martedì 31 agosto 2010

Shrek - E vissero felici e contenti

Mike Mitchell

Lo spettatore ricorderà che il terzo episodio di Shrek rappresentava una palinodia, trasformando l'orco puzzolente del primo film - satira delle fiabe tradizionali e della mielosità disneyana - nel solito “buono” in lotta coi soliti “cattivi”. Uno sviluppo inevitabile, forse, nella logica seriale, ma certamente un impoverimento. A rimettere le cose a posto, ora è arrivato il quarto “Shrek”, diretto da Mike Mitchell: “Shrek – E vissero felici e contenti” (“Shrek Forever After”). Non è che il quarto film rinneghi il cambiamento; però lo assume e lo elabora con estrema abilità, fondandolo su un'analisi psicologica – all'interno della deformazione comica – e su una costruzione narrativa forte.
Alla base del film c'è la crisi di Shrek di fronte alla quotidianità pantofolaia della sua vita familiare: la moglie, i tre bambini, i parenti e amici sempre in visita – con in più il rimpianto di quando faceva paura a tutti, mentre invece adesso è una celebrità locale. Una gag molto carina vede correre verso di lui la classica mob di contadini con torce e forconi dei film di mostri – per chiedergli l'autografo.
Chiunque (e massime un orco) amerebbe tornare ai giorni ruggenti della giovinezza. Così Shrek fa uno sciagurato patto magico con Tremotino (Rumpelstiltskin), cedendogli un giorno qualunque della sua vita in cambio di un giorno dei vecchi tempi, quand'era libero, solo e combinaguai. Però l'astuto Tremotino si prende il giorno della sua nascita: di conseguenza, Shrek si ritrova in un universo alternativo in cui lui non è mai nato, sua moglie Fiona non lo conosce, Tremotino si è impadronito del trono e tutto è triste e squallido nel reame. Pertanto Shrek ha un solo giorno di esistenza, nel quale dovrà sudare sangue per rimettere le cose a posto.
Il principio del “cosa sarebbe successo se non fossi mai nato” (ovvia reminiscenza del Frank Capra de “La vita è meravigliosa”) implica la ridefinizione di tutti i personaggi della saga. Il film la gestisce con logicità e umorismo – grande il Gatto con gli Stivali ingrassato e imbolsito – e ci presenta una “Resistenza degli orchi” contro il tiranno, nello stile di tanti eserciti ribelli del cinema fantastico e storico-avventuroso. Per questa via il film non solo ci apre uno squarcio sugli orchi come gruppo sociale ma recupera anche un po' dello humour corporeo e gaglioffo del primo episodio. I ribelli sono comandati da Fiona, il che regala un'angolatura inedita al suo personaggio prima un po' anodino.
Lo svolgimento è vivace e spiritoso, con gli orchi che - costretti a ballare dalla musica magica del Pifferaio di Hamelin - formano una coreografia da musical. Complice l'esigenza di accodarsi alla moda del 3D (ma il quarto “Shrek”, come “Toy Story 3”, funziona bene anche flat), il film ha una cura particolare del movimento; siccome il classico ruolo delle truppe al servizio del villain tocca a streghe in volo su una scopa, il movimento aereo ha modo di porsi al centro dell'azione. Ma il valore principale di “Shrek – E vissero felici e contenti” sta nella sceneggiatura (di Josh Klausner e Darren Lemke), col suo elemento di comedy sentimentale e verbale. Non solo divertenti gag – Pinocchio che dipinge di verde il povero Geppetto per fingere di aver catturato Shrek e guadagnarsi la taglia! - ma un autentico svolgimento umano (o meglio orchesco), sorretto da un'ottima resa delle espressioni.
Il terzo “Shrek” era grazioso, ma fondamentalmente inutile, e anche un po' disappointing per la perdita della carica eversiva del primo. L'intelligenza con cui il quarto episodio ha salvato capra e cavoli merita un elogio. Adesso che Shrek ha imparato la lezione e – alla Frank Capra, appunto – ha appreso ad apprezzare la vita affettiva che ha, probabilmente il personaggio si congeda dagli spettatori. O forse no? Mai sottovalutare l'inventiva della DreamWork.

L'apprendista stregone

Jon Turteltaub

Avevamo lasciato il sagace produttore Jerry Bruckheimer che cercava invano di ritrovare la vena d'oro di “Pirati dei Caraibi” con il mediocre “Prince of Persia”. Eccolo di ritorno, e stavolta gli è andata molto meglio:“L'apprendista stregone”, diretto da Jon Turteltaub, è un eccellente fantasy avventuroso, e anche più facilmente serializzabile che “La maledizione della prima luna”. Non per nulla un breve accenno post-credits (riservato a chi ha la mezzora per guardarseli tutti) preannuncia il sequel.
Il ciclone Harry Potter ha cambiato per sempre la letteratura e il cinema per l'infanzia (delle varie opere che mostrano la sua influenza la più riuscita, sebbene un po' scoperta come imitazione, è “Percy Jackson e il ladro di fulmini”); e c'è qualcosa di Harry Potter anche ne “L'apprendista stregone”. A partire dal concetto base: uno sfortunato pieno di dubbi su se stesso viene scelto per apprendere la magia e scopre addirittura di essere l'Eletto (qui, il sommo Merliniano) destinato a salvare l'umanità: Morgana le Fay, l'avversaria storica del mago Merlino, è imprigionata da secoli coi suoi accoliti in una prigione magica a forma di matrioska; ciascuno col proprio apprendista, il mago buono Balthasar (Nicolas Cage) difende la prigione, il mago cattivo Horvath (Alfred Molina) vuole liberare Morgana e aiutarla a distruggere il mondo. Come Harry Potter, Dave (Jay Baruchel) sente il peso di questa responsabilità che non ha chiesto, e gli piacerebbe rinunciare. E' altresì “potteriana” la capacità del film di elaborare l'universo magico delineando un complesso di regole e di figurette vivaci, con un umorismo gentile. Deliziosa l'eleganza deadpan del perfido Horvath, impagabile il suo disprezzo per il suo aiutante, un cialtroncello che usa la magia per far carriera come prestigiatore (rimprovero: “Hai mai visto Morgana estrarre un coniglio da un cappello?”).
“L'apprendista stregone” non raggiungerà vertici di profondità ma è mosso, brioso, pieno di gusto della narrazione e di amore per il cinema – che spunta nell'omaggio a Buzz Lightyear in forma di sveglia del protagonista da bambino (è anche un'autocelebrazione della Disney, che produce), nella citazione di “Star Wars” che fa sbuffare Horvath, nella graziosa trovata di Dave che disegna King Kong sul finestrino appannato dello scuolabus in modo che quando il bus passa davanti all'Empire State Building si ricrei la scena dell'arrampicata: qui Dave si è fatto da solo il suo trucco cinematografico: in un certo senso ha reinventato il matte shot. E il laboratorio del protagonista da adulto, con le “bobine di Tesla” che producono giganteschi lampi, resuscita una vecchia icona cinematografica: è la weird science del dottor Frankenstein. Solo che lui per farsi bello con la sua ragazza “traduce” (magia della fisica) questi lampi in note musicali di una canzone che lei ama; ed elegantemente questa musica passa da diegetica a extradiegetica (magia del cinema), tant'è vero che continua su un cambio di scena.
La citazione-base arriva quando Dave cerca di stregare le scope per fare pulizia nel laboratorio, esattamente come Topolino in “Fantasia”; e perché il riferimento sia chiaro viene usata la stessa musica ossessiva di Paul Dukas. Ripensandoci poi si capisce che è stato questo il punto di partenza ispiratore del film – per cui è anche interessante dedurre il processo logico, che ci dice molto sul lavoro di sceneggiatura contemporaneo.
A rendere ancor più gradevole “L'apprendista stregone” sta il fatto che è un film iper-newyorkese. La sua idea migliore è di rendere magicamente viva, grazie agli incanti contrapposti dei due maghi, l'architettura di Manhattan. E allora ecco che l'enorme uccello che si protende a mo' di doccione dalla sommità del Grattacielo Chrysler prende vita e si alza in volo nel cielo di New York; parimenti, il gigantesco toro di bronzo di Wall Street si anima di una vita feroce; naturalmente non manca la classica festa a Chinatown, con il drago di stoffa che si trasforma in un bestione in carne e ossa. E quando Horvath deve magicamente mimetizzare la sua auto durante un inseguimento, logicamente la trasforma in uno dei taxi gialli che aspettano a decine il verde per le strade di Manhattan. Il car chasing - in mancanza del quale praticamente un americano non compra il biglietto - diventa molto più attraente se ci aggiungiamo la magia.

martedì 10 agosto 2010

Solomon Kane

Michael J. Bassett

Michael J. Bassett non è John Milius; “Solomon Kane” non è “Conan il barbaro”. Tuttavia neanche stavolta Robert Ervin Horward (1900-36) dovrà rivoltarsi nella tomba; il film sul puritano inglese dei suoi enfatici e affascinanti racconti è più che dignitoso. Lo sceneggiatore-regista si è letto Howard ed è venuto fuori con una trascrizione fedele - se non nella lettera, nello spirito.
E' interessante, parlando di trascrizione, il mutamento di affiliazione religiosa, che nei racconti è decisiva mentre nel film è aerea e indefinita. Kane (James Purefoy – un nome singolarmente appropriato) viene chiamato “puritano” una sola volta, sembrerebbe come variazione ironica di “pacifista” (i puritani, inutile dirlo, non erano pacifisti per nulla; lo erano gli anabattisti - almeno in teoria - o i quaccheri, ma nessuno ha mai pensato di collegare il nostro eroe a queste sette).
In Howard, quello di Solomon Kane è un cupo fanatismo contro il male: per Kane il demonio veramente cammina sulla terra “in su e in giù”, come dice la Bibbia, e lui sente il dovere di sradicarne col ferro e col fuoco ogni traccia, si tratti di mostri soprannaturali o di uomini crudeli. Peraltro la sua psicologia è la più articolata fra quelle dei personaggi howardiani: il modo in cui quello che Kane “è” (il berseker compulsivamente attratto dall'avventura e dallo scontro sanguinoso) si traduce, in un certo senso si maschera, in quello che Kane “sente di essere” (il combattente in nome di Dio) è reso con discreta finezza.
Il presente film modifica la backstory del personaggio: Kane è una specie di pirata che in un incontro ravvicinato con le potenze infernali viene a sapere di essere dannato. Comprensibilmente cambia vita, si fa tatuare una grande croce sulla schiena e si rifugia in un convento di monaci (nell'Inghilterra del 1600?! Evidentemente questo è un mondo alternativo in cui non solo esiste la magia ma Enrico VIII non ha mai decretato la dissoluzione dei monasteri). Poi si lega d'amicizia a una famiglia (la madre è Alice Krige, che ha collezionato una bella antologia di ruoli secondari nella fantascienza e nell'horror), il cui massacro lo porta a riprendere le armi: la scena rende in modo assai convincente il cambiamento di Kane da un ripugnante pacifismo a quella volontà di uccidere i malvagi che in ultima analisi è la qualità migliore di un uomo. La solennità della vestizione di Kane qui è un momento di enfasi “western” ma serve altresì a riconciliarlo con l'iconografia del personaggio stabilita dalla grafica e dal fumetto.
Il film, una produzione anglo-franco-ceca, possiede quella concretezza realistica che caratterizza l'horror inglese. Di qui la sua discreta pregnanza visuale: un'Inghilterra umida e terragna, desolata sotto l'assalto dell'esercito del male, con masse di profughi che si aggirano per i boschi; il castello demoniaco decorato di teschi; la bambina che si rivela una strega; il colore rossastro della campagna autunnale (ma anche, in una delle rare scene di pace, l'uso dei fiocchi di neve per creare un'atmosfera lirica). Anche se il plot è un'invenzione di Bassett, le scene posseggono la stessa “fisicità” esaltata dei racconti di Howard. Gli scontri sono parossistici ed estremi – compreso quello finale con un demone che per la verità ricorda un po' il Balrog de “Il Signore degli Anelli”. Quando Kane viene crocifisso dai nemici, più che connotazioni cristologiche (crocifissione e resurrezione) qui è messo in scena quell'estremismo della sofferenza che è tipico di Howard – e che per combinazione è rientrato nella cultura occidentale d'oggi attraverso il cinema e il fumetto giapponesi e cinesi.
Il film chiaramente ambisce a porre le basi di una serie. Forse sentiremo ancora parlare di Kane sugli schermi; e comunque, se questo film servirà a rinnovare la fama di Howard, tanto di guadagnato.

Occhi

Lorenzo Bianchini

Anche se non ha ancora trovato una distribuzione, è già apparso in alcune anteprime cinematografiche “Occhi”, il nuovo film di Lorenzo Bianchini.
Questo regista friulano (“Lidris cuadrade di tre”, “Custodes bestiae”, “Film sporco”) ha saputo trasformare in una costante poetica una necessità del cinema indipendente “no budget” da cui proviene: la costruzione immaginaria della location attraverso il montaggio. In “Occhi” però Bianchini trova l'ambiente perfetto già pronto a sua disposizione: la villa Stefaneo-Roncato di Crauglio (San Vito al Torre). La sua consueta capacità di vivificare i luoghi, caricandoli di minaccia, viene esaltata da questa vecchia villa e dai suoi arredi; e quest'ambientazione ha una nota in più, in quanto si sente a volte nel film un gusto documentario (vedi la digressione sull'affresco della battaglia napoleonica sul Reno).
Il restauratore Gabriele Morelli (Giovanni Visentin) è incaricato dal sovrintendente (Gianni Nistri) di restaurare i dipinti settecenteschi di questa villa disabitata. Dopo la misteriosa morte del custode semipazzo (Edo Basso), si trasferisce là; lo raggiunge l'amica Anna (Sofia Marques), per sottrarsi allo stalking dell'ex marito (o amante?). Nella villa Gabriele trova anche delle pitture murali più recenti: opera, apprendiamo, di Lorenzo Gori, l'ultimo della famiglia Gori che abitò la villa fra il 1875 e il 1900 (e tutti vi incontrarono una triste fine). Gli occhi di queste figure - ritratti-ricordo dei familiari morti - sono stati tutti scalpellati via.
Il tema degli occhi e dello sguardo è il filo conduttore del film – evocato nel dialogo dei personaggi, nelle voci spettrali, nei graffiti disseminati nella villa. “Guardano”. “Mi guardano”. “Questa mattina mi fissava”. “Non guardare, non guardare!”. Scritto accanto agli occhi cancellati: “Morte ora non vedi”. Urla Gabriele ad Anna verso la fine: “Perché mi guardi così?”. Anna racconta il suo sogno: “E loro guardavano, guardavano, col sangue negli occhi” (compare come sfondo un'enorme fotografia della famiglia Gori). E quando si scoprono i disegni preparatori delle pitture murali di Gori, notiamo l'inquietante evidenza degli occhi enormi; similmente, quel viso stregato con occhi sbarrati che compare più volte nel film è l'autoritratto di Gori (per inciso, i bellissimi disegni attribuiti a Lorenzo Gori nel film sono di Annalisa Gaudio).
Questa villa è infestata di frammenti visivi tra il flashback e lo spettrale (ma cos'è uno spettro se non un flashback?) della famiglia Gori, immagini di morte e di suicidio. Ma all'esterno della villa Gabriele scopre delle sculture che rappresentano una civetta - la dea preistorica della morte. Sono gli spettri dei trapassati a infestare la casa? O è la vibrazione delle loro emozioni che ne ha impregnato i muri, e agisce sull'inconscio di Gabriele e Anna? O è l'antichissima dea della morte che possiede ancora il luogo, dove tutto marcisce e si decompone anzitempo? L'ultimo Gori si rifugiò in una stanza segreta perché “c'era qualcosa fuori”. Ma qualunque sia la risposta, guardare apre un itinerario alla morte e alla pazzia; è come guardare la Gorgone.
Catturati, i due protagonisti vagano in una specie di tempo sospeso per i percorsi irreali della villa (come ha scritto splendidamente Carlo Gaberscek, “diventa una Marienbad friulana”). Quella forma-labirinto che caratterizza il cinema di Bianchini, l'universo-trappola, trova nella location reale della villa di Crauglio la sua incarnazione più compiuta. La fotografia di Ivano Scialino e il montaggio di Lorenzo Bianchini e Rui Branquinho cospirano per creare un'atmosfera sospesa e irreale. Un uso kubrickiano di movimenti di macchina “vuoti”, alla “Shining” (e Gabriele seduto sulle scale semi-catatonico ricorda proprio il Jack Nicholson di “Shining”); una mdp ribelle e vagante. Tutto il film è attraversato da inquadrature non correlate, da flashback non dichiarati; stacchi e dissolvenze incrociate poetici e surreali.
A un certo punto, mentre Anna e Gabriele si aggirano nella villa come spettri, c'è un bellissimo montaggio di movimenti che porta in sé qualcosa di intrinsecamente “sbagliato”: per la velocità con cui l'occhio dello spettatore registra due differenti percorsi, rinforza il concetto - presente nel film come in tutta l'opera di Bianchini - di uno spazio “einsteiniano”, incongruo, forse alla Escher.
“Occhi” è il film di Bianchini più atmosferico, attraversato da un senso soffocante di minaccia, di disperazione, di movimento inutile. E' evidente il richiamo – non parlo di citazione ma di ispirazione – all'horror di Pupi Avati, in primo luogo, e di Dario Argento: i due autori italiani ai quali Bianchini deve di più. Anche perché “Occhi” è, con “Custodes Bestiae”, il film di Bianchini che maggiormente esalta quella tendenza “antiquaria” (nel senso delle paurose “Ghost Stories of an Antiquary” di M.R. James) che gli viene attraverso Argento e Avati: i polverosi documenti e fotografie, i vecchi dipinti rivelatori, le stanze segrete, le case ammuffite dove aleggia un passato innominabile.
Tuttavia, con tutti i suoi innegabili meriti, “Occhi” è in ultima analisi un film non pienamente riuscito. Istintivamente portato verso l'horror oscuro e allusivo alla Val Lewton, Bianchini ha un restraint classico, detesta l'esibizione della mostruosità sullo schermo. Il suo film ha l'indubbio coraggio (visto che per la prima volta non è autoprodotto) di mantenere una programmatica ambiguità, un'ottica che vien voglia di definire iper-lewtoniana. Il riferimento che salta alla mente è alla ghost story tardo e post vittoriana (Oliver Onions, Henry James, l'Algernon Blackwood di “The Listener”) dove il “fatto” spettrale si inserisce e si confonde nella psicologia.
Il problema non è che il film concede poco agli spettatori sul piano della comprensione oggettiva della "fabula" (di questa si può fare a meno senza troppi rimpianti), ma che la continua costruzione della tensione non esplode mai in un lampo di catastrofica chiarezza. Nonostante il triste destino dei due protagonisti, manca il momento gripping in cui si definisce (magari per un momento, magari illusoriamente) un punto preciso; così il film lascia un'impressione di irrisolto.
E' una scelta, certo. Bianchini, sappiamo, ha lavorato molto a togliere; ha girato molto, anche con una maggiore “fisicità” del racconto, e in sede di montaggio ha molto modificato e tagliato - forse troppo. E' difficile peraltro sperare in una futura versione extended. In ogni modo “Occhi”, con la sua atmosfera crudele e mefitica, rinverdirà la sua posizione di regista oggetto di un piccolo ma convinto culto.

Toy Story 3 - La grande fuga

Lee Unkrich

Davvero oggi la Pixar rappresenta il top del cartoon occidentale. Che altro dire di una casa di produzione che in tre anni ci ha dato “Ratatouille”, “WALL-E”, "Up" e il terzo “Toy Story”?
Diretto da Lee Unkrich e splendidamente sceneggiato da Michael Arndt (“Little Miss Sunshine”), “Toy Story 3 – La grande fuga” è il migliore della serie: scatenato nella narrazione, autentico nel movimento, pieno di humour e di poesia, delizioso per caratterizzazione dei personaggi e vivezza satirica. Il film inizia con un'imprevista pagina comico-avventurosa in stile western, una rapina al treno coi coniugi Potato inseguiti da Woody; si aggiungono in continuo ampliamento gli altri personaggi, creando una spirale citazionistica che dal western va alla fantascienza, a James Bond, ai kaiju eiga, man mano che si amplia. Poi passa, con elegante transizione di punto di vista, a una vecchia registrazione video di Andy bambino che gioca. Ma ora Andy ha diciassette anni e deve partire per il college; e i suoi giocattoli temono l'abbandono (“Venite, vediamo quanto ci quotano su eBay”). Per errore, anziché in cantina finiscono regalati a un asilo: non solo vengono orribilmente maltrattati da piccoli mocciosi ma sul piano della vita segreta dei giocattoli l'asilo – governato da un orso di peluche che è una specie di boss mafioso – è un lager. E' geniale quest'applicazione ai giocattoli del cinema concentrazionario con tutte le sue connotazioni (compreso un tocco horror nell'orribile scimmia musicante che controlla i monitor di sorveglianza).
In generale, l'accuratezza e l'inventiva di “Toy Story 3” hanno del miracoloso. Il concetto di umanizzare i giocattoli descrivendo la loro vita segreta quando noi umani non li guardiamo viene da Andersen, naturalmente, ma si ritrova anche nel cartoon classico (Disney e Warner). Qui si allarga a un commento sociologico, con la new entry Ken, che viene dissezionato sul piano culturale. E' scontato che si innamori di Barbie a prima vista (nota il doppio senso di “Siamo fatti uno per l'altra”) ma al di là di questo il film parte dai dati oggettivi per dargli una psicologia perfettamente plausibile e indovinata. “Non sono un giocattolo per bambine!!!”, s'incazza al tavolo del poker con altri giocattoli che lo beffano; più tardi, il capo gioca sulle sue debolezze psicologiche insultandolo con un devastante “Tu non sei un giocattolo: sei un accessorio”. Il film trasforma la ricchezza del suo guardaroba, un dato reale del prodotto, in narcisismo (la pagina della sua “sfilata di moda” per Barbie!).
La carica inventiva del film elabora abilmente una base logica di realtà. E' normale che un giocattolo parlante possegga oltre all'inglese la modalità per la lingua spagnola, però quando per errore Buzz Lightyear viene riprogrammato in questa modalità, non solo parla in spagnolo ma acquista sentimenti e gestualità da vero hidalgo – non senza contentezza della sua fidanzata, che si ripromette di sfruttare questa scoperta in futuro. Tutti i personaggi, a partire dall'orso Lotso (un Broderick Crawford o un Sidney Greenstreet di peluche, completo di biografia melodrammatica di abbandono), posseggono una concretezza di caratterizzazione paragonabile a quella del cinema live action. “Toy Story 3” è magistrale sia a livello di sceneggiatura sia di linguaggio. Vedi per esempio il bambolotto con un occhio rovinato: alla prima apparizione, questa deformità viene giocata a effetti patetici; quando si rivela essere un guardaspalle dell'orso malvagio, la stessa deformità assume una connotazione da cinema gangsteristico; per poi scivolare nell'horror, più in là, quando il bambolotto è seduto di spalle e sentendo un rumore gira la testa di novanta gradi sul collo, stile “L'esorcista”.
Il concetto di “movimento pericoloso” - ch'è presente in tutta la serie, fatta di ingegno e acrobazie - non è mai stato esplorato bene come nel presente episodio. Non senza una particolare vena di cupezza. Sono angosciosi il senso del pericolo e lo spettacolo della morte: vedi la pagina terrificante della discarica, in cui stanno per finire bruciati in un forno, e il particolare autentico e toccante dei giocattoli che si prendono la mano l'un l'altro davanti alla morte. Anche i pupazzi più infantili e ridicoli – il signore e la signora Potato – raggiungono nel film un'imprevedibile umanità.
Al fondo di tutto c'è un'elegia malinconica del tempo umano che trascorre, dell'amico-padrone che invecchia e della necessità di passare la mano. Come in Andersen, i giocattoli possono perire, ma la loro condizione esistenziale è immutabile. Se ci si pensa, c'è in questo loro “tempo bloccato” una tristezza - e insieme una felicità.