lunedì 23 marzo 2009

Gran Torino

Clint Eastwood

Clint Eastwood ha 78 anni, un’età in cui un uomo fa i conti con la propria vita e con la morte; ma per il sommo regista americano quest’apertura alla dimensione della morte c’è sempre stata, anche se ora naturalmente si precisa come elemento monumentale dei suoi ultimi film - testamentari, è stato ben detto.
“Gran Torino”, che si apre con un funerale e si chiude con un funerale e un testamento, incrocia due versanti di una stessa storia. Walt (Eastwood), “colletto blu” in pensione, insoddisfatto dei due figli sposati, rancoroso e razzista, vive da solo in un quartiere degradato di Detroit e la sua unica ricchezza è una Ford Gran Torino d’epoca. Non è affatto contento di vedere gli asiatici popolare il quartiere e odia a prima vista i nuovi vicini Hmong. Uno dei quali, l’adolescente orfano Thao, cerca addirittura di rubargli la Gran Torino come (riluttante) prova d’iniziazione per una banda di teppisti. Ma poi Walt si ritrova a essere l’eroe del quartiere per avere cacciato via i teppisti, e attraverso l’amicizia con la volitiva sorella di Thao finisce per legare con i vicini e anzi si ritrova ad assumere il ruolo di padre putativo per questo ragazzo confuso.
Eastwood filma l’instaurarsi del rapporto nella quotidianità, con un’attenzione “antropologica” alla cultura Hmong che potrebbe ricordare alla lontana la “disponibilità” neorealista. Ci sono deliziosi tratti di commedia realistica nella trasformazione del razzista adottato dal quartiere asiatico, e in questo “romanzo di formazione” che Clint condisce di buffi abusi espressivi. Non c’è niente che puzzi di “political correctness” qui. Il linguaggio di Walt è una compilation di insulti etnici, con impagabili duetti fra lui e il barbiere italiano: proprio lo humour con cui ci giocano è (non tanto paradossalmente) la vera accettazione dell’altro - non certo l’untuosità ipocrita del politically correct. In una pagina deliziosa, Walt vuole insegnare a Thao “come parlano i veri uomini” e lo porta dal barbiere italiano per insegnargli l’aggressività linguistica.
Il secondo filo del racconto è tragico, con lo scontro coi teppisti che porta (spettatore attento, seguono spoiler!) al sacrificio finale di Walt. Che muore a braccia aperte come un crocifisso (ma inquadrato a testa in giù per sfumare la carica retorica che l’immagine avrebbe potuto avere).
Se questo film pur affascinante non è uno dei capolavori assoluti di Eastwood (ma v’è chi lo ritiene tale) è a causa della sceneggiatura un po’ meccanica dell’esordiente Nick Schenk, bravo nei dialoghi, meno nella costruzione narrativa. Lo sviluppo via via più violento con i giovinastri non è certo illogico, ma lo spettatore non riesce a cogliere quella impalpabile “consecutio” della buona drammaturgia per cui esso assuma la condizione della necessità. Ovvero, si sente la presenza dello sceneggiatore al lavoro. Un solo esempio: vedendo Thao tornare a casa dal lavoro edilizio che Walt gli ha procurato, segno di maturazione e di crescita, lo spettatore si dice “Adesso arrivano i teppisti” - ed ecco spuntare la loro auto bianca, puntuale e didattica.
Quel che regge e unifica il film è la presenza potente e rocciosa di Clint Eastwood, gigantesca figura dell’eroe vecchio, rabbiosa e dolente, che assomma in sé la lunga serie dei personaggi eastwoodiani - a partire dall’indimenticabile Callaghan, e anzi, il dialogo apertamente richiama la sua figura attraverso tutta una serie di “callaghanismi” verbali e gestuali. Nella statura torreggiante di Eastwood e nel suo viso gelato ritroviamo i suoi western - non solo “Gli spietati” ma anche quell’incredibile rifacimento in chiave metafisica e spettrale de “Il cavaliere della valle solitaria” che è “Il cavaliere pallido”.
La sua morte è tutto meno che la resa di Clint Eastwood alle ragioni del pacifismo. Walt, che sta morendo di cancro ai polmoni, è solo contro cinque, bene armati, e non potrebbe piantare loro nel ventre la pallottola che meritano (non dimentichiamo che, nel film, è sempre col fucile o la pistola in mano ma l’unica volta che spara combina un casino e si fa male lui). Allora fa in modo di farsi uccidere disarmato, e così incastra i suoi nemici (i giudici americani non simpatizzano per i delinquenti come quelli italiani che azzeccano garbugli per tenerli fuori, e nelle condanne vanno giù duri). E’ un sacrificio che non rifiuta la logica della violenza ma la prosegue con altri mezzi. Ed è un sacrificio perché è un antico debito di sangue – risalente alla guerra di Corea – che qui viene pagato. Il cinema profondamente onesto, americano e virile di Eastwood si è sempre imperniato sui concetti della scelta e della responsabilità.
Il cowboy Clint sa e ha sempre saputo che il destino ultimo di ogni uomo è la sconfitta nell’incontro col Grande Pistolero che è la morte. E tutto quello che può fare un uomo in quel momento è andarle incontro dignitosamente. Per questo inserisce nel film una sequenza che riconosciamo come quintessenzialmente western (perché è questo genere che, grazie alla sua ritualizzazione del duello, meglio può arpeggiarci sopra), con Walt che fa il bagno fumando una sigaretta, poi si fa tagliare barba e capelli, si compra per la prima volta un vestito su misura e va a confessarsi dal prete.
Come sempre quello che fa grande il cinema di Eastwood non è solo la potenza del racconto/della figura (potremmo dire che nel suo cinema questi due termini coincidono) ma il suo modo semplice e diretto di filmare. Tanto nel dettaglio della lacrima che scende sul suo volto dopo che la ragazza è stata violentata quanto nei primi piani del muso della sua vecchia cagna che guarda con fiducia il suo padrone si concentra una quantità di significato che ci colpisce con la forza di un tuono.

(Il Nuovo FVG)

sabato 7 marzo 2009

The Wrestler

Darren Aronofsky

Si vede molto dolore e sangue in “The Wrestler” di Darren Aronofsky - ma è giusto, perché questo è un film di corpi: di wrestling, di lap dance, di ferite, di cicatrici, di vecchiaia (prima delle immagini, sul nero dei titoli, la radiocronaca del vecchio incontro vittorioso di Randy “The Ram” 12 anni prima sfuma nei suoi colpi di tosse nel grigio presente). E quindi anche di sangue; e di lacrime, che colano dagli occhi di Mickey Rourke.
Randy è quello che in America chiamano un “has been”. E’ stato un grande campione, gli hanno perfino dedicato un videogioco, ma il tempo è passato, e ora lui vivacchia nel circuito del wrestling come può, a corto di soldi, con tutto il peso degli anni addosso. La prima impietosa immagine ce lo mostra, seduto di schiena, con la pancia prominente; ed è shockante vederlo coi suoi lunghi capelli biondi da icona del ring ma con l’apparecchio acustico, e che legge con gli occhiali. Per arrotondare lavora al banco degli alimentari di un supermercato; e Rourke con la cuffietta di plastica in testa che fa il grazioso con le casalinghe al banco è uno spettacolo di triste declino quanto Anthony Quinn che fa la danza indiana nella boxe-spettacolo alla fine di “Una faccia piena di pugni”. Randy si è buttato via la vita; alla figlia che lo odia per averla abbandonata dice: “E adesso sono un vecchio pezzo di carne maciullata… e sono solo”. Corteggia la lap dancer Cassidy (Marisa Tomei), ma questa lo respinge per paura di una delusione. Anche lei ormai non ha più l’età giusta per il suo lavoro, come le fa notare brutalmente una banda di stronzetti nel locale. C’è dunque una similarità fra queste due figure, che il film riconosce; peraltro c’è anche una similarità fra i loro mondi/mestieri (basati entrambi sulla finzione, qui dello scontro fisico, là della seduzione sessuale), che il film lascia sottintesa ma trascura di esplorare.
Quando vediamo il viso devastato di Mickey Rourke, è inevitabile che si crei un corto circuito personaggio/attore - visto che anche Mickey Rourke era diventato in pratica un “has been” che si era dissipato la vita e gli allori (e questa storia tragica di un “comeback” è anche il “comeback” dell’attore). Ovvia quindi la constatazione che non si tratta solo di capacità attoriale (come per l’eccellente Marisa Tomei) ma che nel personaggio l’attore si riflette e si ritrova: ed è anche questo a dargli quel senso lancinante di verità.
“The Wrestler” ha uno stile asciutto, che col suo uso della macchina a mano, con la sua fotografia (di Maryse Alberti) priva di glamour, sporca, un po’ sgranata, col suo sguardo - specie nella prima parte - quasi da cinéma-vérité, tiene qualcosa del pedinamento documentaristico. Ciò fa da forte contrappeso, accanto all’ammirevole interpretazione, a uno sviluppo drammaturgico molto tradizionale, che abbiamo visto in tante epopee sportive sul vecchio campione - il declino fisico, la figlia abbandonata, il riavvicinamento che fallisce a causa di una nuova sciocchezza, l’infarto e il bypass, l’umile lavoro, l’esplosione di rabbia e il licenziamento, il rifiuto della donna amata, e quindi la decisione di tornare sul ring per l’ultimo incontro a prezzo della vita - e riesce invero a renderlo credibile e toccante.
Dell’atteggiamento attento del film fa parte uno sguardo oggettivo ma aperto e partecipe sul mondo del wrestling: la preparazione teatrale dei match, la violenza finto-vera sul ring (c’è una scena impressionante di “garbage wrestling”, in cui si usa tutto ma tutto per massacrarsi), l’ambiente malinconico e zingaresco dei lottatori (lo confesso, ignoravo che ci siano anche le groupies del wrestling). La contraddizione del wrestling, che è teatro e sport, è un farsi male per dare al pubblico l’impressione di farsi malissimo, permette al suo protagonista di incarnare il “corpo sacrificale”. Il film si interrompe su Randy, col cuore che sta cedendo, in procinto di chiudere lo scontro con un volo d’angelo (si chiama così nel wrestling quando si monta in piedi su un paletto del ring per poi buttarsi addosso di peso all’avversario a terra). Così “The Wrestler” raggiunge un’aspra e virile moralità western (come dichiara la scena in cui Randy guida, diretto al suo ultimo incontro, nella luce del tramonto): l’accettazione della propria realtà (Randy a Cassidy prima del match finale: “Ehi… li senti? E’ questo il mio mondo. Devo andare”) e la scelta di seguirla fino alla fine. L’ultimo volo d’angelo è la morte.

(Il Nuovo FVG)

Revolutionary Road

Sam Mendes

“A Mosca! A Mosca!” esclamano (implorano) le Tre Sorelle di Cechov. “A Parigi! A Parigi!” paiono dire - ed è l’identico mix di desiderio velleitario, sogno inane, autoillusione e sconfitta - April e Frank Wheeler nel notevole film di Sam Mendes “Revolutionary Road”, tratto dal romanzo di Richard Yates tramite un’attenta sceneggiatura di Justin Haythe.
Se con “Road to Perdition” (“Era mio padre”) Sam Mendes ci aveva mostrato la strada della perdizione nel mondo della mafia irlandese, con “Revolutionary Road” anatomizza l’illusorio progetto di due giovani sposi, negli anni ’50, di mantenere il loro sogno di originalità esistenziale vivendo una normale vita americana in quei “suburbs” che dovevano rappresentare l’espressione fisica della classe media sul territorio ma che la letteratura e il cinema americani (compreso “American Beauty” di Mendes) ci hanno descritto come una sorta di inferno ghiacciato.
Frank e April Wheeler (Leonardo Di Caprio e Kate Winslet) sono “bloccati in mezzo”. Non sono capaci o disposti a vivere ai margini, come la “beat generation” di cui proprio in quegli anni Jack Kerouac canterà l’epopea in “Sulla strada” e “I sotterranei”, ma neppure a accontentarsi delle modeste gioie dell’“american way of life” eisenhoweriano come i loro vicini, i Campbell. Il senso della sconfitta è già posto all’inizio, con la rappresentazione teatrale, dove il fallimento dei sogni di attrice (cioè dell’autoaffermazione intellettuale) di April è sancito dal calare del sipario, definitivo come una ghigliottina. E il senso della sconfitta, richiamato dal tema ricorrente del ricordo, attraversa il film: la percezione del tempo che passa, i sogni della gioventù che si allontanano, la sensazione di essersi costruiti intorno una gabbia giorno per giorno (nota che di questa gabbia sono una componente i bambini, cosa sommamente anti-hollywoodiana).
Andare a vivere a Parigi è, sentiamo, “la nostra unica occasione”. Ma questo film non è la cronaca di un’occasione perduta: è il quadro dell’incapacità di trovare un “ubi consistam” indipendente dal “dove”. A metà strada fra il grigiore della realtà e quello agrodolce dei sogni, April, coi suoi progetti velleitari, e Frank, con la sua paura di mollare tutto, tendono verso strade opposte. C’è una grande pagina di cinema, quieta e terribile, che riassume tutta l’incertezza e il dolore: Frank nell’ufficio di notte registra al dittafono un memorandum per la ditta circa l’importanza di sapere cosa tenere e cosa lasciare: “questo è il controllo delle giacenze” - e questo assurge a una grande metafora della sua situazione e di tutte le situazioni simili, a un’enunciazione filosofica sulla vita.
Con ottimi attori, una regia perfettamente calibrata (indimenticabili le lunghe giornate di April nella casa) e un magnifico regime del sonoro, Mendes mette in scena gli anni ’50 con vivezza iperrealistica, ipnotica. Molti recensori hanno giustamente segnalato l’analogia di questo film con “Lontano dal Paradiso” di Todd Haynes, similmente ambientato in quel periodo con una ricostruzione d’epoca e una riproduzione stilistica quasi maniacali. Il film di Haynes però è fiammeggiante, “sirkiano”, mentre quello di Mendes è asciugato, severo, quasi lugubre. I suoi ambienti – come la casa dei Wheeler, gli uffici dove lavora Frank, la casa dei Campbell (coi figli immersi nella televisione che non prestano orecchio al padre) – sembrano tombe. E questo, la presenza costante e silenziosa della morte dietro l’angolo, c’era anche in “American Beauty” (per non dire di “Era mio padre” e “Jarhead”). Così il film sfocia nel rito funebre di April, un autentico rito sacrificale degli anni ’50, l’ordine e la pulizia (lavare i piatti piangendo) prima che la sua vita finisca in una pozza di sangue.
Questi personaggi sono immobilizzati nei loro destini allo stesso modo di quelli - congelati in una luce fissa come insetti imprigionati nella resina trasparente - dei dipinti di Edward Hopper. E’ tutto un universo di sconfitti, a partire dal pazzo John Giddings, che scambia l’amara libertà di esprimere abrasivamente le sue intuizioni (ad esempio sul carattere rinunciatario dei Wheeler) con il disgusto generale e la vergogna dei suoi genitori (nonché, “last but not least”, 37 elettroshock). L’ultima immagine del film è il vecchio Mr. Giddings, il padre di John, che al “babbling” incessante della moglie oppone il gesto nascosto di spegnersi l’apparecchio acustico. Il mondo sfuma in un silenzio che è non udire, non vedere, quasi non essere - perdersi nel proprio dolore segreto.

(Il Nuovo FVG)