sabato 10 gennaio 2009

Stella

Sylvie Verheyde

Una specialità, quasi un tema-genere del cinema francese è l’analisi del periodo dell’adolescenza. Del resto è un tema che pulsa, soffuso di intuizioni impalpabili, nella letteratura francese - non dimentichiamo per esempio “Le Grand Meaulnes” di Alain-Fournier. L’attraversamento di questa zona d’ombra, dall’ostinata autonomia dell’infanzia all’inquietudine e agli “eroici furori” dell’adolescenza: per fare solo nomi ovvii, l’ha narrato in maniera insuperabile nel cinema francese moderno François Truffaut (ma anche Malle), ma a livello “commerciale” anche titoli fortunati quali “Il tempo delle mele”.
Ce l’avessimo noi italiani, tutto questo. E’ che semmai il tema-genere prettamente italiano sono le futilità di intellettuali sfigati. Pertanto, i film (e la tv) italiani sulla scuola non mancano, ma in questi il riflettore cade più sui professori che sugli alunni. Democratici e progressisti, s’intende, i Silvio Orlando della situazione, però professori - e sfigati. Ma torniamo a bomba, all’ottimo film francese “Stella”: storia di una ragazzina di 11 anni che (siamo nel 1976) vive in un bar malfamato gestito dai genitori litigiosi, e si iscrive a una scuola media frequentata dai figli della buona società parigina; le differenze di classe e di cultura si fanno subito pesantemente sentire.
Il film è scritto e diretto da Sylvie Verheyde, sulla scorta dei suoi ricordi adolescenziali, con uno stile elegante e insieme di un’oggettività che sembra quasi documentaria, sorretta e indirizzata da un uso assai sobrio della voce narrante (unico momento di controllato artificio, un cambiamento liricizzante della luce in alcune scene soggettive, evocazioni del desiderio o del ricordo). La protagonista è magnificamente interpretata da Léora Barbara. Ove l’avverbio “magnificamente” non si riferisce alle stupefacenti capacità di mimesi interpretativa di certi piccoli mostri sacri americani (come non ricordare l’incredibile Dakota Fanning), ma alla capacità di Sylvie Verheyde di “filmare il filmabile”, ovvero di trasportare sullo schermo una sconvolgente naturalezza: nel volto di Stella, impassibile, le palpebre pesanti, si palesa un’assoluta verità.
E che questo non sia un caso, un incontro fortuito fra regista e piccola attrice, lo dimostra il fatto che le sue due amichette - Gladys, quella parigina della scuola (Melissa Rodriguez) e Genevieve, quella paesana delle vacanze (Laëtitia Guerand) - hanno esattamente lo stesso contegno, lo stesso volto-maschera, la stessa intrinseca verità di aspetto e comportamento (guardate la scena dell’incontro fra Stella e Genevieve quando lei torna al paese per le vacanze, con quel pudore totalmente infantile nel salutarsi).
Film sull’adolescenza, e dunque racconto di formazione, storia di passaggio. Dura un anno ed è contemporaneamente cronaca dell’anno scolastico di Stella (inizia malissimo, registra un miglioramento, finisce con la promozione) e della crisi definitiva della fragile unione dei genitori (Karole Rocher e Benjamin Biolay).
“Abito in un bar - per questo sono piena di amici”. L’ambiente dove vive Stella riporta alla tradizione del realismo populista francese. Ma anche questo bar, che prima sembra un allegro caos infinito, cambia: e perché cambiano le circostanze, e perché cambia Stella. Col progredire del film diventa più vuoto e tetro; c’è perfino un possibile omicidio intravisto nella notte; e c’è su Stella stessa un episodio di pedofilia.
Nella fauna del bar spicca l’amico Alain, un piccolo delinquente affezionato alla bambina. Lo interpreta Guillaume Depardieu - sul quale si stende l’ombra della morte, avvenuta di lì a poco a 37 anni, aumentando la malinconia delle scene. Che sono tali perché sono intrise del senso del tempo che passa, e questa è l’altra medaglia, sottilmente cupa, di qualsiasi storia di crescita. Bene lo esprime una sequenza sobria e stupenda, quando Alain, l’amico adulto (e complice di falsificazioni sul libretto personale alle elementari) di cui Stella diceva da bambina di essere un po’ innamorata, capisce che lei sta cambiando, e le dice con calma, all’improvviso, “Mi mancherai”.
Non dico niente di originale se osservo che il testo profondo cui riferirsi per il film è “I quattrocento colpi”. Gli impeti eroici senza scopo e senza sbocco del truffautiano Antoine Doinel (quello sì un “rebel without a cause”, altro che lo smanceroso James Dean) si rispecchiano nella trasformazione di Stella. All’inizio del film lei guarda in tv “L’imperatrice Caterina” di Josef von Sternberg, e alla domanda del ragazzotto del bar “Chi è quella?”, risponde secca: “Una regina”. Anche Stella è una regina, solo che non lo sa. Il racconto del film è il racconto di questa scoperta delle proprie possibilità (bella la scena dell’analisi immaginosa, in classe, di un dipinto di Courbet). Così la sua forza di carattere si trasforma dal menefreghismo ingrugnato dell’inizio a una ferma determinazione sulla scuola: “E’ la mia occasione. Credo che la coglierò”. E alla fine del film, in un dialogo notturno con Gladys, Stella ammette a sorpresa quello che prima si era così fortemente preoccupata di celare, sia al mondo sia a noi: le proprie paure. Potremmo dire che le due amiche, Gladys e Genevieve, si pongono come i due poli simbolici di questo passaggio dall’infanzia all’adolescenza, dalla pura sopravvivenza alla forza attiva della volontà.
Cosa molto francese, e molto poco italiana, e molto civile invero, questo percorso di crescita passa attraverso l’appropriazione della cultura. Essa è l’elemento nobilitante per Stella, quello che fa lievitare la testardaggine infantile in forza d’animo. Il cinema, i libri. Ricordiamo ancora Antoine Doinel, che rubava da un cinema la foto di Harriet Andersson in “Monica e il desiderio” di Bergman! Stella di punto in bianco (con stupore quasi scandalizzato della madre) comincia a leggere Cocteau, Balzac, Marguerite Duras (“La diga sul Pacifico”), e scoprendo la Duras dice con parole bellissime: “Lei parla a me. Parla per me. Parla al posto mio”. E’ chiaro che Stella si lascerà alle spalle il piccolo bar derelitto - assieme però, è invitabile, a quel tempo spensierato della prima giovinezza che vediamo celebrato come in un filmino amatoriale sui titoli di coda.

(Il Nuovo FVG)

venerdì 2 gennaio 2009

Come Dio comanda

Gabriele Salvatores

Non ha davvero reso un buon servizio a Niccolò Ammaniti (a differenza di “Io non ho paura”) l’assai mediocre “Come Dio comanda” di Gabriele Salvatores.
Cristiano è un ragazzino cupo senza madre che vive col padre Rino, un fascistone rabbioso che dà la colpa della disoccupazione a “negri e slavi”. Padre e figlio si amano, ma Rino rischia di perdere l’affidamento se scontenta l’assistente sociale. Il loro amico di famiglia è un matto soprannominato “Quattro Formaggi”; quest’ultimo è innamorato dell’attrice porno che in una videocassetta interpreta Cappuccetto Rosso a culo nudo. Quando il pazzo incontra una ragazzina giovanissima con un cappuccetto rosso, crede di avere incontrato il suo idolo e, di notte nel bosco sotto la pioggia, le salta addosso, la violenta e la ammazza. Poi chiama piangendo Rino, il quale vedendo lo sfracello ha la tentazione (giustissima) di sparargli lì per lì; invece poi si dispera e per lo shock gli viene un coccolone. Il matto se la fila. Cristiano trova Rino esanime accanto al cadavere, crede che sia stato lui, nasconde il corpo e architetta tutto un ambaradan per coprire il padre in coma.
Rubando il termine agli spagnoli, chiameremo “tremendismo” il naturalismo compiaciuto nel mettere in scena catastrofi del “milieu” sociale e disastri esistenziali terribilissimi. Il tremendismo è la cifra di “Come Dio comanda” - ma un tremendismo povero povero, perché le ambizioni del film periscono nello scontro fra l’indubbia capacità registica di Salvatores e la sciatteria irredimibile della sceneggiatura. I personaggi sono “programmatici” nel senso pieno del termine: figure elementari e prevedibili, sagome piatte (il Matto, il Fascio) dalla definizione telegrafata - con quel passaggio dal realismo all’esagerazione simbolica per cui un tatuaggio con la croce celtica non sembra abbastanza, ci vuole la svastica king size dipinta in camera. Solo il ragazzino protagonista, Cristiano, ha una sua verità non banale, una complessità.
Ecco perché il suo interprete (Alvaro Caleca) risulta quello che recita meglio nel film: non per qualche mistica superiore bravura ma perché il suo personaggio è l’unico a tre dimensioni - talché resiste anche a qualche battuta imperfetta (“Non puoi farmi questo!” quando crede che il padre gli sia morto fra le braccia). Quanto agli altri, Filippo Timi (Rino) si affida valorosamente agli occhi per cercar di cavare un po’ di sangue dalla rapa del suo personaggio; Elio Germano (“Quattro Formaggi”) nel luogo comune ci sguazza, perdendosi voluttuosamente nella leziosità di una recitazione manierata. Meglio calare un velo su Fabio Di Luigi nel ruolo monocorde dell’assistente sociale, un creaturo peloso sempre incazzato (strano che un attore non di primo pelo - “no pun intended” - si trovi così a mal partito nel dare un minimo di caratterizzazione a un personaggio secondario).
“Quattro Formaggi” è un demente (“Sono scemo”, dice lui stesso) che però diventa tutt’a un tratto più intelligente quando conviene agli scopi della sceneggiatura: un esempio di incoerenza nella costruzione del personaggio (il quale fra l’altro ha denti perfetti, per essere un barbone, ma se andiamo a caccia di buchi logici finiamo a occuparci del problema di una pistola senza rinculo, di una polizia e un padre incazzato che non sospettano mai del matto locale, e insomma è meglio lasciar perdere).
Ha un ruolo importante il simbolismo del paesaggio (il film, girato in Friuli, si ambienta in un Nord indeterminato): fumi industriali, foschia, pioggia continua; un paesaggio indubbiamente efficace come sfondo, anche se non esce dall’ambito di generico “colore locale” come “Sud”. Nessuno può salvarsi in questo paesaggio: naturalmente anche la ragazzina vittima dell’omicidio è un’ochetta che fa la seduttrice coi ragazzi, fuma spinelli con un’amica, e insomma incarna il consumismo materialista (e il telefonino e il lettore mp3 con cui si diletta non saranno i tradizionali Simboli del Male del cinema italiano?).
Tecnicamente Gabriele Salvatores è bravo, su questo non c’è dubbio, ed è ben servito dalla fotografia di Italo Petriccione e dal montaggio di Massimo Fiocchi. Prendiamo la scena madre in cui Rino trova nel bosco, sotto il diluvio, il pazzo con la sua vittima: se astraiamo dalla sceneggiatura, dal dialogo e dalla recitazione, la sequenza è assai buona, tutta buio, luci riflesse e pioggia; e l’immagine del fanalino dello scooter dell’assassino che scompare nella cappa bluastra della notte meriterebbe di appartenere a un altro film. Le scene in cui Cristiano cerca di nascondere il delitto (creduto) del padre sono le migliori, anche perché strettamente narrative. Il buio del vano del furgone, dove c’è il corpo, fa pensare immediatamente alla fossa di “Io non ho paura”. Da notare che, quando scoppia la tragedia, giustamente il sublime “Twin Peaks” di David Lynch suggerisce alcune inquadrature.
Purtroppo questi valori fanno risaltare ancor più i limiti della sceneggiatura, che a volte si allarga in scene imbarazzanti come la sciocchezza penosa di Rino che finge di essere ancora in coma per “fare una sorpresa” al figlio, ed è indice della caratteristica peggiore del film: la ricerca dell’effettazzo a costo di sfiorare il ridicolo. Nella filmografia di Salvatores “Come Dio comanda” rimarrà come un fallimento totale, qualcosa di appena superiore come livello a “Malèna” di Tornatore (dove però almeno c’era Monica Bellucci nuda). Guardate “La ragazza del lago” di Molaioli, piuttosto, per vedere come tematiche tutto sommato non dissimili possono venir declinate con tutt’altra finezza.