venerdì 25 luglio 2008

Hellboy - The Golden Army

Guillermo Del Toro

Benché inferiore allo splendido primo episodio, come accade quasi sempre, “Hellboy –The Golden Army” di Guillermo Del Toro è un film piacevolissimo e una vera festa per gli occhi. Il cinema di Del Toro trascrive sempre il gusto del racconto, intessuto di una sorta di convinzione “camp”, in forme visualmente sontuose (vedi qui l’Angelo della Morte, derivato dalla stessa concezione del mostro con gli occhi sulle mani de “Il labirinto del fauno”). La caratteristica principe dei suoi due “Hellboy”, tratti dal fumetto di Mike Mignola, è appunto l’appeal visivo; sono film fortemente grafici, film-fumetto o film-storyboard - anche se non si esauriscono nei valori visuali. Il secondo “Hellboy” riprende e amplifica l’elemento melodrammatico del primo, il concetto dell’amore infelice e della morte, in una doppia declinazione: con Hellboy e Liz (dove la minaccia della morte dell’essere amato è invertita rispetto al primo film) e con l’uomo-pesce Abe e la principessa degli elfi. Viene invece lasciato in disparte il tema della scissione di Hellboy - diavolo dalle corna mozze che combatte con le forze del bene - fra la sua natura demoniaca e quella umana acquisita: un avvertimento della Morte in proposito resterà criptico per chi non ha visto il primo episodio.
Da notare l’influsso visuale di “Guerre stellari” (1976) di George Lucas. Il mercato dei troll è puro Lucas (mancano solo i Java che vendono pezzi di robot); il logoro casco metallico di Johann Krauss farebbe invidia a Boba Fett; pure l’inquadratura del sotterraneo con l’Armata d’Oro è lucasiana e riefenstahliana (Leni Riefenstahl essendo uno dei modelli ispiratori, non ideologici ma grafici, di Lucas). Anche un mostro digitale come Wink, la guardia del corpo del principe, possiede quel carattere naïf che, con mezzi non digitali, Lucas aveva ricercato in particolare nel primo film della sua saga.
Se il primo “Hellboy” era spiccatamente (post)lovecraftiano, il secondo si situa piuttosto in campo fantasy: concretizzando un mito che vediamo raccontato dal prof. Bruttenholm al piccolo Hellboy (e illustrato in digitale con figurine di apparenza lignea, singolarmente poco efficaci in un film così esuberante), descrive l’attacco all’umanità progettato da un principe degli elfi golpista (cielo, da un punto di vista strettamente elfico ci sarebbe da chiedersi se il principe non abbia ragione), mentre la sua sorella gemella si batte per mantenere lo status quo. La definizione delle due creature non è priva di sfumature (compreso un accenno a una pulsione incestuosa), così da bilanciare quella, ricca e umorosa, di Hellboy e dei suoi compagni. Nota che uno dei motivi per cui Hellboy (il supereroe più brontolone e indisciplinato dopo la Cosa) è così simpatico è perché è “politically uncorrect”: va in giro bevendo lattine su lattine di birra e fumando il sigaro (il film se la cava con un cartello di scuse a fine credits). Rientra nello stesso quadro caratteriale la sua tendenza a evadere dal segreto in cui viene tenuto. Ma in un momento in cui i supereroi sono sottoposti a una specie di stigma invece che all’ammirazione pubblica (la parabola di Batman è quella che meglio illustra questa involuzione), per uno di loro dichiarare la propria esistenza è una forma di “outing” - come per l’omosessualità. Anche “Hellboy” appartiene alla grande riflessione sul destino dei supereroi, respinti dalla stupidità dell’uomo massa. In una sequenza Hellboy ha afferrato un neonato per salvarlo dai tentacoli di un mostro gigantesco e se l’è dovuto portare sottobraccio (il classico “impedimento” dell’eroe) per tutto il combattimento. Alla fine quando lo restituisce alla madre, che non ha capito niente, la stronza lo investe: “Cosa hai fatto al mio bambino?”.
Dice: ma Hellboy è mostruoso. Non confondiamoci: il fatto che i supereroi fossero “giovani e belli” (caso limite, Superman con il tirabaci) e poi siano diventati creature abnormi è effetto, e non causa, della rivoluzione Marvel, “supereroi con superproblemi”: come dire che la loro mostruosità/alienità esteriore è forma simbolica della loro perdita di accettazione sociale. Non è un caso che sugli schermi televisivi di cui Hellboy si circonda passino di continuo immagini di mostri del cinema classico (i “grandi esclusi”): l’uomo-lupo di Lon Chaney jr., il Mostro della Laguna Nera, e Frankenstein con una citazione più lunga, naturalmente la scena culminante di “Wife of Frankenstein” del 1935: “Noi apparteniamo ai morti”.
Ma nel mondo di Hellboy (e nel nostro?), dove il male preme per erompere sotto il fragile strato della normalità, cosa faremmo senza i supereroi?

sabato 5 luglio 2008

Go Go Tales

Abel Ferrara

Stupefacente Abel Ferrara! Chi mai si poteva aspettare che dopo “Mary” - un’alta e solenne meditazione sul dolore e la responsabilità sulla scorta dei Vangeli gnostici - ci offrisse una commedia delirante e sfasciata come il bellissimo “Go Go Tales”? Beh, ad esempio poteva aspettarselo chi conosce “New Rose Hotel” (anche in relazione al voyeurismo erotico di Ferrara); ma in generale, la sensibilità piuttosto pigra del pubblico d’oggi si è ritratta dal film come una vecchia signora che durante la passeggiata pesti una cacca di cane - basta leggere i commenti su Internet (e molta sub-critica si è preoccupata solo della slinguazzata di Asia Argento al suo rottweiler sul palco - che poi ci sta benissimo nel contesto del film e nella definizione del personaggio).
“Go Go Tales - Storie da night club” recupera in termini di screwball comedy l’interrogazione di tutto il cinema di Ferrara sul senso del caso (ambigua volontà di Dio) - e comicamente lo trasforma nel biglietto vincente del lotto. Se Ferrara mette sempre in scena il dramma della caduta (non come punto singolo della storia ma come eternità in atto), “Go Go Tales” lo sottopone alla classica deformazione parodistica: la riduzione basso-mimetica alla più quotidiana immediatezza vitale. Come “Vedrai, s’al cantar mio porgi l’orecchia, / Elena trasformarsi in una secchia” (Tassoni), così vediamo il Paradise (Lost?), misero nightclub d’infima tacca, rischiar di chiudere per mancanza di soldi, di fiducia, di buona amministrazione.
Il manager Ray (Willem Dafoe) con la sua impacciata coorte di sodali cerca disperatamente di tappare le falle ma il disastro è alle porte. Il futuro sono i cinesi, dicono; ma il pullman di cinesi - affamati di granchio più che di lap dance - si lascia dirottare dalle promesse gastronomiche di un procacciatore in costume da crostaceo. I creditori incalzano, le spogliarelliste non pagate minacciano lo sciopero. L’unica speranza è nel gioco del lotto - fa meraviglia che si perdano il biglietto vincente?
Il film è un’interminabile notte di chiacchiere, isterismo, bevute, splendidi sederi femminili, episodi tragicomici e personaggi pazzeschi (il culmine è Matthew Modine con frangetta bionda, volpino in braccio e pianoforte giocattolo). La narrazione franta e interlineata sembra un Altman sotto acido, con il frazionamento allucinato (e così ferrariano: “Blackout”, “New Rose Hotel”) dell’esperienza sensoriale. Tutta la vita del Paradise è ossessivamente duplicata dai monitor di cui si circonda Ray, che riportano nel film l’interesse di Ferrara per la riproduzione - perché in Ferrara il film è sempre anche il film del film - e il suo gusto per la contaminazione della pellicola con il video. Ferrara scaraventa come all'impronta i volti di Burt Young, Romina Power, Anita Pallemberg: c’è nel casting qualcosa di molto wellesiano.
In Ferrara il dramma dell’uomo è di sentire di non poter essere diverso da quello che è: poiché è questa la sfida - così spesso persa - dei personaggi di Ferrara, di qui passa la salvezza. Ma “Go Go Tales” può permettersi di declinare questa inalterabilità in termini di commedia. I suoi personaggi si muovono nel breve cerchio dell’immutabile, della coazione a ripetere (alla fine, dopo la vittoria al lotto l’unica scelta che vien loro in mente è continuare a giocare). Anche per questo lo spazio-tempo chiuso e claustrofobico ricorrente nel cinema di Ferrara è, in questo film, più chiuso che mai. Aleggia un’atmosfera notturna e pesante. Il Paradise è un universo chiuso e autoreferenziale (tanto che possiede una moneta sua propria), a cui tutto ritorna. Quando Ray va a giocare al lotto, la sua uscita è pervasa di un’aura di inquietudine come in un film di zombi. I tentativi di fuga da questo universo bloccato sono conati alquanto incerti: la ballerina incinta che chiede ferie pagate; il fratello e socio (Matthew Modine) che vuole tirarsi fuori; la sboccatissima Lilian (Sylvia Miles) che minaccia di chiudere il locale per l’affitto arretrato - tutto un parlare più che un fare. Perfino le spogliarelliste passano la serata strepitando, bitching no-stop, ma tornano ubbidienti allo spettacolo.
E improvvisi irrompono squarci elegiaco-sentimentali, dalla figuretta appena evocata dell’“unica gentile” alla canzone di Dafoe al microfono fino alla sublime pagina in cui Ray e lo staff cacciano via i clienti dicendo che si chiude e si dedicano, per un altro pubblico più dimesso di casalinghe e impiegati, a un commovente microspettacolo d’arte varia (la prestigiatrice, l’attore dilettante, la ballerina sulla punte…). “Go Go Tales” ricorda molto Cassavetes (“L’assassinio di un allibratore cinese”) - anche in questa strana e intensa umanità.

(Il Nuovo FVG)