesse un Petrus Borel redivivo. Appena meglio la sezione alquanto stereotipata delle lotte di potere interne alla società a maggioranza francese cui appartiene Pietro, che si sviluppa in una dimensione inutile (l’orrido flashback a Venezia) o compiaciuta (il cameo di Silvio Orlando). E’ indicativo che la fotografia un po’ “casual” negli esterni sia più raffinata negli interni; è indice di un cinema del salotto. In realtà i personaggi del film risultano tanto più interessanti in quanto non parlano - come Roman Polanski nel cameo finale.

Cloverfield

Matt Reeves

Sul ponte di Brooklyn, durante la fuga disordinata da New York assalita da un mostro gigantesco, rapido scambio di battute fra Hud, che sta videoriprendendo tutto, e il suo amico, testimoni del disastro. “Glielo racconterai tu” (al mondo). La risposta è: “Devono vederlo, capisci”. Per questo Hud deve continuare a riprendere.
In questa opposizione fra racconto e immagine sta il senso del non perfetto ma comunque bellissimo “Cloverfield”, diretto da Matt Reeves e prodotto da J.J. Abrams (“Lost”). L’immagine filmata è più credibile della parola. Il cinema è racconto per immagini, ma pur sempre racconto, messa in scena. Così si ripropone l’antitesi: travestendo il racconto da documento visivo mediante la soggettività della macchina da presa, mimando i tratti linguistici del documento (il movimento scomposto della videocamera, l’improvvisazione, gli errori), se ne vampirizza l’aspetto di urgenza e di realtà.
In realtà questi tratti linguistici non sono necessari in sé a un documento filmato. Nell’unico grande esempio di mostruosità aliena che conosciamo dalla storia recente, l’attentato dell’11 settembre 2001, al famoso filmato dell’aereo che va verso il grattacielo mancavano proprio questi tratti di improvvisazione; “sembrava un film”, ed è anche questo ad aggiungergli tragicità. Ma ovviamente in una fiction i tratti del documento devono essere enfatizzati, se vogliamo produrre l’illusione di verità. E’ implicito nella natura del falso documento che il dramma si esprima nelle forme del non visto e del mal visto - vale per le immagini del mostro e della sua progenie come per la trasformazione della ragazza morsa, accennata nel caos dei soldati e in ombre sul muro stile anni Quaranta. L’orrore non è sempre visibile e le sue tracce confuse sono più spaventose dell’orrore stesso perché vi aggiungono l’incertezza.
Alla visione confusa del visivo si oppone la nettezza pervasiva e impressionante del sonoro (la magnifica colonna sonora è opera della Lucasfilm, e se non ottiene la nomination all’Oscar per il suono è un’ingiustizia).
E’ su questa immediatezza che si regge “Cloverfield”, omaggio dichiarato ai grandi film di mostri (sono citati “King Kong”, “Assalto alla Terra” e “Il risveglio del dinosauro”), nonché, come quelli, metafora del terrore reale. Il concetto base è che il “documento” filmico venga ritrovato post factum, come una testimonianza e insieme un messaggio in bottiglia - lasciato dopo la constatazione finale che in una frase di dialogo racchiude la grande paura soggiacente al cinema dei mostri: “Non c’è nessun posto dove andare”: il labirinto si è chiuso.
Non tutto funziona nella definizione dei personaggi (per esempio è mal costruito il personaggio di Hud, ora stupido fino all’intollerabile ora no); però c’è nel film un’energia selvaggia e convinta. Ovvia la parentela col capolavoro di Myrick e Sanchez “Blair Witch Project”, al quale lo accomuna anche l’elemento della confessione in una splendida sequenza finale. In effetti pare inevitabile che l’umile camera portatile debba diventare a un certo punto ricettacolo di una confessione, di un’enunciazione – perché la sua natura di immediatezza, tutta proiettata all’esterno, regala alla confessione improvvisa un surplus di drammaticità.
Si situa nella stessa linea la trovata più bella e commovente di tutto il film: la registrazione del disastro avviene sul nastro già registrato di una giornata d’amore e di gita a Coney Island; poiché la registrazione non è in tempo continuo e ci sono degli stacchi casuali (a volte con qualche fatica della sceneggiatura per giustificarli), ogni tanto rispunta qualcosa del registrato precedente: così la tragedia ingloba ed eleva questi frammenti, come i fossili marini che troviamo nella roccia delle montagne. Il finale è straziante, col ritorno al filmato originario di quel giorno di pace, l’avvertimento (che ora assume un valore metaforico) che restano ancora solo 3 secondi di nastro e le parole conclusive, “E’ stata una gran giornata”.

L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford

Andrew Dominik

“Stava varcando la soglia della mezza età” (34 anni!) dice di Jesse James la voce narrante ne “L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford” di Andrew Dominik. La voce narrante, che tante volte (specie nel cinema italiano) è un espediente per aggirare l’impegno della costruzione drammatica, in questo film assume il suo valore più vero e profondo: tragica, distaccata, infinitamente saggia perché segnata dalla conoscenza, ci parla col suo stesso esistere del passare del tempo e del suo dolore. Aiuta a declinare al passato il film, western crepuscolare quanto mai (e memore di grandi esempi precedenti a partire dall’Eastwood de “Gli spietati”). In varie sequenze una sfumatura ai bordi dell’immagine, analoga a quella delle vecchie foto, si aggiunge alla voce narrante per dichiarare che questa è una storia di fantasmi. Il tempo è un veleno che ci muta, corrode le credenze e il rispetto: la leggenda non riesce a resistere al tempo finché non viene congelata nella morte.
Nel lirismo dei panorami, le nuvole che corrono accelerate in questi cieli del West evocano il passare veloce e impietoso del tempo, ma altresì formano una cappa che schiaccia la terra. Un senso di oppressione pesa su tutto: tutti fanno la cosa giusta per loro, e per ciascuno non è che miseria. E’ un film di albe fredde, nottatacce, colazioni tese, menzogne e tradimenti; la leggenda è ricondotta a una costruzione degli uomini, nata con le “pulp novels” su Jesse James che Robert Ford da giovane nascondeva in una cassetta. “E’ tutto falso, lo sai?”, sentiamo dire di questi “pulps” all’inizio. Del resto quello di Jesse James è un suicidio: si toglie la pistola e volta le spalle al suo assassino con il muto stoicismo di un samurai. Non è che con questo voglia entrare nella leggenda: è incastrato in un ruolo predeterminato, come tutti.
E’ un film solenne e mortuario, doloroso anziché vitalistico, psicologico anziché epico; dove gli improvvisi scontri a fuoco non sono estetizzati ma anzi ricondotti alla piccolezza dell’immediato. Se la caratteristica del western classico era quella di purificare l’ambiguità dei comportamenti attraverso la geometria diretta dello scontro a fuoco, in questo film essa ritorna ad essere la grande regola dell’esistenza, e la sua morale è di spararsi alle spalle. Un antecedente illustre di questo realismo è il grande Altman della critica dei generi, segnatamente il western “I compari”, del 1971.
“L’assassinio di Jesse James” si svolge in una dimensione ambigua, incrociando la tensione notturna della rapina al treno e la quotidianità familiare, con Jesse James che ha una moglie e dei figli in una casetta borghese alla periferia della città. Per questo motivo la morte entra con tanta forza nel film: perché qui la morte non è un fulgore di gloria come in tanti scontri western, la morte è confusione e paura, dolore della ferita e lutto dei familiari, un cadavere irrigidito seppellito malamente oppure un uomo che piange nella notte perché ha paura di essere ucciso l’indomani – la morte è, semplicemente, spararsi addosso.
I fratelli Ford sono complici e poi nemici dei fratelli James (poi nella banda c’erano anche i fratelli Younger): questo è il “familismo amorale” del West, certo, ma crea anche un’angosciosa galleria di doppi. Al fondo di tutto sta che Robert Ford vorrebbe essere Jesse James e sa che non lo sarà mai (nel colloquio all’inizio del film, glielo dice il fratello di Jesse, Frank, dopo che Robert lo ha approcciato, untuoso e loquace come sempre: “Tu non sei niente di speciale, signor Ford”; “Non hai gli ingredienti adatti, ragazzo”). Se ne accorge anche Jesse stesso: “Tu vuoi essere come me o vuoi essere me?”
Così Robert Ford, qualunque cosa faccia, è un perdente. Uccidere Jesse James è certamente una garanzia di salvarsi, ma soprattutto un modo di rompere lo specchio, e una forma vicaria di immortalità – ma a teatro Robert Ford sarà costretto a ripetere per sempre il suo atto, come in un inferno dantesco; e si porterà dietro l’appellativo di “coward” per tutta la (non lunga) vita.

sabato 16 febbraio 2008

L'innocenza del peccato

Claude Chabrol

Ottima regia e cattiva sceneggiatura: in questa contraddizione si brucia l’ultimo film scritto e diretto da Claude Chabrol, “L’innocenza del peccato” (sciocco titolo italiano per “La Fille coupée en deux”). Perché indubbiamente la regia è assai buona; sul piano narrativo il montaggio è splendido, con quei bellissimi stacchi, così bruschi. Anche a livello di sceneggiatura la prima parte va senz’altro bene. E’ la parte della seduzione: l’anziano Charles, scrittore famoso e donnaiolo, si porta a letto l’ambiziosa Gabrielle… o forse è il contrario… che ha un terzo dei suoi anni. Poi la porterà anche in un bar di scambisti dove lei si fa possedere da alcuni uomini sotto i suoi occhi. In seguito Charles (peraltro, l’unico personaggio simpatico del film) fa il cialtrone: parte in viaggio e fa cambiare la serratura. Nota bene: qui si nasconde una storia tre volte più affascinante, la storia della sua paura segreta di unirsi a questa ventenne - ma Chabrol letteralmente non se ne accorge.
E’ quando Gabrielle, depressa per l’abbandono, si lega alla figura mal delineata del ricco psicolabile Paul che il film crolla (le loro scene a Lisbona sono addirittura imbarazzanti); emerge in primo piano quell’aspetto pensato, artificioso, vagamente ideologico ch’è il pericolo costante di Chabrol. Ancora innamorata di Charles, Gabrielle sposa il flippato; Paul uccide Charles per gelosia retrospettiva, perché ha “pervertito” Gabrielle; riceverà una condanna mite in quanto Gabrielle - il cui comportamento nel corso del film è sempre in funzione delle comodità dello sceneggiatore - testimoniando al processo accetta, per così dire, di sputtanare Charles.
Vedendo “L’innocenza del peccato” si direbbe che Chabrol ha fatto un film ambientato al giorno d’oggi perché non aveva i soldi per ambientarlo nel 1950. Lo percorre un forte senso di anacronismo; tanto che mi sono chiesto più volte se all’inizio non ci fosse una didascalia di tempo che mi è sfuggita; solo che i telefonini sono moderni, e comunque, per adeguare il racconto al periodo bisognerebbe risalire all’epoca pre-cellulari. Infatti oggi fare lo scambista non è l’inconfessabile segreto dell’industriale, del maturo scrittore, dell’avvocato di grido - ma dell’impiegato di banca, del funzionario del catasto, dell’edicolante, dell’operaio. L’ha capito Tinto Brass, e non l’ha capito Chabrol? Diavolo, anni fa qualcuno aveva perfino cercato di fondare l’Arci scambisti! (ma l’Arci nazionale disse di no). “L’innocenza” sembra svolgersi in un mondo parallelo, dove c’è la televisione ma non Internet, il telefonino ma non il Viagra, le orge ma non la coca, il sesso ma non l’omosessualità, i matti ma non gli psicofarmaci – e in cui le trasgressioni sessuali fanno la stessa sensazione di una volta (se Chabrol conoscesse Madameweb gli verrebbe un coccolone!). Invero, “L’innocenza del peccato” è un film in costume: giacché i personaggi sono inseriti dentro un costume, nel senso di usanze e morale, che appartiene al passato.
Va detto che Chabrol lavora sempre su un elemento atemporale, un po’ come Agatha Christie; il mondo borghese dei suoi film è una sorta di teatrino extrastorico, una Francia a metà strada fra quella reale e la provincia dei romanzi di Simenon (che però delineano in modo fulminante in uno spazio e un tempo anche senza bisogno di datazione). Il problema è che nel presente film l’ambientazione vagamente irreale introduce una dimensione di anacronismo che per reggere sul piano artistico dovrebbe essere convinto e creativo. Purtroppo qui non è né l’uno né l’altro. I personaggi restano astratti e macchiettistici – a partire dall’insopportabile Paul, sociologicamente improbabile, narrativamente forzato, meccanica rotella di uno svolgimento poco plausibile. I comportamenti sono poco giustificati sul piano narrativo: vale per Gabrielle, vale per sua madre, altra mera rotella della debole costruzione di Chabrol. Il quale, come il suo protagonista, è vecchio. A differenza del suo protagonista, non ama le novità.

(Il Nuovo FVG)

domenica 10 febbraio 2008

La sposa cadavere

Tim Burton

Se si può affermare che “La sposa cadavere” di Tim Burton (co-regista Mike Johnson) è uno dei film più importanti del 2005, non è solo per l’eccellente lavoro di animazione, una certosina realizzazione con pupazzi mossi a passo uno, dove la perizia tecnica e artistica dà una commovente intensità ai visi e una sorprendente fluidità ai movimenti. Soprattutto ciò serve a un’illustrazione umanissima, mirabilmente viva e patetica, del romanticismo burtoniano.
Mix di umorismo sfrenato e di straziante mélo, “La sposa cadavere” è un magnifico musical macabro (una nota di merito per Fabrizio Emigli, autore degli adattamenti italiani delle canzoni di Danny Elfman; “la nostra piccina / con quel muso da faina” è delizioso) - nonché ovviamente una “summa” del cinema di Burton, uno dei più coerenti del panorama americano. Tim Burton, si sa, ha sempre sentito la fascinazione della morte e dei cadaveri, da cui provengono al film superbe gags. Nel suo cinema - fatto di rovesciamenti dimensionali, di confusione dei limiti, in cui si scambiano il sopra e il sotto, il dentro e il fuori - è un tema fondamentale quello dell’esclusione, della barriera; e quale barriera è più radicata di quella che separa dai morti dai vivi?
La fonte del film, ci viene detto, è una fiaba russa; però il concetto (l’anello nuziale messo per scherzo al dito di qualcosa d’inanimato, che si anima e pretende il mantenimento della promessa) è diffusissimo, e per esempio sta alla base del famoso racconto di Mérimée “La Venere d’Ille”. Burton, coi suoi sceneggiatori, lo arricchisce col proprio consueto repertorio di omaggi e citazioni (in realtà, attivazioni di una memoria culturale di massa); d’obbligo menzionare quella, di comicità inimitabile, da “Via col vento”; ma una di esse in particolare ha valore fondante, ed è la canzone con danza degli scheletri quando Victor si ritrova nel mondo dei morti. Il riferimento è ovviamente alla “Silly Symphony” di Walt Disney “Skeleton Dance” del 1929 (ma la regia ricorda anche la scena delle allucinazioni di “Dumbo”). Essa sta alla base del film col suo doppio concetto di una vita d’oltretomba festaiola e musicale e dello scheletro come corpo scomponibile e ricomponibile. Il corpo smontabile è un’altra delle ossessioni di Burton; lo scheletro che allegramente va in pezzi e si rimonta è il suo approdo logico definitivo (del resto basta guardare il cagnetto-scheletro Briciola, che viene regalato a Victor a pezzi in una scatola, esattamente come un kit).
Parlare di esclusione ci porta a un altro tema base del cinema di Burton, il sentimento adolescenziale di sentirsi rifiutati. Lo incarnano i fidanzati Victor e Victoria (la commedia omonima non c’entra; “Victor” è l’omaggio di Burton agli amati film di Frankenstein, “Victoria” è per marcare la sua caratteristica di duplicazione di Victor, egualmente gentile e sognatrice). Sono tipiche figurine burtoniane, “elfiche”, come spesso vien da scrivere, timide, isolate, sognanti; al pari di Emily, la sposa cadavere - epitome e capintesta del mondo dei morti, i classici mostri gentili dell’autore.
Tutto il cinema di Burton è una rivolta contro i valori dominanti, quelli della borghesia americana d’oggi come quelli vittoriani di ieri. Qui, con tocco geniale, la contrapposizione fra il mondo dei vivi, egoista e arido (l’incipit del film serve a porre il concetto alienante della città meccanica), e il mondo dei morti, festoso e pieno di calore e gentilezza, si trasforma in un’opposizione di colori. Il mondo dei vivi è grigio, tutto fatto di colori smorti all’estremo; il mondo dei morti è un trionfo di colori caldi, turchese, rosso, viola, verde, arancione. Così, l’irruzione finale dei morti nella città dei viventi è il perfetto film di zombi, nel senso che mette traumaticamente a contatto i due mondi - anche se risulta in una poetica rappacificazione. Tim Burton è lontanissimo dall’ironia dissolvente del tardo Novecento; la sua concezione narrativo-morale è apertamente romantica. Anche per questo lo amiamo.

(Il Nuovo FVG)

domenica 3 febbraio 2008

American Gangster

Ridley Scott

Asciutta cronaca in montaggio parallelo dell’incrociarsi delle vite del padrino nero Frank Lucas (importatore di eroina dall’estremo Oriente dentro le bare dei caduti americani in Vietnam) e del poliziotto Richie Roberts (che lo cattura e lo convince a parlare, epurando la corrottissima polizia newyorkese), “American Gangster” di Ridley Scott è un “gangster movie” dalla potente costruzione visuale – non dimenticheremo i grigi azzurrini di New York nella fotografia di Harris Savides (“Zodiac”, “Elephant”) – e narrativa. Per esempio, il pedinamento in auto è bello al pari di “French Connection” di Frankenheimer, film al quale si paga omaggio nel dialogo (inutile poi elogiare la superba sequenza dell’irruzione).
Ridley Scott, si sa, ama centrare i suoi racconti su un dualismo, una polarizzazione. Due personaggi (ottime interpretazioni di Denzel Washington e Russell Crowe, una giocata sui muscoli del viso e una sugli occhi, una sul rigido e una sul molle) si contraddicono e si confrontano. Ambedue portano negli occhi il dolore di chi “ha visto”, altro discorso presente in tutto il cinema di Scott; e questa terribilità del vedere, come accade spesso in Scott, è declinata al passato: il film implica un doppio “già accaduto” della visione irreparabile. Lo esteriorizza solo Frank, col racconto della morte del cugino, ma la vediamo scritta pure negli occhi dell’introverso Richie: ha fatto troppo, ha rischiato troppo, si è sbattuto troppe volte fra poliziotti corrotti per i quali un collega onesto è un “lebbroso”.
Il film traccia continui, eleganti, a volte barocchi legami fra i due. Ciascuno dei due segue, per vie diverse, un percorso di promozione sociale (Frank da autista del boss a boss, Richie da poliziotto ad avvocato). Ciascuno dei due ha una sua integrità contraddittoria. Richie è di un’onestà quasi masochistica e sacrificale, ma combinata con una vita familiare disordinata fra donne e guai. “Finirai nello stesso inferno di quei poliziotti corrotti che non sopporti”, gli grida l’odiosa moglie all’udienza di divorzio - ed è interessante chiedersi se sia il disordine esistenziale o non piuttosto quell’onestà per cui evita di appropriarsi di un milione di dollari che gli rimprovera la moglie “bitch” (c’è un’intuizione in proposito nel film, ma poi risolta un po’ facilmente in un’autocritica “sexually correct”). Frank è l’uomo che la domenica va alla chiesa battista con la madre, ma la sua ricchezza viene dall’eroina purissima di cui inonda le strade. “Onestà, integrità, duro lavoro e famiglia”, predica ai suoi fratelli, né si rende conto della contraddizione (grande la sua aria di stupita delusione quando il nipote rinuncia a una carriera nel baseball dicendogli “Voglio essere come te”). Richie e Frank sono ambedue incarnazioni di una stessa “coscienza infelice”, scissa e spezzata, ch’è quella dell’America.
“American Gangster” - l’opera più importante di Ridley Scott dai tempi de “Il gladiatore” - è dunque un altro di quei film che materializzano sullo schermo il Grande Romanzo Americano: al di là della vicenda si dipinge in prospettiva il quadro di un’intera società, e la critica di essa. Frank, che realizza il sogno americano del “self made man”, è un imprenditore; la lavorazione della droga (compiuta da donne nude, a scanso di furti) e lo smistamento sono descritti in termini di catena di montaggio; il suo litigio col distributore che ha alterato le dosi di “Blue Magic” è un perfetto discorso imprenditoriale sulla fiducia pubblica nel logo: “Fai una violazione del marchio di fabbrica, capisci?” Del resto, anche l’episodio della megapelliccia – causa la quale si fa notare, e che poi brucia - non è solo mimetismo gangsteristico, basso profilo; possiamo vedervi un lontano barbaglio di calvinismo secolarizzato.
E la guerra del Vietnam che rimbomba ossessivamente dai televisori, sicché ne vediamo, lungo l’arco del film, l’intera storia, vale come una sorta di controcanto della loro vicenda. Il Sogno Americano in un’epoca impazzita.

(Il Nuovo FVG)