sabato 25 ottobre 2008

Miracolo a Sant'Anna

Spike Lee

E così, raccontano i giornali, Spike Lee ha licenziato il suo agente come risposta al fallimento commerciale negli USA di “Miracolo a Sant'Anna” – comportandosi come Caligola che fa frustare il messaggero, invece di riflettere sulle manchevolezze proprie circa questo film su un gruppo di soldati neri nel 1944, sperduto fra le montagne toscane, che si mischia con i montanari locali e i partigiani, fra i quali si annida un traditore. Beninteso, qui non c'entra nulla il pianto greco della nostra sinistra perché il cattivo Spike le ha rotto il giocattolo della retorica resistenziale; qui il fatto è che Spike Lee non ha semplicemente sfornato un’opera sbagliata come può accadere a tutti (a lui per esempio con “Girl 6 – Sesso in linea”) ma ha realizzato un film di inconsistenza drammaturgica, mediocrità narrativa, goffaggine di messa in scena tali, che in confronto Edward Wood jr. sembra Jean Renoir.
La storia - un lunghissimo flashback entro una cornice del 1984 (riguardante l’atto inspiegabile di un impiegato delle poste, ex militare decorato, che spara a un cliente con una Luger) - ambiziosamente tocca una quantità di argomenti: la tragica condizione dei soldati negri nella seconda guerra mondiale, comandati da ufficiali bianchi razzisti che li odiano; l'Italia desolata del 1944; la scissione dei tedeschi fra crudeltà e coscienza; i drammi psicologici e politici dei partigiani; più un pizzico di fantastico; più una testa scolpita del '500, che non c'entra un fico. E il dramma del film non è che segua troppe piste narrative, ma che ciascuna di queste è seguita in modo incerto, retorico, falso e confuso. La tendenza al romanzone totale (di temi e di sentimenti) si arena fra poeticismo ricattatorio e desolante inettitudine.
Il solo momento in cui la firma di Spike Lee mantiene un senso è l'apertura, realistica, sorprendente (lo sparo), anche elegante: ci ricorderemo di quel bel movimento avanti della mdp verso la porta, all'altezza del tappeto. Ma poi il film va giù per il piano incrinato del ridicolo involontario. Già all'inizio del flashback bellico, con la propagandista nazi che parla a Radio Berlino sotto i ritratti di Hitler e Goebbels e fa profferte sessuali ai soldati negri a nome di tutte le donne tedesche (che amano i maschioni neri, dice), vediamo che Spike Lee conosce meglio la storia del basket che quella del Novecento. Il film è letteralmente costellato di scemenze, vuoi di messa in scena storica, come Valentina Cervi che si lava a torso nudo all'aperto esibendo le tette al soldato nero (capite, fra i montanari toscani del 1944 il topless era “de rigueur”), vuoi di ricerca dell’effettazzo sentimentale: il bambino scemo che, incontrando il grosso soldato negro scemo pure lui, con vocina impostata e blesa flauta “Un gigante di cioccolata!” (e poi lo lecca e protesta “Ma non sciei di scioccolata, scigante”) è uno dei casi limite di zuccherosità leziosa e fasulla raggiunti dal cinema moderno. Diamo per scontato i guasti prodotti da un doppiaggio che grida vendetta al cielo, ma non possiamo caricar tutto sulle spalle degli sciagurati doppiatori. Quando Valentina Cervi, dopo essersi fatta sedurre dal soldato pseudo-poetico (“Lasciami entrare nel tuo giardino”), riappare con addosso l'elmetto e col fucile, l’effetto – prima che artisticamente imbarazzante – è sghignazzevole: uno di quegli anticlimax alla “Frankenstein junior”.
I rapporti fra italiani e soldati negri aprono una delle questioni più evidenti e ridicole del film: in che lingua parlano? Dopo buffi accenno iniziali di comunicazione smozzicata e a segni fra italiano e italiano, tutti si capiscono benissimo, anche su questioni filosofiche ovvero su leggende locali; pure il bambino col soldato; sicché l'unica spiegazione è che parlino esperanto. I tedeschi non devono essere bravi esperantisti, perché il prigioniero “che sa” resta muto con espressione ebete finché non viene ammazzato.
Tutti sono figure piatte e convenzionali, macchiette, stereotipi da burletta, dal comportamento artificioso e improbabile: i tedeschi, i partigiani, i contadini e, “last but not least”, i soldati negri stessi. Un fintume presuntuoso e soddisfatto di sé tracima e si diffonde per tutto il film, rendendolo assai simile a una delle nostre fiction tv. Così il vero problema critico di questo film orribile non è tanto di indicarne forzature e scempiaggini (un tiro al piccione abbastanza facile, già che il film ne è zeppo) ma capire cosa c'entri Spike Lee. Perché quello che conoscevamo come uno dei maggiori registi americani qui non è deludente: è irriconoscibile.

(Il Nuovo FVG)

Mamma mia!

Phyllida Lloyd

“I have a dream / A song to sing”, canta sulla barca Amanda Seyfried in apertura di “Mamma mia!” – e potrebbe essere il riassunto del musical come genere. Un musical? Quasi incredibile che abbia successo da noi, come l’ha avuto questo film di Phyllida Lloyd, versione cinematografica dello spettacolo scritto da Catherine Johnson con le canzoni degli ABBA. Anche lasciando da parte il caso assai specifico di Tim Burton, ci sono stati negli ultimi anni dei musical più belli di questo, ma di successo assai minore: come il notevole “Chicago” di Rob Marshall e lo splendido, sottovalutato “Romance & Cigarettes” di John Turturro.
Non per negare che “Mamma mia!” (in cui una ragazza cresciuta con la madre single su un’isola greca invita di nascosto al proprio matrimonio i tre amanti della madre di vent’anni prima, uno dei quali è suo padre e non lo sa) sia molto piacevole. Gli ABBA non sono Cole Porter, ma le loro canzoni sono orecchiabili - e le “lyrics” sono belle, con rime spiritose e molta umanità. La location greca non viene sprecata, e le coreografie mantengono una dimensione collettiva elementare ma ben costruita (deliziosa la corsa trionfale che coinvolge tutte le donne del paese, vecchiette comprese, fino al tuffo finale in mare). Servita da un buon montaggio veloce, la regia è corretta, anche se bada più a muovere la mdp che a trarre il possibile dai volti dei paesani. Il film deve tutto alla buona performance degli interpreti. Non solo l’eccellente Meryl Streep, che balla e canta in salopette come se non avesse fatto mai altro nella vita, e senza sorpresa ruba la scena a tutti, fino a esplodere nella bella canzone sull'amore passato e il rimpianto, “The Winner Takes It All”: la scena madre del film. Meryl Streep trova due buone spalle nelle amiche classicamente contrapposte, Julie Walters e la scatenata Christine Baranski; i tre padri putativi (Stellan Skarsgard, Pierce Brosnan e Colin Firth) godono di un certo gioco di definizione psicologica che li differenzia e li ravviva; volutamente un po' leziosa, la figlia, Amanda Seyfried, regge bene il confronto.
Nonostante tutto l’allegro giovanilismo che li circonda (interessante perché vagamente incestuosa la scena dei “padri” letteralmente travolti da un'orda orgiastica di giovanissime sbronze e assatanate), nel film i “vecchi” sono centrali rispetto ai giovani. Questo perché il punto di vista profondo del film non è quello della speranza nel futuro dell'età giovanile ma quello del rimpianto e dello smarrimento dell'età matura. Il tema sotteso a “Mamma mia!” è il senso del passato, il fuggire del tempo, il rimpianto per le scelte fatte. Proprio questo tempo passato si è fisicamente incarnato in una persona, la figlia che i tre non sanno di avere, e che rappresenta il tramite con l’oggi ma al tempo stesso l'ostacolo: come in un mélo di Douglas Sirk, solo con la sua uscita di scena la madre e il suo innamorato potranno ritrovarsi.
Bisogna sottolineare che la gioventù di Meryl Streep, delle sue amiche e dei suoi tre amanti si situa alla fine dell’onda lunga degli hippies (con ciò fornendo abbondante occasione di scherzi al film, come quando vediamo i tre gentiluomini coi capelli lunghi della gioventù); sono i “baby-boomers” degli anni settanta. Perché la notazione generazionale sia importante lo spiega assai bene una delle canzoni migliori, che dice: “In realtà avevamo paura di volare... di diventare vecchi”. Quella generazione è quella che nel XX secolo ha maggiormente lottato contro il tempo, quella che ha cercato di rimuovere il concetto stesso di crescita, l'invecchiare, le responsabilità - come la famiglia - che porta con sé. Proprio per questo i “baby-boomers” erano (sono) tragicamente sensibili al passare del tempo.
La riapparizione reiterata dei sei nel film con costumi e canzoni stile anni Settanta è celebrativa e al tempo stesso comica: perché è un travestimento: il rimettere i panni d’una volta per evocare temporaneamente un passato che è passato. Mentre sembra esorcizzarlo, riconosce e celebra quel golfo dolceamaro del tempo che ha alle spalle ormai.

(Il Nuovo FVG)

domenica 12 ottobre 2008

Giornate del Cinema Muto di Pordenone 2008

Per ragioni familiari il vostro recensore non ha potuto seguire quest’anno le Giornate del Cinema Muto di Pordenone, salvo l’inizio e la chiusura. Certo un peccato, perché il programma non è stato solo intelligente e stimolante - questo con le Giornate è un dato acquisito in partenza ogni anno - ma particolarmente divertente pure.
Già il giorno inaugurale, il 4 ottobre, bastava per capire che il viaggio delle Giornate 2008 si sarebbe svolto col vento in poppa. Avrebbe meritato l’onore di una serata già il primo film proiettato nel pomeriggio, “Knock ou Le triomphe de la médecine” (1925) di René Hervil. E’ ben nota anche in Italia la commedia satirica di Jules Romains, dove il dottor Knock - convinto che un uomo sano è semplicemente un malato che non sa di esserlo - arriva in un paese di contadini che sprizzano salute e con abile psicologia intimidatoria li converte, trasformando il luogo in un gigantesco ospedale. Realizzato due anni dopo l’uscita della pièce, il film presenta un’ottima interpretazione di Fernand Fabre nel ruolo eponimo, che a teatro era stato di Louis Jouvet. Soffre di una qualche lentezza iniziale; ma quando questo dottore dagli occhi gelidi si reca nella sua nuova condotta di St. Maurice e comincia le sue operazioni, il film prende ala, fino a sfociare (con la dittatura medica di Knock, che nel finale passa da opportunista a profeta mistico) in una delirante anticipazione del totalitarismo destinato a travolgere l’Europa. Con “Knock” si apriva la sezione “Tocco francese”, comprendente una serie di preziose ri/scoperte (con molto Jacques Feyder); congiungendola idealmente alla superba rassegna René Clair dell’anno precedente, vediamo confermarsi che il cinema francese degli anni Venti è uno scrigno dal quale le Giornate hanno ancora molti tesori da estrarre.
“Sparrows” (1926, di William Beaudine) è il film evento che alla sera ha propriamente inaugurato il festival, con il commento musicale dell’Orchestra Sinfonica del Friuli Venezia Giulia su una partitura di Jeffrey Silverman. Una magnifica Mary Pickford difende una decina di bambini maltrattati come lei, in una fattoria sperduta fra le paludi della Louisiana, dal gestore di una sorta di asilo illegale, il malvagio e sciancato Mr. Grimes (memorabile interpretazione di Gustav von Seyffertitz, un valoroso caratterista la cui galleria di “villains” include il Kaiser nel cinema di propaganda di guerra e il Professor Moriarty di Sherlock Holmes). Giustamente è stata evocata l’ombra di Dickens per questo mix di avventura e melodramma, dalle sorprendenti qualità spettacolari, che per la sua crudeltà non ebbe alla sua uscita il successo sperato.
Accanto alla ricchezza delle interpretazioni, conviene segnalare innanzitutto la scenografia, che crea un incubo di puro “Southern Gothic”, fatto di baracche cadenti fra gli alberi infiniti, paludi pronte a risucchiarti nelle proprie profondità e alligatori in agguato (le scene in cui i bambini della pericolosa fuga dei bambini contengono una carica di suspence agghiacciante; alcune inquadrature ricordano i quasi coevi pericoli di Skull Island in “King Kong”). Ma l’aspetto più importante è la presenza dell’umorismo. Senza sorpresa, “Sparrows” contiene un forte côté religioso, affrontando l’argomento più forte - le sofferenze dei bambini - che possa mettere alla prova qualsiasi teodicea. Ma allo stesso tempo inserisce nel quadro sentimental-horror (e nell’ultima parte francamente avventuroso) una coloritura umoristica di franca comicità. In tal modo il film, pur senza perdere il suo tono “dark”, nasconde quell’alone di ricatto sentimentale sul quale pure gioca: è una “versione comica del drammatico” - e un film molto griffithiano, aggiungerei, approfittandone per ricordare che quest’anno si concludeva il gigantesco Progetto Griffith.
Infine, a chiusura di serata, ha fatto scoppiare tutti dalle risate “Running Wild”, del grande Gregory La Cava, con W.C. Fields, protagonista di un omaggio alle Giornate 2008. Tutti noi, si capisce, adoriamo W.C. Fields. Uno non può essere un amante del cinema altrimenti (anzi, non può essere neppure umano). Però finora egli era per noi l’epitome stessa del comico “di parola” - nel suo caso, sarebbe meglio dire “di suono”. E’ stata una sorpresa strabiliante vedere la sua grandezza come attore del muto. Attore “trasparente”, lo vorrei definire, nel senso che riesce a trasmettere la minima sfumatura, il sentimento più sottile e passeggero, la più piccola nuance, con una capacità “telepatica” che aggancia il pubblico dallo schermo alla sala, fulminante, come raramente capita di sperimentare in tutto l’immenso corpus del cinema muto. Ecco una figura che era già grande prima e ci appare ora ancora più grande - grazie alle Giornate.

Giornate del Cinema Muto di Pordenone 2007

Cominciamo questo breve riepilogo delle Giornate del Cinema Muto 2007 su una nota dolente: la contraddizione fra la bellezza sempreverde del festival e la patente inadeguatezza del nuovo Teatro Verdi di Pordenone, uno scandalo nazionale costato una valanga di soldi dei contribuenti per costruirlo in maniera disastrosa, e poi modificato alla meglio per limitare il danno. Il risultato è una specie di brutto anatroccolo architettonico (non s’intende l’aspetto estetico ma quello della funzionalità) che a parere di chi scrive rischia di gettare un’ombra sul futuro stesso delle Giornate.
Sarebbe ozioso stabilire quali siano i capolavori assoluti, in un programma così ricco, ma uno di essi è stato di sicuro (e per chi scrive una scoperta) “Chicago”, di Frank Urson, supervisionato da Cecil B. De Mille, che anche lo diresse in parte, non accreditato (doveva uscire la sua epica vita di Cristo “Il Re dei Re”, e non poteva firmare questa commedia “outrée”). Tratto da una commedia di Maurine Watkins poi portata sullo schermo altre due volte (nel 1942 e nel 2002 coll’eccellente musical di Rob Marshall), “Chicago” è l’ironico racconto di una “cause celèbre”. Roxie Hart, una poco di buono con l’intelligenza di un coniglio ma l’aspetto di un angelo, uccide l’amante che l’ha respinta. Nonostante il marito innamorato cerchi di salvarla, rischia la pena di morte. Grazie alla stampa e a un abile avvocato, trasforma il suo processo in un circo mediatico (vedete, i dementi televisivi d’oggigiorno non hanno inventato niente) e diventa una sorta di eroina di massa. Verrà assolta, ma non si gode la vittoria: il marito l’abbandona e un nuovo omicidio spettacolare la fa ripiombare nell’oscurità. Che dire di questo film del 1927? Soltanto questo: dovrà passare un quarto di secolo prima che nel cinema americano compaia un’opera satirica altrettanto lucida e cinica, quasi brechtiana – alludo a “The Big Carnival” (“L’asso nella manica”) di Billy Wilder, che è del 1951.
Si avvia a compimento il prodigioso Progetto Griffith, con i film del 1921-1924 come “Le due orfanelle”; ma senza voler togliere nulla a nessuno, l’edizione 2007 delle Giornate resterà legata nel ricordo al nome di René Clair, il maestro francese che un tempo era considerato, con un po’ d’esagerazione, quasi al livello di Renoir, ed oggi ingiustamente è mezzo dimenticato. E’ stato un piacere infinito rivedere (o scoprire) opere di scintillante freschezza quali “Un cappello di paglia di Firenze” – la dimostrazione matematica di come andasse realizzata una commedia nel cinema muto – o il pazzo “Paris qui dort” o il raffinato gioco visuale del documentario sulla Torre Eiffel “La Tour”, ma anche film meno conosciuti come la deliziosa commedia “Les deux timides”. E pure un film di livello inferiore come “Le Fantôme du Moulin Rouge”, macchinoso nella costruzione e stranamente (per Clair) incerto fra i registri del dramma e dell’ironia, contiene abbastanza inventiva da soddisfare lo spettatore. Sarebbe davvero provvidenziale se questo omaggio ai suoi film muti servisse a innestare una “Clair-renaissance” generale.
Un secondo autore che meritava da tempo l’onore di una retrospettiva è Lazar Starewitch, russo trapiantato in Francia dopo la rivoluzione, un titano dell’animazione di figurine tridimensionali costruite e animate con pazienza certosina – il suo grande campo sono gli insetti – con dei cortometraggi che si possono definire solo incantevoli. Certo, Starewitch è un nome noto e non è impossibile capitare, nella tv notturna, su qualche sua opera, però vederle su grande schermo è un’altra di quelle esperienze memorabili che le Giornate sanno offrire.
Peraltro non va passata sotto silenzio un’altra grande retrospettiva, intitolata “L’altra Weimar”, con la produzione tedesca meno nota (rispetto ai Lang e ai Murnau), che ci auguriamo possa prolungarsi nel futuro, perché c’è molto da scoprire. Anche qui, fra tanti nomi da conoscere maggiormente, tra i vari Grune, Mack e Oswald, chi scrive vorrebbe menzionare in particolare un regista attivo fra muto e parlato, Reinhold Schünzel. E’ apparso alle Giornate in qualità di supervisore del film del 1927 “Der Himmel auf Erde” (diretta da Alfred Schirokauer), una commedia sull’ambiente del night club, narrata con notevole abilità – non per niente Schünzel dirigerà in seguito il primo “Victor Victoria” – e non priva di sensualità quando la macchina da presa si sofferma con particolarissimo gusto sui corpi grassocci delle ballerine.
Infine, da qualche anno i cosiddetti “muti del XXI secolo”, cortometraggi muti contemporanei, sono di moda alle Giornate. Ma ha destato qualche sconcerto - si vedeva dalle facce - il cortometraggio “El ultimo deseo” (Spagna 2005) di Simon Birrell: piuttosto raro vedere, nel tempio di Lilian Gish, assassinii, “gore”, nudità e sesso lesbico. “El ultimo deseo” può scandalizzare i puristi per una sorta di feconda contraddizione fra il tema e il linguaggio; voglio dire che, mentre di solito i film muti del XXI secolo in qualche modo si rifanno al contesto culturale del muto o quanto meno sono compatibili con esso, “El ultimo deseo” si riallaccia in chiave di omaggio cinefilo al cinema contemporaneo del sesso e del sangue. Nel film, realizzato con buon occhio erotico-sadico-feticista, è evidente il riferimento visuale all’horror erotico spagnolo di J.R. Larraz, anche citato nei ringraziamenti, e di Jesus Franco: cui rende omaggio anche la presenza come protagonista di un suo attore feticcio, Jack Taylor (inoltre, anche la splendida infermiera seduttrice e assassina incarnata da Iris Diaz sembra una Lina Romay - la musa di Franco - dei giorni nostri).

mercoledì 1 ottobre 2008

Burn After Reading - A prova di spia

Joel & Ethan Coen

“Totus mundus stultus”. Per i fratelli Coen il noir e la commedia sono egualmente validi per rappresentare quello che a loro più interessa dipingere: la grande assurdità dell’esistenza. Ma la commedia offre loro particolare agio di illustrare al massimo grado un secondo concetto correlato: l’irreparabile stupidità degli esseri umani.
In “Burn After Reading” John Malkovich, analista della CIA sbattuto fuori per alcoolismo, scrive le proprie memorie e poi perde in palestra il dischetto. Lo trovano Frances McDormand (Linda), una complessata in cerca di soldi per la chirurgia plastica, e Brad Pitt, un idiota a tempo pieno. Pensando di avere sottomano il segreto spionistico del secolo, tentano il ricatto, poi la vendita ai russi, e tutto ciò s’incrocia con le multiple avventure di letto in cui si distinguono Tilda Swinton e George Clooney, la prima, moglie di Malkovich e amante del secondo, il secondo, amante di qualunque femmina che respiri.
I Coen realizzano “Burn After Reading” come un crescendo rossiniano, recuperando/pervertendo la commedia classica americana più acida (Sturges e Wilder prima di tutto) – compreso l’elemento irrinunciabile (perché fondante dell’unità festiva del genere) di una felicità corale dell’interpretazione. Il film grida l’inconsistenza assoluta di tutto ciò che si muove e di tutto ciò per cui ci si muove - vedi la gag della rivelazione del misterioso meccanismo che vediamo costruire (con tanto di musica da thriller) da George Clooney. Ad aggiungere comicità alla comicità, e sapore di cenere al sapore di cenere, il CD delle memorie di Malkovich non è neanche un vero MacGuffin. Perché un MacGuffin è un valore per chi lo cerca (magari un valore che alla sua apparizione uccide, come nel folgorante finale di “Un bacio e una pistola” di Aldrich). Invece questo CD è privo di segreti importanti - e tutti quanti sono messi in allarme semplicemente dal movimento, come un cane che insegue la propria coda.
Quando Malkovich grida a Ted (il maturo innamorato di Linda, rappresentante della tradizionale fiammella di umanità nell’assurdità cannibalistica del mondo) “Fai parte di un’associazione di coglioni”, lui, che non sa niente dell’affare, protesta timidamente di no. Però se al posto dell’insultante “coglioni” mettiamo un più neutro “illusi”, allora ci rientra benissimo: questo club si chiama umanità. Detto in margine, Malkovich ha torto di considerarsi esterno all’associazione, mentre invece c’è dentro fino al collo; ma, siamo onesti, ben pochi uomini sono capaci di riconoscersi quando si guardano nello specchio.
Se nella commedia wilderiana, com’è stato ottimamente detto, “l’uomo è un animale che pensa”, nella commedia coeniana “l’uomo è un animale che non pensa”. La stupidità dei comportamenti nel film si rispecchia in quella (scritta con acuta perfidia) dei discorsi. Ma una razza umana (o una specifica American civilization) che non usa più il cervello, presumibilmente atrofizzato, a quale altro organo può rivolgersi per fondare l’autocoscienza? Avete indovinato: proprio a quello. Di conseguenza, “tutti vanno a letto con tutti” – come viene detto nel film – ed è un uragano Katrina di inganni e di corna.
Se per i Coen nel turbinare del mondo l’unico punto fermo è la morte, tanto più nella presente commedia la morte (e come entra imprevista, smentendo la comicità!) rappresenta la sola istanza reale nel gioco delle marionette dementi: la faccia insanguinata del cadavere nell’armadio, l’ascia che scava un solco in un cranio calvo. Parimenti, i Coen riportano nel film quell’elemento di bizzarria contorta che marca il loro cinema. Il fatto che il motore dell’azione sia il sogno di una liposuzione potrebbe appartenere alla commedia cinica di Billy Wilder, ma è puro fratelli Coen il dettaglio della carne cicciosa di Linda, con segni di pennarello nero, che apre la scena della visita del chirurgo estetico. “Burn After Reading” è un catalogo di momenti e notazioni profondamente coeniani – pensiamo alla triste fila delle panchine per sfigati in attesa di incontri trovati su Internet.
Grandi amanti dell’ellissi, i Coen evitano di vellicare lo spettatore come fa molto cinema-babysitter contemporaneo. Omettono ad esempio il passaggio cruciale di Malkovich che perde il CD in palestra: ci basta vedere Brad Pitt che lo sta leggendo al computer mentre l’inserviente Manolo racconta di averlo trovato per terra. In quest’ellissi non si perde la comprensione, perché comprendiamo benissimo, bensì quella povera drammaturgia del cinema d’oggi che accompagna lo spettatore reggendolo per le dande lungo ogni minimo passo del plot. La stessa risoluzione finale (che non vado a esporre qui) è detta e non mostrata, come nella tragedia greca.
E’ particolarmente elemento ironico l’uso ricorrente nel film di due parole: analista e intelligence. Due sostantivi che postulano la comprensione e suonano tragicamente ridicoli in questa Totentanz degli stupidi, dove uomini e istituzioni sono egualmente disorientati. Lo sguardo “dal satellite” che apre e chiude il film (ed è anche lo sguardo onnipresente del cinema: c’è sempre un aggancio metacinematografico nei Coen) è lo sguardo totale e totalitario, lo sguardo del controllo, lo sguardo assoluto dell’intelligence – ma qui è lo sguardo dell’ignoranza. La CIA, l’organismo che dovrebbe rappresentare i cinque sensi dell’America nella lotta delle nazioni per la loro sopravvivenza, meno di tutti capisce cosa succede; e il suo intervento (buffamente provvidenziale) non serve ad accendere lumi ma a spegnerli.
E’ questo un concetto vecchio quanto l’istituzione (military intelligence: contraddizione in termini”, diceva il generale in “Good Morning, Vietnam”), ma i Coen lo declinano con acutezza e humour incomparabili nei dialoghi fra il dirigente della CIA, dagli occhi di rugiada, e il suo sottoposto – fino alla sublime conclusione che dice: Cosa abbiamo imparato da questa storia? Forse a non farlo più. Anche se è difficile, visto che non sappiamo cosa abbiamo fatto. Questa vertigine della non conoscenza (il non-senso delle cose) è la cifra di tutto il cinema coeniano.
Non vorrò qui sostenere che “Burn After Reading” è il miglior film dei fratelli Coen. Mi limito ad attestare che è quasi intollerabilmente intelligente, estremamente divertente (nel suo tono stridulo, ch’è proprio di tutta la commedia coeniana, a parte l’alto e cordiale “Fratello, dove sei?”), splendidamente diretto (e come non menzionare la precisione chirurgica del montaggio?). E che s’inserisce a perfezione nella filmografia coeniana. Può abbondantemente bastare.