mercoledì 30 aprile 2008

Far East Film 2008 - I film, II

Trionfo del Giappone, un en plein senza precedenti, al Far East Film 2008: l’Audience Award è andata a tre film giapponesi, col primo premio a “Gachi Boy – Wrestling with a Memory” di Koizumi Norihiro, seguito nell’ordine da “Adrift in Tokyo” di Miki Satoshi e “Fine, Totally Fine” di Fujita Yosuke. Come se non bastasse, quest’anno si inaugurava il Black Dragon Award, che essendo conferito da chi ha versato una donazione al festival è sicuramente espressione di veri appassionati del cinema orientale; pure in questa graduatoria il secondo e il terzo arrivato erano giapponesi, mentre il vincitore è stato “Mad Detective” di Johnnie To e Wai Ka-fai (alla premiazione, il suo eccezionale interprete Lau Ching-wan indicando To e Wai ha detto: “I’m not mad - they are”). Bisogna sempre diffidare della votazioni, ma in questo doppio trionfo, proveniente da categorie così diverse, credo si possa vedere una conferma di quanto scrivevo giorni fa nel servizio di presentazione del festival: il cinema giapponese è oggi il migliore del panorama asiatico. E il fatto che l’hongkonghese “Mad Detective” sia riuscito a forzare il blocco nipponico non stupisce: a mio parere, è il film più geniale che sia stato proiettato nell’intero festival.
Siccome non avevo ancora parlato di Miki Satoshi, dopo il suo premio viene giusto in taglio questo regista giapponese, autore di commedie cinematografiche dalla comicità vagamente delirante. Il suo cinema ha un amabile andamento episodico e “dégagé” che si esprime volentieri nella forma del viaggio (“Deathfix”, “Adrift in Tokyo”) o della collezione di incontri, come “In the Pool”, storia dei pazzi clienti di un ancor più pazzo psicologo: come le altre commedie di Miki, in primo luogo una collezione di tipi. Attenzione però: non è mai puro meccanismo. Lo vediamo bene in “Deathfix”, il più demenziale dei film demenziali giapponesi, che non si esaurisce nella risata (non che questa non sia un merito) ma raggiunge esiti particolarmente grotteschi e “creepy”, come nella sequenza dello spettacolo nel tendone. Per non dire dell’improvvisa, inaspettata, ingiustificata irruzione citazionistica di “Apocalypse Now”… Il recente “Adrift in Tokyo”, infine, è forse meno fulminante degli altri due (ciò non gli ha impedito di diventare il più grande successo di Miki in Giappone), ma psicologicamente ben fondato con la sua galleria di buffe occorrenze dal fondo molto umano.
La seconda scoperta del Far East Film 2008 è il malaysiano Mamat Khalid. Le sue due parodie horror sono deliziose. In “Kala Malam Bulan Mangambang”, girato in b/n per fare il verso alla tradizione noir (anche con angolazioni iper-espressive e quant’altro), l’astrazione comica raggiunge nei momenti migliori punte di autentico delirio. La sua galleria di personaggi pazzeschi fa pensare un po’ al Mel Brooks di “Frankenstein Junior” e un po’ al Polanski di “Per favore non mordermi sul collo”, però virato sul demenziale; e il suo protagonista, giornalista-investigatore, con la sua aria avventurosa e gaglioffa non può non richiamare alla memoria lo Steve Martin de “Il mistero del cadavere scomparso”. Ma questi riferimenti occidentali non devono mettere in ombra il fatto che Mamat Khalid è molto inserito nella cultura malaysiana. “Zombi Kampung Pisang”, una farsa divertentissima, è costellato di riferimenti alla cultura locale, ed è un vero peccato non poterli cogliere – ma resta il divertimento di fondo a rendere rimarchevole il film, che unisce una fresca sicurezza d’invenzione e una vis comica abilmente “naïve” a una vera perizia nell’uso di ritmi e tempi. Mamat Khalid diventerà sicuramente uno degli “autori-da-seguire” del Far East Film.
Ma ora andiamo a vedere un po’ di film che sono passati nella seconda parte del Festival sugli schermi del Teatro Nuovo di Udine (a parte l’Horror Day, cui ho già accennato in un precedente servizio).
“Funuke, Show Some Love You Losers!” di Yoshida Daihachi. Questa commedia nera giapponese è una ammirevole variazione sul tema della famiglia disfunzionale. Di crudeltà psicologica quasi intollerabile (apprezzabile lo sguardo freddo del regista, che non cede mai al sentimento e così ne lascia la responsabilità allo spettatore), inanella una serie memorabile di personaggi-vignetta – nel senso che la dimensione del manga è un ironico commento laterale al racconto, dal linguaggio estremamente libero e vivace.
“The Detective” (Hong Kong) di Oxide Pang, sempre in collaborazione col fratello gemello Danny, qui in vacanza (beh!... quasi) dalle consuete atmosfere spettrali. Storia della ricerca di una donna da parte di uno scalcinato investigatore privato, quasi rappresenta una trasposizione di echi chandleriani, ma si allarga a una dimensione narrativa interamente orientale – fino a sfumare nel fantastico.
“The Wonder Years”, coreano, di Kim Hee-jung. Nella sua costruzione ellittica, e persino un po’ involuta nella prima parte, riesce a dare un quadro sincero e perfettamente credibile del turbamento adolescenziale. Non si può non menzionare l’ottima interpretazione di Choo Sang-mi e Lee Se-young (rispettivamente la madre e la figlia).
“Resiklo”, filippino, di Mark A. Reyes. Di solito si dice “So bad it's good”, ma questo film è talmente bad che se il modo di dire fosse valido dovrebbe essere extremely good - e non lo è per niente. Ci sono cose molto divertenti, come i plagi ultraspudorati da “Star Wars”, da “Aliens”, dai cartoon giapponesi di mega-robot; buona computer graphics; una scena di battaglia finale (appena accennata) non malaccio sotto il profilo visuale. Ma ci sono anche i bellocci filippini che dicono battute sceme in inglese, un protagonista “dull” fino all'impossibile, una sceneggiatura che sembra inventata sul set mattina per mattina, e così via.
“The Glorious Team Batista” di Nakamura Yoshihiro (Giappone) è un tradizionale giallo (Agatha Christie, l’hanno detto tutti) in ambiente ospedaliero - con in più il brivido visuale delle operazioni a cuore aperto. Non il tipo di film cui uno ripensa per anni, ma gradevole, con una protagonista (Takewuchi Yuko) simpaticissima.
“Our Town”, coreano, di Jung Kil-young. Basta l’inizio con la splendida scena del ritrovamento del cadavere femminile crocifisso – con quell’uso perfetto dello spazio e di brevi movimenti di macchina non per narrare ma per evidenziare sul piano emotivo – per capire di essere davanti a un thriller molto autorevole. La storia è (“more coreano”) molto complicata, ma alla fine i tasselli vanno a posto, e un film iniziato con eleganti movimenti di macchina nello spazio si trasforma in un’infernale esplorazione dell’inconscio.
Lasciamo pure perdere l’inconsistente e kitsch “Magic Boy” (hongkonghese) di Adam Wong.
“Your Friends” (Giappone) di Kiroki Ryuichi, storia di un’amicizia femminile, è magistrale nel suo raffinato intarsio di “racconto primo” e di vari flashback in età progressiva; la sua fotografia sobria e rigorosa, sempre giocata sulla dimensione del campo medio-lungo, dà a questi sentimenti raccontati con pudore un’austera intensità che ha qualcosa quasi di bressoniano, ma piena di tenerezza.
“The Other Half” di Lin Lisheng è il film migliore arrivato dalla Cina continentale. La sua cifra è la rinuncia a una costruzione di tipo drammatico in favore di una costruzione a piccoli tocchi - un’accumulazione a spirale della nostra conoscenza dei personaggi e di conseguenza dell’empatia connessa. Le tre figure femminili protagoniste sono splendidamente delineate e possiedono un elemento di autenticità che sembra farle sprizzare fuori dallo schermo, anche grazie a tre eccellenti interpretazioni.
“Lucky Dog” di Zhang Meng, pure dalla Cina continentale, un film impressionistico fino ai confini dell’irrisolto, ma che alla conclusione ha consegnato allo spettatore un interessantissimo quadro di vita, non privo di dettagli inediti.
“The Rebel” di Charlie Nguyen ha rappresentato il Vietnam al festival. Un film totalmente e perfettamente hollywoodiano – come stile, come personaggi, come drammaturgia – e non dei migliori.
“Fine, Totally Fine” di Fujita Yosuke (Giappone). Una narrazione a mosaico, composta di piccole scene fresche e originali, su un gruppo di personaggi ciascuno a suo modo flippato (il concetto è di sottolineare l’aspetto ossessivo e grottesco di ogni creatura), e ne emerge un mazzo di personaggi che formano un film assai interessante. Il regista ha un vero occhio per le cose concrete, un senso vivace del bizzarro e un umorismo alquanto perverso.
“Ta Pu” di Wang Wei (Cina), su un gruppo di studenti-contadini che devono sostenere l’esame di ammissione all’università, è molto dialogato ma non profondo e commovente come vorrebbe essere. La regia severa di Wang Wei (mota mdp fissa, molte inquadrature “casuali” in campo lungo, molto uso del buio come sfondo) non riesce a dare solennità all’insieme.
“An Empress and the Warriors” (Hong Kong), firmato dal grande Tony Ching Siu-tung, coreografo di arti marziali nonché celebrato regista di “Storia di fantasmi cinesi”, è un piccolo “wuxiapian” piacevole. Ci si può dividere fra chi apprezza le scene di guerra e chi il côté sentimentale (chi scrive è tutto per la prima opzione).
Ed eccoci al film vincitore dell’Audience Award, “Gachi Boy – Wrestling with a Memory” di Koizumi Norihiro. Senza essere il più bello in gara nella selezione giapponese (lo superano “Funuke”, “Peeping Tom”, “Fine, Totally Fine”, “Your Friends”), è molto grazioso, con uno svolgimento spiritoso (che poi dà luogo allo sviluppo drammatico quando viene rivelato il segreto del protagonista) e un atteggiamento di fondo cordiale e umano. Ottimo il protagonista Sato Ryuta.
“Run Papa Run” di Sylvia Chang (Hong Kong). Un film indeciso: non per il fatto di partire come una commedia e di trasformarsi in dramma sentimentale ma per il cambio radicale di linguaggio che accompagna questa trasformazione (col protagonista che prima parla allegramente in macchina e poi no).
“Mad Detective”, di Johnnie To e Wai Ka-fai, è come dicevo il film più geniale del concorso. Parla di un detective pazzo (Lau Ching-wan) che è in grado di vedere la “inner personality” delle persone - per esempio, un poliziotto sospetto di omicidio ne ha ben sette, incarnate da una donna e 6 uomini (uno dei quali è Lam Suet!) che si spostano in gruppo, ciascuno facendo lo stesso gesto degli altri. Per di più, il protagonista ha una sorta di moglie fantasma che gli altri personaggi logicamente non vedono. Il rimbalzare (superbamente intessuto) fra la visione oggettiva del racconto e la visione soggettiva di Lau Ching-wan sposta letteralmente in avanti i confini, modifica le convenzioni del racconto cinematografico. Né è fine a se stesso, ma si inserisce con superba naturalezza nel plot poliziesco e sentimentale, che culmina in una grande sequenza finale di sparatoria in una stanza degli specchi che rende omaggio al Welles di “Lady from Shanghai”.
Stanco per la visione notturna di “Mad Detective”, il pubblico ha affrontato l’ultima giornata del festival – e la sua perseveranza è stata premiata, perché nella mattinata di sabato 26 è stato proiettato uno dei film migliori della settimana, il giapponese “Peeping Tom” di Fukagawa Yoshihiro. Un film fantastico (la cui natura in questo senso si rivela lentamente, ma è abilmente suggerita da alcune stranezze fin dall’inizio) che ricorda le opere di Edogawa Rampo; il suo tema spettrale non è declinato in termini paurosi ma, piuttosto, metafisici. E’ anche molto erotico – non nel senso che sia visivamente osé ma che sa caricare di erotismo i dettagli del corpo frazionato e rubato dallo sguardo che spia; oltre al fatto, naturalmente, che la stessa categoria del voyeurismo spiando attraverso il buco nel muro è di per sé portatrice di senso erotico (superba la serie di sguardi in macchina della bella vicina in un momento di rivelazione verso la fine).
Mentre per “Gone Shopping” (Singapore), di Wee Li Lin, modesta e noiosa commedia drammatica a fondo morale, basta annotare “pfui”.
“Tactical Unit – The Code”, hongkonghese, di Law Wing-cheong, presentato in prima mondiale (non vorrei sbagliarmi, ma credo non sia stato ancora neppure trasmesso alla tv di Hong Kong), è uno spin-off televisivo del capolavoro di Johnnie To “PTU”. Primo di una serie di film tv con i personaggi di quel film, benché un po’ lento a mettersi in moto, rappresenta comunque un eccellente prodotto tv, che ci permette di sospirare: magari avessimo da noi della televisione simile! (e se è per questo - visto come trattano i criminali - amplio la portata del sospiro: magari avessimo da noi la polizia di Hong Kong!).
Sabato il festival ha chiuso in grande con “Sparrow” di Johnnie To. Si tratta di un meraviglioso piccolo film, di una leggerezza che fa pensare a Jacques Demy, in cui quattro borseggiatori sono coinvolti in una complicata vicenda (negli anni ‘60 si sarebbe detta giallo-rosa) che si svolge a ritmo di musica. La sequenza con gli ombrelli sotto la pioggia – una gara di borseggio fra due parti contrapposte - è un autentico balletto, e sono forse i cinque minuti più belli che il Far East Film abbia proiettato nella sua storia.
La sua posizione di ultimo film del festival, alle 22 dopo “Sparrow”, ha indubbiamente penalizzato il difficile “Shadow in the Palace”, thriller storico coreano di Kim Mee-jeung. Non privo di difetti, è comunque un film interessante e dotato di un suo crudele fascino, dalla grande bellezza coreografica che non si oppone alla cupezza del racconto ma anzi la sottolinea. Proiettarlo in quel contesto - anziché, diciamo, in una mattinata - è stato mandarlo allo sbaraglio. Ma questo è un neo minimo. Il Far East Film del decennale ha offerto una selezione eccellente, ed è con piena fiducia che può guardare alla sua seconda decade di vita.

martedì 29 aprile 2008

Far East Film 2008 - Horror Day

Mercoledì 23, al Far East Film di Udine, si rinnova una tradizione: era l’Horror Day, un appuntamento classico del festival, nato sotto il segno del Giappone (con la trilogia “Ring”) ma che sempre più esplora la vivacissima produzione della Thailandia. Avendo mancato un paio di film, menziono subito “Altar” (Filippine), di Rico Maria Ilarde, un “regular” del Far East Film (“Woman of Mud”, “Beneath the Cogon”). E’ un piccolo buon film sui temi della casa infestata e della possessione demoniaca; girato con un budget che definire minimo è ancora poco, risulta tuttavia efficace anche grazie a un ottimo lavoro dell’art director. Manca qui il “tarantinismo” incrociato con la tradizione del cinema horror filippino che si faceva notare nel precedente “Beneath the Cogon”, ma Ilarde dà al suo protagonista una carica di umanità che mancava a quello, più stereotipato, di quel film. Il fatto stesso di avere realizzato un film che funziona con questa limitatezza di mezzi dovrebbe bastare per guardare al regista filippino con interesse e rispetto.
“The Screen at Kamchanod” di Songsat Mongkolthong è una di quelle bellissime sorprese che spesso ci riserba l’horror thailandese (come, l’anno scorso, “The Unseeable” di Wisit Sasanatieng). Il cinema, si sa, è un’operazione magica: ci sono gli spettatori e c’è il film, un intero mondo baluginante sul telone - che poi d’un tratto svanisce. Si dice però che a Kamchanod in Thailandia sia successo esattamente il contrario: si stava proiettando un film in un campo presso una foresta - e sono svaniti gli spettatori.
Verità o leggenda metropolitana che sia, è da questo incidente che prende le mosse “The Screen”, in cui un ricercatore vuole scoprire l’accaduto e riprodurlo a fini scientifici. La prima cosa da fare è dunque di recuperare “quel” film… La storia ha ovvii punti di riferimento con “The Ring” - come vediamo chiaramente quando ci vengono offerte alcune inquadrature del film maledetto - ma c’è anche un’eco del cinema di Kurosawa Kiyoshi nel progressivo spopolamento della città attorno ai protagonisti. La narrazione è estremamente ellittica: il sottotesto fondamentale del rapporto crudele del protagonista con la sua compagna viene distillato, come informazione, a poco a poco, con un magnifico gioco di ambiguità. Ovviamente il fatto che il racconto s’incentri su un film porta “The Screen” nel campo dell’horror metacinematografico – e il film insiste molto (e assai giustamente) sul dispositivo di proiezione. Anche il “dénouement” ha una forte impronta metacinematografica - e certamente lontano dai semplici rapporti di causa-effetto, stile Hammer Films, cui ci ha abituato l’horror occidentale.
Deludente invece è “Black House”, del coreano Shin Terra. A una prima parte lenta e prevedibile segue una seconda che è la classica partita di “hide and seek” nella classica casa del serial killer, un bric-a-brac pieno di cadaveri - tutta roba già vista in diecimila slasher americani.
Però si resta in Corea con un ottimo film, il migliore della giornata assieme a “The Screen”, ed è l’attesa première “The Guard Post” di Kong Su-chang (il quale, oltre ad essere sceneggiatore del classico “Tell Me Something”, ha realizzato pochi anni fa un altro splendido horror militare, “R-Point”). In uno dei fortini supermuniti che costellano la frontiera con la Corea del Nord, l’intera guarnigione è stata spazzata via, e un sergente investigativo della spedizione di soccorso ha solo una notte per chiarire l’accaduto. Temo che qualsiasi accenno allo svolgimento ulteriore sarebbe uno spoiler, per cui mi limito a segnalare l’ottima costruzione dell’atmosfera, la crudele immediatezza fisica, il buon gioco interpretativo e l’abile ondeggiare del film fra il racconto di questa notte sempre più nervosa e una serie di flashback di affascinante ambiguità. L’immagine di questo cupo fortino sotto la pioggia non si dimenticherà facilmente.
Ed è arrivata mezzanotte, e ha chiuso l’Horror Day con simpatica leggerezza il poco impegnativo, assai piacevole “Sick Nurses” (Thailandia) di Thospol Sirivat e Piraphan Laoyont. Un film senza pretese di soli 82 minuti, destinato a mostrarci una collezione di bellissime infermiere (come personaggi, una più “bitch” dell’altra!) che un fantasma femminile vendicativo costringe a farsi male nei modi peggiori possibili. Certamente c’è un elemento di enumerazione meccanica - ma visto che ci si diverte tanto, tre urrà per la Thailandia.

domenica 20 aprile 2008

Far East Film 2008 - I film, I

Dirlo è un po' lustrarsi gli ottoni, per uno che fa parte dell'organizzazione del festival udinese, ma il Far East Film 2008 è un vero successo: sia come pubblico finora, sia come ospiti (Nakata Hideo a Udine!, e Johnnie To arriva in settimana), sia - quel ch'è più importante - come film. Naturalmente c'è sempre qualche film che il festival non è riuscito a ottenere, oppure che personalmente avrei voluto ci fosse e purtroppo non è entrato nella selezione - ma il lineup è comunque più che soddisfacente. Ecco intanto un (necessariamente) breve panorama di quelli presentati al festival da venerdì 18 a domenica 20 (trascuro, avendone già parlato nel servizio precedente, la retrospettiva del grande Shin Sang-ok, e rimando a un altro momento Miki Satoshi).
"L change the WorLd" (Giappone) di Nakata Hideo (così il titolo ufficiale, dove la grafica la vince sul senso). Controverso come pareri (Derek Elley l'ha stroncato su "Variety"), a me sembra il migliore della trilogia di "Death Note" (però i rapporti con i primi due film e il mondo degli shinigami sono esili), se non altro a livello narrativo: basta vedere l'inizio, pressoché geniale nel suo gioco sullo sguardo, sulla nostra presupposizione di una presenza umana e la scoperta che lo sguardo è quello di una telecamera. Ma vale per tutto il film, che è attraversato da una selvaggia energia, a volte sul filo dell'autoparodia (la conclusione sull'aereo -per non dire di questa banda di cattivi stile manga). Piacevole e umanamente credibile la ridefinizione del personaggio (nei film precedenti un po' unidimensionale) di L.
"Quickie Express" (Indonesia) di Dimas Djayadiningrat. Non male, da un paese musulmano, una commedia su un servizio di gigolo travestito da pizza delivery. E' un film divertente, allegramente divagante, ben recitato - e la gemma è l'inaspettata performance di un attore di contorno (Rudi Wowor) che nel ruolo del vecchio gangster fa una superba parodia di Robert De Niro. Un finale cinicamente comico di disperazione collettiva evita quel "recupero" ottimista che ci aspetteremmo da una commedia.
"Pk.com.cn" (Cina) di Xiao Jang. Meglio perderlo che trovarlo.
"Casket for Rent" (Filippine) di Neal Tan. Dramma di vite interlineate in uno slum filippino che più miserabile non si può, dove il personaggio principale affitta bare per la veglia funebre dei morti di famiglie così povere che non possono comprarsene una. Più che di realismo, si tratta qui di naturalismo spinto all'estremo, al quale non è estranea una componente eccessivamente conscia (il particolare del barbone ultralurido che filosofeggia in mezzo alle pantegane è insopportabile). Ma c'è una convinzione, un'onestà di fondo, e alcune interpretazioni sono sorprendentemente buone.
"The Happy Life" (Corea) di Lee Jun-ik. Tre quarantenni in crisi decidono di riformare la rock band in cui suonavano vent'anni prima assieme a un amico morto di recente. Un film agrodolce, molto umano, serio, ben raccontato, anche grazie a un trio di attori monumentali (da citare in particolare Kim Sang-ho, un caratterista che abbiamo visto in una quantità di film coreani, nel ruolo del batterista Hyuk-soo). Il film è uno dei pochi a trattare l'argomento del quarantenne che rifiuta di crescere in modo non deprecatorio, ma altresì senza simpatie esteriori e retoriche. Davvero gli si deve riconoscere uno sguardo fresco e sicuro.
"Always - Sunset on Third Street - 2" (Giappone) di Yamazaki Takashi. Seguito dell'"Always" visto due anni fa, su un quartiere popolare nella Tokyo del 1959, pregevolmente ricostruita in computer graphics (sono tratti da un manga di Saigan Ryohei), ne mantiene la struttura a storie interlineate, annodando i fili lasciati sciolti nel primo episodio (la storia d'amore del romanziere Chagawa). E' un'incantevole evocazione di un universo variegato, che ruota attorno alla dialettica fra il divenire (simboleggiato dalla modernizzazione di Tokyo) e la permanenza dei sentimenti. Come nel film precedente, Yamazaki riesce a mantenere le caratteristiche del manga non attraverso deformazioni in CG bensì giocando sulla mimica degli interpreti. Questo giovane regista ha una vera capacità di direzione degli attori, e in particolare i bambini. Impagabile l'omaggio a Godzilla che apre il film!
"Trivial Matters" (Hong Kong) di Pang Ho-cheung. Intrigante la collocazione di questo film e del precedente nella stessa serata: perché "Always 2" è il trionfo della drammaturgia, è la "pièce bien faite" dove tutto ritorna e i meccanismi funzionano come un orologio, mentre il bellissimo "Trivial Matters" - collezione di 7episodi - si muove nella dimensione precedente alla drammaturgia, quella dell'immediatezza vitale. Anche per questo, forse i suoi episodi migliori sono quelli in cui si ride di meno; l'episodio dei pompini festivi è certamente esilarante, ma è superato dall'eccezionale "Recharge" sulla prostituzione (l'assoluto dei gesti, delle parole, delle azioni, al di fuori e prima di qualsiasi costruzione drammatica) o da quello altrettanto sconvolgente delle due compagne di scuola Gillian Chung e Stephy Tang. Ma vorrei menzionare il brevissimo, fulminante, semplice come una fucilata, "Civismo", con Edison Chen, degno del Jarmusch migliore.
"Secret" (Taiwan) di Jay Chou. Film fantastico-sentimentale estremamente ovvio, modesto e prevedibile. Non lo salva qualche scena ben realizzata come la sfida al pianoforte. L'impostazione di viaggio nel tempo, in sé non nuova, qui è piuttosto arzigogolata. Peccato per una bella interpretazione di contorno di Anthony Wong.
"Mr. Cinema" (Hong Kong) di Samson Chiu. Lupus in fabula, ecco di nuovo il grande Anthony Wong, qui protagonista. E' uno dei film usciti a HK per il decennale dell'handover, il passaggio alla Cina (e approfitto qui per raccomandarne uno bello e sottovalutato, "Wonder Women" di Barbara Wong). Si tratta di un film commovente, caldo, intelligente, sulla vita di un proiezionista (politicamente filocinese) e al contempo della città di Hong Kong. L'omaggio a HK, alla sua gente sempre capace di cavarsela e tirare avanti, attraversa in filigrana il film esplodendo liricamente in una sequenza composta di una serie di foto prese per le strade della città. Anthony Wong è eccezionale, si tratta di una delle sue interpretazioni migliori, ma al suo stesso livello si pone Teresa Mo nella parte della moglie. Da menzionare anche Karen Mok e Ronald Cheng. Per inciso: siccome si parla di un proiezionista, qualcuno ha tirato in ballo "Nuovo Cinema Paradiso", che non c'entra nulla.
"The Assembly" (Cina) di Feng Xiaogang. Con la notevole eccezione del bellissimo "A World Without Thieves", Feng Xiaogang è veramente il Bondarciuk cinese. E' interessante vedere questo kolossal bellico (dalla buona fotografia) - nondimeno, il film è piuttosto brutto: un film di guerra pre-spielberghiano, pieno di retorica vecchio stile del genere, con uno dei commenti musicali più insopportabili e pomposi della storia dei war movies.
"Going by the Book" (Corea) di Ra Hee-chan. Più che il regista debuttante, il nome noto è quello di Jang Jin, autore della sceneggiatura, e in effetti il suo stile si vede benissimo in questa storia grottesca di un poliziotto inflessibile che deve fare il rapinatore in una simulazione di rapina che la polizia fa in una vera banca per ragioni di addestramento (ma in realtà pubblicitarie) - solo che prende l'incarico troppo sul serio, e li mette tutti nel sacco. E' un film piacevole, pieno di buone idee, anche se il motore narrativo in certi punti annaspa sensibilmente. Che il regista Ra non sia Jang Jin, si vede.

venerdì 18 aprile 2008

Far East Film 2008: qualche anticipazione

Che cosa è imperdibile – lo scrivo, si capisce, con inevitabile soggettività – nel Far East Film Festival 2008, che si apre venerdì 18 aprile al Teatro Nuovo, e che quest’anno festeggia il suo decimo anniversario? Beh, poiché ho usato la parola soggettività nel primo paragrafo, ne abuso, ed esprimo una personale preoccupazione. Che la curiosità per la biografia del grande regista coreano Shin Sang-ok, autore di oltre 70 film (il Far East gli dedica una retrospettiva storica con quattro film del 1958-59), ne offuschi la considerazione artistica. Perché nel 1978 questo regista-produttore di successo, ma in una fase calante della sua carriera, fu rapito a Hong Kong, insieme alla moglie e interprete preferita Choi Eun-hee, da agenti nordcoreani e trasportato nella Corea del Nord, dove Kim Jong-il (l’attuale dittatore ereditario del paese, figlio del dittatore pazzo di allora, Kim Il-sung) li tenne prigionieri per anni, usandoli per vivificare la cinematografia nordcoreana (i due riuscirono a fuggire durante un viaggio a Vienna). Sembra veramente un thriller coreano tipo “JSA”. Ma quel ch’è più importante è renderci conto della grandezza, troppo a lungo sottovalutata in patria e fuori, di Shin Sang-ok. Lo potremmo paragonare, anche come storia critica, al nostro Raffaello Matarazzo: un genio del cinema popolare guardato con sospetto perché autore di commoventi melodrammi femminili. Tali sono i quattro film presentati a Udine, anche se Shin ebbe una carriera più varia e articolata. Sono melodrammi affascinanti, dove rifulgono la capacità di messa in scena, la perizia narrativa (il gioco di campi e controcampi alla fine di “It’s Not Her Sin” è semplicissimo e stupendo), l’audacia tematica e anche l’interesse documentario, con l’uso di materiale girato per strada – non a caso Shin fu influenzato dal neorealismo. Un vero nome da scoprire.
Ma cosa bisogna vedere in particolare nella produzione asiatica contemporanea? Azzardo qualche titolo, senza avventurarmi ovviamente fra quei film che non ho ancora visto. E cominciamo col Giappone, per un ottimo motivo: attualmente il cinema giapponese è il migliore e il più interessante del Sud-est asiatico. Delizioso, divertente e drammatico al tempo stesso è lo splendidamente intitolato “Funuke, Show Some Love, You Losers!” di Yoshida Daihachi, storia di una famiglia disfunzionale, costellata di magnifiche interpretazioni. Lo stesso si può dire, appena una tacca sotto, del melodramma sportivo “Gachi Boy” di Koizumi Norihiro. Niente divertimento ma una dolorosa commovente intensità nello splendido “Your Friends” di Hiroki Ryuichi, mentre su toni sottilmente perversi alla Edogawa Rampo si situa l’ottimo “Peeping Tom” di Fukagawa Yoshihiro. Non dimentichiamo Miki Satoshi, cui il festival dedica un omaggio: fra le sue commedie raccomando in particolare l’ultra-delirante “Deathfix”. Inoltre noi tutti ammiratori del L di “Death Note” lo rivedremo con piacere nel godibile film d’apertura, “L change the WorLd” (non è un refuso), diretto dal grande Nakata Hideo che torna anche con “Kaidan”.
Da Hong Kong mi limito a segnalare il toccante “Mr Cinema” di Samson Chiu, impreziosito da una grande interpretazione di Anthony Wong, oltre che (ça va sans dire) “Sparrow” di Johnnie To. Dalla Corea il cupo, elegante thriller “Our Town” di Jung Kil-young e la bella commedia con un retrogusto drammatico “The Happy Life” di Lee Joon-ik. Della nutrita pattuglia thailandese, vorrei segnalare un magnifico horror “metacinematografico”, “The Screen at Kamchanod” di Songsak Mongkolthong, le cui atmosfere traducono in thailandese lo spirito di “Ring” ed una suggestione di Kurosawa Kiyoshi. Chiudo con una piccola scoperta del festival: il gustosissimo malaysiano Mamat Khalid, con le sue esilaranti commedie horror “Kala Malam Bulan Mangambang” (girato in b/n per parodiare i vecchi film noir) e “Zombi Kampung Pisang”, “Gli zombi del villaggio delle banane”. Quasi un Mel Brooks dal Far East.

(Il Nuovo FVG)

venerdì 4 aprile 2008

Tutta la vita davanti

Paolo Virzì

Domanda: perché in “Tutta la vita davanti” - l’intelligente commedia di Paolo Virzì sui superprecari dei call center, dove finisce la neolaureata Marta/Isabella Ragonese - quasi tutte le ragazze del call center sono belle? Per non parlare di Sonia/Micaela Ramazzotti, splendida, che compare nuda in mezzo film e lodevolmente discinta nel resto? Serve al realismo, come la nudità di Marisa Tomei in “Onora il padre e la madre” di Lumet? Chiaro che no. Serve al successo commerciale del film? Che sospetto ingeneroso. La risposta esatta è: serve a convincere lo spettatore a tenere aperti gli occhi.
Poiché il film si potrebbe comprendere egualmente con gli occhi chiusi. C’è una presenza inesorabile della voce narrante, che presenta la storia di Marta, s’interrompe per i dialoghi, riprende; e non solo in apertura; ritorna come la maledizione di Tutankhamen per tutto il film. Non è cinema: è radio.
Beninteso, questa commedia non manca di buone idee (anche troppe: è un po’ affastellata). Si vede una notevole attenzione nei dialoghi, che hanno un ritmo molto moderno (la bambina che aspetta la madre col cellulare in mano: “Sta arrivando, mi ha vibrato”) e un’aderenza satirica pungente (i termini commerciali inglesi nel linguaggio dei maschi gasatissimi del call center come Lucio 2/Elio Germano). E’ un film pieno di buone interpretazioni, da Isabella Ragonese e Micaela Ramazzotti fino ai due cattivi con celata miseria umana, Sabrina Ferilli e Massimo Ghini. Il bicchiere di Virzì è mezzo vuoto e mezzo pieno; il suo risultato oscillante denuncia un’indecisione di fondo.
L’errore peggiore è lo spazio a dir poco eccessivo dato alla voce narrante. Ma uno sbaglio è stato anche non abbandonarsi a quella “voglia di musical” che serpeggia nel film - e finisce così limitata a tre momenti: l’apertura col balletto in città (scena peraltro piuttosto fiacca); le mattine al call center, dove il numero musicale è diegetizzato, vale a dire inserito nel racconto, ma sempre di musical si tratta; gli allegri titoli di coda che ripropongono gli attori (vedi ad esempio Marta con i gerontocrati dell’università sullo sfondo). Se Virzì avesse voluto fare tutto il film su questa falsariga (che non avrebbe tolto nemmeno un grammo alla cattiveria della satira), ne sarebbe potuto venir fuori un piccolo capolavoro - tipo uno di quei musical comico-satirico-parodistici delle Filippine, alla Quark Henares e alla Joyce Bernal.
Ci sono nel film degli interessanti momenti di consapevolezza del mezzo: per esempio, abbiamo appena finito di schifarci per quant’è retorico e stantio un movimento di macchina da presa avanti fino al primissimo piano sul discorsetto del sindacalista Conforti/Valerio Mastandrea, che Marta sbotta “retorico!” - intende il discorso, ma chiaramente vale anche per il linguaggio filmico. Resta il sospetto, tuttavia, che per Virzì questo sia più un “ma anche” veltroniano che una reale distanziazione ironica.
Anche perché v’è una scena che nega qualsiasi ipotesi di recupero ironico: la morte della madre di Marta con l’allucinazione di costei che la vede viva e balla con lei. E’ una delle pagine pseudo-poetiche più brutte del cinema italiano recente (in confronto, Ozpetek, che ha giocherellato con la stessa pericolosa materia in “Saturno contro”, sembra Bergman). Qui conviene rievocare un vecchio caposaldo della canzone kitsch: “Balocchi e profumi”.
“Mamma / mormora la bambina / mentre / pieni di pianto ha gli occhi / per la tua piccolina / non compri mai balocchi / mamma tu compri soltanto i profumi per te!” - perché questa canzone (la mamma poi si pente e compra i balocchi alla bambina quand’essa è sul letto di morte) è un capolavoro dell’orrore? Il motivo non è tanto la leziosità del lessico (quando fu scritta, erano termini più comuni). Neanche la piatta facilità delle rime. E’ l’evidentissima sproporzione fra l’effetto poetico/commovente che si vuole conseguire e la pochezza estrema dei mezzi usati; da cui deriva l’emergere in primo piano dell’intenzione. E qui è esattamente la stessa cosa.

Il Nuovo FVG