martedì 19 agosto 2008

Le cronache di Narnia - Il principe Caspian

Andrew Adamson

E’ il colmo per la magica terra di Narnia, ma proprio di magia manca “Il principe Caspian”, secondo episodio delle “Cronache di Narnia” cinematografiche. Gli sceneggiatori (gli stessi del primo film, con l’assenza di Ann Peacock) stavolta offrono una trascrizione poco ispirata del romanzo omonimo di C.S. Lewis – romanzo ingannevole e divergente, che prende sempre strade impreviste: che è prima un fiabesco romanzo di formazione appena accennato, poi un’avventura fra gli alberi, fra caldo fame e sete (la fantasticheria di perdersi come l’immagina un ragazzo inglese), infine una fantasia satirica di liberazione panica - in senso proprio - che sconvolge una città e un sistema scolastico perfettamente britannico.
Gli eventi si sviluppano 1300 anni dopo la prima visita a Narnia di Peter, Edmund, Susan e Lucy; il loro regno è ora solo una memoria sfumata nella leggenda, la Narnia che conoscevano è decaduta e inselvatichita. I Telmarini l’hanno conquistata e “civilizzata”, e le ultime creature magiche sono ridotte a nascondersi nella foresta. Se “Il leone, la strega e l’armadio” metteva in primo piano la connotazione cristologia di Aslan, ne “Il principe Caspian” Lewis allude alla perdita della fede nel mondo moderno (“Nessuno crede più in Aslan di questi tempi”, dice un personaggio).
Senza sorpresa, gli sceneggiatori del film hanno scelto di concentrarsi sull’avventura fantasy, descrivendo la guerra di Caspian e del popolo magico di Narnia contro l’usurpatore Miraz. Una trascrizione del romanzo che è certamente pertinente, in quanto amplia elementi in esso presenti, ma che non è capace di mantenerne l’aspetto fiabesco (salvatosi, per esempio, nella bella scena dell’evocazione della Strega Bianca, dove l’ampliamento del romanzo funziona assai bene).
Naturalmente uno potrebbe chiedere: e perché gli autori avrebbero dovuto mantenere per forza il tono fiabesco? Non è questione di fedeltà a C.S. Lewis; è perché proprio su questo tono si incentrava il primo film di Narnia, “Il leone, la strega e l’armadio”, sicché il secondo episodio crea un pesante iato. Il film sembra modellarsi su “Il Signore degli Anelli”, ed è privo di quel “british humour” che rendeva scintillante il primo.
Il concetto di ritornare in un mondo e scoprire che non c’è più avrebbe potuto suggerire un elemento elegiaco; ma l’andamento pesante e quasi burocratico che caratterizza la prima parte del film anche qui esige il suo pegno, e non se ne fa nulla. Probabilmente nella speranza di allargare il target, c’è un molesto sviluppo modernizzante dei quattro ragazzi: vedi la scena della metropolitana: si potrebbe dire che il secondo film della serie cade in tutte le trappole di “attualizzazione” che il primo aveva evitato. Anche il principe Caspian nel film perde le caratteristiche adolescenziali e viene trasformato in un personaggio adulto, peraltro evanescente - un pulito belloccio disneyano, che del resto appare un po’ scemo (il suo comportamento durante la battaglia notturna). Ciò ha suggerito agli sceneggiatori di inventare un’antipatia fra lui e Peter, prevedibile e banale. Nota che, come il gruppo di Harry Potter, gli interpreti del film sono più vecchi dei loro personaggi (quelli di Peter e Susan in realtà sono sulla ventina); a differenza del gruppo di H.P., non danno l’impressione di crederci. Il leone divino Aslan è un programma al computer, ma ciò nonostante resta il più espressivo fra tutti gli attori del film.
Persi i valori su cui si reggeva il primo film, cosa resta? Solo l’eccellenza dei trucchi in digitale (il tasso è proprio da vedere), le scenografie, e naturalmente le battaglie, indubbiamente suggestive. L’esercito di soldati maschere di ferro, le macchine da guerra, il crollo del terreno sotto gli zoccoli dei cavalieri Telmarini, il ponte abbattuto da una gigantesca creatura acquatica, tutto ciò ha la sua bellezza visuale. Però il primo film di Narnia aveva un’unità e una compattezza che qui sono (come il regno di Re Peter) solo un ricordo.

Wanted

Timur Bekmamentov

Non solo è godibilissimo ma possiede due aspetti di estremo interesse “Wanted – Scegli il tuo destino”, diretto da Timur Bekmamentov, con un ottimo montaggio di David Brenner. In primo luogo, nella sua qualità di film totalmente fumettistico (ma non c’entra che sia tratto da un fumetto) porta all'estremo la cartoonizzazione dell’immagine (ex) fotografica. Non mi riferisco al carattere eccessivo delle sue sequenze d'azione, come il “car chasing” iniziale, e neppure alle sue pallottole post-“Matrix” che descrivono una curva anziché una linea retta. Questi sono trucchi, qualcosa che c'è stato nel cinema fin da Méliès: sono la realtà nell’universo diegetico postulato. La (relativa) novità sta in una scena umoristica: quando il protagonista Wesley (James MacAvoy), illustrazione del perdente nato, fa un bancomat e scopre di essere senza soldi, il display del bancomat lo insulta, dicendogli che è un fallito, che la sua donna scopa col suo migliore amico e lui è troppo vigliacco (“pussy”) per farci qualcosa.
Ora, questa sarebbe ordinaria amministrazione in un cartoon o in un film comico alla Jerry Lewis (magari diretto da Frank Tashlin, trait d'union fra le due categorie); ma in un film “realistico” rappresenta una inconcepibile rottura dell'ordine delle cose; anche se lo razionalizziamo come simbolizzazione allucinatoria, appartiene a quel tipo di scherzi che un film può pericolosamente permettersi solo a patto che siano come un’isoletta nel flusso del discorso, tale da venire “recuperata” dal realismo narrativo. Solo che qui, in un racconto così ostentatamente cartoonistico, un simile recupero è impossibile: la rottura del realismo deriva dalla cartoonizzazione e al contempo la porta mostruosamente avanti. Una rottura di cui forse neppure Timur Bekmamentov è pienamente cosciente (il suo “I guardiani della notte” restava nel campo del realismo fantastico ortodosso); una rottura che conferma come l'irruzione della computer graphics nel cinema – in altri termini la progressiva riduzione del profilmico – abbia spostato il cinema sul piano del cartoon anche a livello di narrazione. Ora James Bond può davvero viaggiare su un elefante dalle zampe di ragno in un deserto di Salvador Dalì. E’ un frutto velenoso, ma inevitabile – e allora, “quello che non mi uccide mi rende più forte”.
Un secondo aspetto di rilievo di “Wanted” è l’efficacia satirica della sua rappresentazione di un problema morale, il rapporto fra giustizia e individuo (più del gonfio e faticoso “Il cavaliere oscuro” di Nolan). Eterodiretta fino all'assurdità, questa Confraternita di giustizieri commette omicidi di cui non sa il perché: ricevono gli ordini dall’esterno, come cekisti da un fantomatico comitato centrale bolscevico – ma questo esterno non è un'istanza umana: i nomi dei bersagli appaiono in codice binario sui fili di tessuto nelle filiere della fabbrica (evidente il riferimento alla Parche). L'unica giustificazione offerta da Fox (Angelina Jolie, che qui è un fumetto già nel viso) a Wesley - dopo che questi ragionevolmente non ha voluto sparare a un uomo di cui non sa nulla - è empirica: il flashback sull'uccisione del proprio padre da parte di un killer che, anche lui, era stato risparmiato. Che il garantismo giuridico non solo non paghi ma si sia trasformato nel suo contrario, ce l'hanno già insegnato quasi 40 fa Clint Eastwood e Don Siegel con “Dirty Harry” (“Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!”). Però l' irrazionalità dell’alternativa messa in scena da “Wanted” elide parodisticamente tanto la soluzione “bronsoniana” (“Il giustiziere della notte”) di una moralità e onestà individuale quanto quella “politica” e totalitaria di una organizzazione provvista di conoscenza superiore.
Nella conclusione con la voce narrante del protagonista, un discorso costruito per anafora su una serie di negazioni, se prima il film aveva messo in crisi il realismo diegetico, adesso può permettersi (riprendendola dal fumetto) una metalessi radicale: il protagonista interpella direttamente lo spettatore - e dichiara la propria superiorità su di lui. Un film iniziato populista finisce nietzschiano.