martedì 6 luglio 2010

Eclipse

David Slade

Come lasciava sperare il trailer, “Eclipse” di David Slade (ben sceneggiato da Melissa Rosenberg) è il primo film della serie “Twilight” che si possa considerare abbastanza buono. Per il terzo capitolo della vicenda di Bella ed Edward la produzione ha avuto l'intelligenza di assumere un regista capace - e in più, esperto di vampiri (ha diretto il notevole “30 giorni di buio”). Slade per la prima volta introduce un'autentica nota horror in questa saga di buoni sentimenti.
In “Eclipse” Victoria, la nemica fissa di Bella e del clan Cullen (però l'interprete è cambiata), crea un esercito di vampiri newborn (il doppiaggio italiano ha “neonati”, che è corretto ma ha connotazioni sbagliate), che sono più forti dei vampiri normali. I film precedenti non nascondevano la ferocia vampiresca, ma la trattavano goffamente (“Twilight”) o sottotono (“New Moon”); qui invece troviamo l'appropriato tocco sinistro, sia nella descrizione dell'esercito di succhiasangue sia in tre interessanti flashback: l'attacco di un vampiro settecentesco e della sua compagna alla tribù dei licantropi; la storia di Rosalie che, violentata e abbandonata morente, era ritornata come vampiro per vendicarsi (splendida la sua apparizione al tremebondo capo degli stupratori, vestita da sposa, con un sorriso feroce); la storia di Jasper, ufficiale dell'esercito confederato e poi luogotenente di una temibile vampira messicana.
Slade sa dirigere gli attori: vuoi grazie a lui, vuoi per la maggiore esperienza, sono migliori che in passato non solo Robert Pattinson ma anche la limitata Kristen Stewart. Il terzo incomodo Taylor Lautner (Jacob) tende un po' troppo a lavorare esibendo i pettorali, alla Victor Mature, ma non è facile per un uomo - né per un licantropo - trovarsi a suo agio nella parte di “seconda scelta”; comunque, il film riesce perfino (sembrava impossibile) a raggiungere un tono di verità nella descrizione del triangolo amoroso. Fra gli interpreti secondari, da citare specialmente Jackson Rathbone (Jasper), Ashley Greene (Alice), e naturalmente Dakota Fanning, che concentra nella sua raffigurazione di Jane tutta la crudele superiorità dei Volturi.
Un budget più elevato ha consentito un miglioramento degli effetti speciali (la scena di Bella che accarezza Jacob trasformato in lupo è assai credibile). Il montaggio di Art Jones e Nancy Richardson è efficace: vedi per esempio l'incisivo stacco dal cupo discorso di Rosalie sulla sete di sangue all'assalto dei vampiri di Victoria a un gruppo di esseri umani, oppure l'energica scena dell'inseguimento di Victoria da parte dei Cullen. La battaglia finale, dove due gruppi di vampiri, uno dei quali alleato ai licantropi, si scontrano, in montaggio parallelo con il combattimento fra Edward e Victoria fra le montagne, raggiunge una tensione spettacolare che mancava alla serie (lo scontro finale di “Twilight” era ridicolo). Bello il particolare commovente della vampira newborn Bree, una ragazzina impaurita, e perfetta la minacciosa solennità dell'arrivo finale dei Volturi.
Naturalmente il film non trascura l'aspetto sentimentale, e la fotografia di Javier Aguirresarobe qui si concede toni sfacciatamente romantici. Il problema che tormenta Bella non è più se prima sposarsi o prima farsi mordere, ma se perdere la verginità prima o dopo il matrimonio. Ovvero, il dilemma morale sotteso ai libri e ai film della saga (dove la vampirizzazione “sta per” il rapporto sessuale) ora, introdotto il tema del matrimonio, esce dalla metafora: la perdita della verginità da contenuto metaforico diventa tema parallelo.
Molto divertente – ma non privo di logica: in fin dei conti ha più di 100 anni – il puritanesimo di Edward, che respinge il sesso prematrimoniale e anzi fa la sua proposta in modo simpaticamente “antidiluviano” (Bella dixit): “Isabella Swan... mi concederesti lo straordinario onore di diventare mia moglie?”. Lungo il film, i siparietti naso-contro-naso fra i rivali Edward e Jacob portano una nota piacevole (ma non per i tre protagonisti). Sia maledetta la monogamia, si potrebbe dire, e Bella sembra sempre lì lì per dirlo, ma questa storia si situa per definizione sul versante del “non facciamolo”, quindi niente. Se Bella imparasse qualcosa dall'Anita Blake di Laurell K. Hamilton sarebbe meglio per lei - ma non sarebbe più “Twilight”, vero?

sabato 3 luglio 2010

The Hole

Joe Dante

E' giusto scocciarsi leggendo un titolo come “The Hole - In 3D”, incrocio contronatura fra la storia e il dispositivo, come il vecchio “Totò a colori”. Ma il discreto film di Joe Dante potrebbe avere qualche giustificazione: nell'attuale voga dei film tridimensionali, “The Hole” è uno di quelli che meglio usano la dilatazione illusionistica dello spazio, ch'è l'unico (tenue) titolo d'interesse del 3D, anziché scaraventare oggetti contro gli spettatori come ad esempio l'ultimo “Final Destination”. Vale per scene quotidiane come il dialogo iniziale fra il giovane Dane e sua madre; vale tanto più quando l'amplificazione dello spazio è usato ai fini della suspense: quando i due fratelli cominciano a gettare sonde e oggetti nel misterioso buco senza fondo scoperto in cantina, la mdp si concede anche il controcampo da dentro la galleria, e il 3D esaltando la distanza aumenta l'effetto.
A guardare la produzione horror americana, metà dell'umanità è costituita da madri sole e squattrinate con due figli o figlie (di cui uno/una invariabilmente rompipalle), che traslocano in una casa infestata. Qui i fratelli Dane e Lucas trovano il buco, con una botola bloccata da lucchetti; tolti quelli, a tener ferma la botola non bastano neanche i chiodi. Il guaio è che cominciano a uscirne sinistre entità: la materializzazione delle peggiori paure di chi viene attaccato. Niente di assolutamente terrificante, però: non solo per la riduzione dei protagonisti al mondo adolescenziale e infantile, “The Hole” è dichiaratamente un film per ragazzi, l'equivalente della produzione letteraria chiamata “young adults”.
Da bravi ragazzi moderni, che non si confiderebbero con i genitori nemmeno se fossero minacciati dall'uomo lupo, i fratelli non dicono niente a una madre peraltro distratta e si coalizzano con la figlia dei vicini, Julie, per fare qualcosa, senza sapere cosa. Qui Joe Dante introduce un tocco di umorismo - i tre tengono d'occhio il buco “armati” con caschi sportivi, mazze da baseball e coperchi di pentola come scudo - che è carino, benché poco in sintonia con un film privo di toni scherzosi (ma nota lo humour citazionistico - Dante ci sguazzava ne “L'ululato” - nel battezzare una fabbrica di guanti Orlac).
La sceneggiatura di Mark L. Smith non brilla per originalità. Stephen King potrebbe chiedere i diritti: l'impostazione ricorda “It” su scala ridotta; è molto kinghiano il pupazzo malefico che attacca il piccolo Lucas (ma quando viene spedito a disintegrarsi nel ventilatore è puro “Gremlins”), come pure il poliziotto-zombie. La figura più riuscita è la bambina fantasma. Il suo modo di muoversi a scatti sembra non dipendere solo dal fatto che zoppica perché ha una scarpa sola, e quando la vediamo strisciare come un insetto per tornare nel buco, desta inquietanti reminiscenze di “Ju-on: The Grudge” di Shimizu.
La scena migliore di “The Hole” è quando Julie si arrampica su un vecchio ottovolante in rovina per incontrare la bambina: era stata la sua migliore amica e lei da piccola, per paura, l'aveva lasciata morire in un incidente (dove c'è un fantasma c'è sempre una colpa?). “Sei diventata grande, Julie” - “Lo so. Mi dispiace”. Il triste dialogo fra un disperato spettro infantile e un'adolescente schiacciata dal rimorso, sedute una accanto all'altra sul bordo del vuoto, è superiore a tutto il resto del film.
Peraltro la soluzione visuale più audace è un'altra. Quando Dane (attenzione, spoiler!) si getta nel buco per salvare il fratellino rapito, deve affrontare la propria paura segreta: quella del padre, che li picchiava crudelmente (ad essere pignoli, si sente odore di Stephen King anche qui). Si ritrova in una casa bizzarramente deformata che è il modo in cui il buco riproduce il suo inconscio - o viceversa - e Dante costruisce la casa in termini di puro "caligarismo", ovvero quella deformazione totale dello spazio che prende il nome dal classico espressionista “Das Kabinett des Dr. Caligari”. Anche se il rifacimento dà adito a uno scontro non diverso da tanti altri horror (il fantasma che si nutre delle tue paure viene sconfitto se le superi), la cinefilia di Dante è soddisfatta - e forse anche quella dello spettatore.