martedì 29 novembre 2011

Anonymous

Roland Emmerich

A prescindere da un titolo anonimo come “Anonymous”, l'unico demerito del bellissimo film di Roland Emmerich sta nel fatto che milioni di spettatori (e studenti) resteranno convinti che William Shakespeare era solo un prestanome, e il vero autore delle sue opere era Edward de Vere, XVII conte di Oxford. Costui era effettivamente un grand'uomo; ma la teoria, esposta la prima volta da John T. Looney in un libro del 1920, non ha basi concrete (pur essendo più seria di quella che nello stesso ruolo vorrebbe Bacone) ed è costruita soprattutto su un'assenza: la strana scarsità di dati biografici sul Bardo di Stratford-upon-Avon.
“Anonymous” costruisce su questa e su varie altre presupposizioni (il conte di Essex come figlio naturale di Elisabetta I! - e molto altro) una complessa trama di storia alternativa: non controfattuale, però, in quanto sfocia nella storia come la conosciamo, solo che ne inventa dei folli retroscena. C'è nel film un'indubbia accuratezza storica di partenza: anche personaggi fuggevoli come l'amante incinta di de Vere sono autentici, rivoltati e intessuti in un contesto fictional con notevole abilità. Per esempio, un fatto reale, l'omicidio di un servitore da parte di de Vere a 17 anni, viene modificato facendogli trafiggere l'uomo attraverso un arazzo, e diventa così un'anticipazione dell'uccisione di Polonio che de Vere metterà nel suo “Amleto”.
Sulla scorta dell'eccellente sceneggiatura di John Orloff, Roland Emmerich ha realizzato il film come un saggio di graduation, per mostrarci che non è solo un regista di film avventurosi, alcuni ben riusciti (“Stargate”, “Independence Day”, “The Day After Tomorrow”), altri solo divertenti (“2012”), altri brutti (“10.000 AC”) o esecrabili (“Godzilla”). Fatica sprecata, la sua, si potrebbe aggiungere: visto che la pigrizia intellettuale della maggior parte dei critici ormai lo ha categorizzato, e che anche un ottimo film come questo (assai superiore per esempio a “Shakespeare in love”) non li smuove di un millimetro. Del resto, di fatiche sprecate, pene d'amor perdute, disastri esistenziali, cospirazioni fallite, molto sudore per nulla, lo stesso film è pieno; si può ben dire che la materia para-shakespeariana ha influenzato la sceneggiatura. Non per nulla, rispetto alla tragica vicenda dei conti di Essex e Southampton sentiamo nel film più di un riferimento al teatro (dice a de Vere la maligna moglie: “Tuo figlio sarà ucciso, Edward, da sua madre. Mettilo in una delle tue commedie”).
Il film, pur indirizzato al grande pubblico, non nasconde dunque una certa ambizione autoriale. Interessante il gioco metanarrativo in apertura: in un teatro della New York contemporanea un attore (Derek Jacobi) racconta al pubblico la “vera” storia di Shakespeare; mentre parla vediamo prepararsi l'attore che interpreta Ben Jonson e le comparse che faranno i soldati elisabettiani con torce. Costoro stanno per entrare in scena - ma non nello spettacolo che vediamo, bensì nella Londra di qualche secolo prima. Si fa notare anche una precisa citazione dell'inizio dell'“Enrico V” di Laurence Olivier (1944), nel movimento di macchina aerea che ci porta dal Tamigi al Globe.
Il punto da sottolineare non è che Emmerich sa uscire abilmente dalle scene in interni con un paio di ariose scene di massa e di CGI (la sommossa dei popolani in favore di Essex, il solenne stacco da una stanza del Palazzo ai funerali di Elisabetta a Londra sotto la neve). Questo era da aspettarsi. La cosa interessante è che Emmerich si dimostra assai convincente nella situazione contraria: il gioco di recitazione in ambienti chiusi. Lo aiutano magnifiche interpretazioni: in particolare Rhys Ifans (de Vere) e Rafe Spall (Will Shakespeare, attore e prestanome), nonché una monumentale Vanessa Redgrave, la regina da vecchia in un ritratto di folgorante realtà umana, che potrebbe ambire al titolo di miglior Elisabetta della storia del cinema.
Un'ottima messa in scena fa emergere con autentica vivezza la Londra elisabettiana, il gioco dei potenti a corte, l'umile milieu teatrale (Jonson, Marlowe, Dekker, Nashe...). I cattivi dei due mondi sono rispettivamente i due Cecil, padre e figlio, e l'invidioso Christopher Marlowe (povero Kit Marlowe! Il fatto che fosse effettivamente un tipaccio ne fa il son of bitch naturale per qualsiasi rievocazione immaginaria, come l'eccellente romanzo ucronico di Harry Turtledove “Ruled Britannia”, da noi “Per il trono d'Inghilterra”). Da questo punto di vista “Anonymous” è molto informativo, e si potrebbe utilizzare a scopo didattico (paradossalmente, dato la sua trama di pura invenzione: cosa che gli insegnanti faranno bene a spiegare). Esaltazione del valore della parola e del teatro, il film mostra assai bene come la forma del teatro elisabettiano consentisse un rapporto stretto col pubblico: qui, in una bellissima scena, l'attore che interpreta Enrico V recita il grande discorso di Agincourt toccando le mani protese degli spettatori commossi.
Ma c'è di più. Quello che davvero scatena l'entusiasmo in questo film, quello che gli dà la maggior parte del suo valore, è il modo storicamente corretto in cui mostra la messa in scena dei drammi shakespeariani nell'epoca in cui furono scritti. Mentre oggi teniamo ancora nella memoria (se non sui palcoscenici) la recitazione solenne e lirica di Shakespeare stabilitasi nell'Ottocento, il film ne sottolinea invece la componente di buffoneria. Mica nelle commedie! Perfino nel prologo dell'“Enrico V” (parere personale: forse la pagina forse più alta che il Bardo abbia mai scritto) l'attore che interpreta il Prologo buffoneggia alla parola “cavallo” mimando uno stallone per la delizia del pubblico. Un teatro di carne e sangue, un teatro in cui il dramma più straziante può incrinarsi in una risata, il teatro adatto per arene in cui si esibiva l'orso ammaestrato. Era inaspettato che, di tutti i registi, dovesse mostrarcelo sullo schermo Roland Emmerich.

martedì 22 novembre 2011

Il cuore grande delle ragazze

Pupi Avati

Una leggenda riferita nel vecchio “Addio, Mr. Chips!” di Sam Wood dice che, per quanto il “bel Danubio blu” a Vienna non sia blu ma grigio, lo vede blu chi è innamorato. Un po' come l'alito che sa di biancospino di Carlino (Cesare Cremonini) ne “Il cuore grande delle ragazze” di Pupi Avati. Se lui lo fa sentire a un uomo, questi non avverte odor di biancospino, anzi! - ma sì che lo sentono le ragazze, perché sono affascinate. Carlino è stupidotto, è illetterato, non è nemmeno troppo bello, ma appartiene a quella rara specie maschile che è il seduttore naturale. Tutte cascano per lui, e lui non se le lascia scappare. Un giorno il proprietario terriero Osti propone al suo mezzadro spiantato, il padre di Carlino, di far sposare al giovanotto una delle sue due figlie zitelle a scelta. In cambio la famiglia avrà un vantaggio economico, e Carlino una moto Guzzi. Le pagine delle visite di (quasi) corteggiamento sono fra le migliori del film. Solo che Carlino incontra la bellissima figlia adottiva di Osti, Francesca (Micaela Ramazzotti), i due si innamorano, e alla fine si sposano contro tutto e contro tutti. Qui cominciano i veri guai, visto che Francesca sorprende il marito a cornificarla la prima notte di nozze.
L'esile e piacevole film di Pupi Avati non è uno dei suoi grandi film, solidi e commoventi, come negli ultimi anni “Il papà di Giovanna”, “La seconda notte di nozze” o “Il cuore altrove”. E' quasi un divertissement – eppure il suo spettacolo di figurette in rilievo riempe lo schermo e solletica la fantasia.
Pupi Avati, si sa, è un regista romanzesco: non il grande romanzesco alla Scorsese, bensì un piccolo realismo, un romanzesco del bozzetto. Non sembri riduttivo questo! Disegnare un bozzetto non è uno scherzo (il brutto cinema italiano d'oggi, con la sua pletora di modeste commedie, continuamente ci prova e continuamente fallisce, cadendo nella meccanica caricaturale del luogo comune). Nei film di Avati tutto è tangibile. Dal flusso del racconto emergono con una particolarissima concretezza, sensibili e tattili come scabre tessere di mosaico, l'espressione di un viso, una frase, un'imprecazione, un tocco di messinscena, oppure intere figure così felicemente tratteggiate che quasi potrebbero essere protagoniste di un film tutto loro, e restano sullo sfondo, ma così vive che paiono scolpite. Vedi qui la sorella Sultana “che aspetta da 9 anni le mestruazioni” o la zia ex prostituta priva di un occhio (Sydne Rome). E' nel contesto di questa ricchezza evocativa che si affaccia il mirabile grottesco avatiano. Che più d'una volta ha giocato sui ciechi, e anche nel presente film, col dettaglio splendido dell'orchestra di ciechi alla festa di nozze – ciechi, ma uno non lo è, e contempla beato i sederi nudi esibiti da due ragazze ignare.
Questa concretezza corposa si lega assai bene all'evocazione del passato: Avati è un poeta della memoria. Donde l'uso della voce narrante, che rievoca un periodo andato, forse leggendario, certo scomparso, inghiottito dal tempo; qui è la voce del fratello minore Edo. Sono quadretti agrodolci, pervasi di un'aura malinconica, che tuttavia nelle commedie assume spesso un senso di felicità nell'accettazione (più o meno illusa) dell'immediato.
A volte Avati nel suo bozzettismo si perde (“Gli amici del Bar Margherita”). Ma non è il caso de “Il cuore grande delle ragazze”, esile, dicevo, ma dignitoso. Che contiene sequenze felicissime, come quella del matrimonio fallito per mancanza del prete, o la grande pagina della morte del padre (un eccellente Andrea Roncato); e almeno una scena da antologia, folle e poetica, buffa e straziante, quella delle suore in treno; e che comunque contiene, onnipresente, una vera felicità di narrazione.

giovedì 17 novembre 2011

This Must Be the Place

Paolo Sorrentino

Una coproduzione internazionale in cui una vecchia rockstar in ritiro (rugoso, fragile, ma abbarbicato al look di un tempo: capelli lunghi nerissimi, rossetto e occhi bistrati) dopo la morte del padre con cui non parlava da anni scopre che questi, ebreo reduce dal campo di sterminio, aveva passato la vita a dare la caccia all'ex comandante del Lager – e assume su di sé quella ricerca, in giro per gli Stati Uniti. Sembrerebbe una di quelle idee buone al massimo per un film ironico d'azione. E invece Paolo Sorrentino nello stupendo “This Must Be the Place”, su una sceneggiatura scritta insieme a Umberto Contarello, ne fa uno dei film più folgoranti dell'anno, e dei migliori della sua carriera cinematografica.
Come la mafia ne “L'amico di famiglia”, la caccia al nazista in America è per Sorrentino il quadro (attenzione: questo vuol dire tutt'altro che lo sfondo!) entro il quale si sviluppa il ritratto di una persona. Il protagonista Cheyenne è una di quelle figure enigmatiche e chiuse, dolorose di un dolore nascosto, che realizzano i classici ritratti sorrentiniani: uomini che si sono costruiti intorno una barriera. Sean Penn ne dà un'interpretazione monumentale – e a volte si sente una sorta di tensione fra questa prova attoriale e la regia, quasi che l'attore tendesse a mangiarsi il film; ma la verità è che questa tensione fornisce a “This Must Be the Place” parte del suo fascino.
Inizia in Irlanda, con la classica situazione di “tempo bloccato” dei film di Sorrentino, con quelle stanze tristi (per esempio quelle di Andreotti ne “Il divo”, ma non solo) che materializzano uno stato esistenziale. Oppresso da un grumo silenzioso di insoddisfazione e senso di colpa, Cheyenne dice alla moglie che teme di avere la depressione, e lei gli risponde di non confonderla con la noia. Battuta cui risponde più tardi il cacciatore di nazisti Mordecai (che guarda con divertita partecipazione segreta alla ricerca, dilettantesca ma fortunata, di Cheyenne) dicendogli “Mi sa tanto che avevi proprio bisogno di un diversivo”.
Inizia in Irlanda e si sviluppa in America in forma di road movie, fiorendo in memorabili sviluppi e affascinanti digressioni (come non citare uno sconvolgente cameo di David Byrne nella parte di se stesso). Sorrentino ha sempre la capacità di realizzare un cinema simbolico visualmente radicato nella realtà. E' un regista dello sguardo; ma le sue superbe carrellate a scoprire sono anche capaci di andare oltre i personaggi, come una che si avvicina, li supera, ed esce dalla finestra. Il termine migliore per definire questo film è quello di sospensione.
Il grottesco sempre presente nel realismo sorrentiniano prende la forma dell'iperrealismo (et pour cause, in un film così americano). Questi paesaggi, questi visi, queste figure di comuni cittadini americani, tutto sposa la realtà concreta con l'assolutezza di una ricostruzione più vera del vero (un platonismo dell'individuale?), quale la troviamo nelle foto di Diane Arbus o nelle sculture di Duane Hanson. Anche il vecchio tedesco nudo nella neve alla conclusione non è solo una geniale soluzione di sceneggiatura; sul piano figurativo è iperrealismo puro. Ed è questo iperrealismo che dà ai momenti di sospensione quasi onirica del film - non come situazione oggettiva ma come proiezione dello sguardo del protagonista - un valore vagamente epifanico.
“Il segreto è il tempo”: il protagonista nascosto di “This Must Be the Place” è il tempo stesso. Questo film è pieno di discorso sul tempo come misura del valore delle cose (per inciso, va segnalato anche un bellissimo discorso sul perché le donne si concedono quando vengono corteggiate molto a lungo). Paradossalmente, quello che dà la sua terribilità all'Olocausto è che non si può dimenticare - non il contrario. Su questo concetto del tempo come valore concordano tutti i personaggi, dal cacciatore di nazisti Mordecai allo stesso nazista in fuga. Ora, come entra questo riguardo a Cheyenne? Per capirlo possiamo riferirci a un'altra frase che sentiamo nel film: “Non hai mai cominciato a fumare perché sei rimasto un bambino”. Cheyenne, pietrificandosi nel suo look di vent'anni prima (e pertanto grottesco), nonché nella rottura adolescenziale col padre, ha cercato di fermare il tempo. Il suo viaggio alla scoperta di se stesso, dell'Olocausto, del padre morto, della giustizia, dell'America, è la scoperta del tempo.
Per questo alla fine del film inizia a fumare, si taglia i capelli, abbandona quel suo look da Peter Pan invecchiato, e così cambiato va a trovare la madre di sua figlia. Con la conclusione del viaggio, il tempo ha ricominciato a scorrere.

mercoledì 9 novembre 2011

Melancholia

Lars von Trier

L'apertura col viso rigido di Kirsten Dunst in primissimo piano (uno di quei PPP così stretti di Lars von Trier) che apre lentamente gli occhi è la perfetta illustrazione della melancolia. La caratterizzano perseveranza e indolenza, esibizionismo e dissimulazione, introspezione e irresolutezza, distacco e depressione. Il suo pianeta è Saturno. Tutto questo è Justine (Kirsten Dunst) nel film. Ma non dobbiamo dimenticare che il melancolico è anche profeta: guida alla comunione con Dio – o, come qui, guida le persone che ama alla comunione con la morte.
Capolavoro di Lars von Trier superiore ad “Antichrist”, segnato da quell'incredibile realismo “trieriano” che sa far lampeggiare il barbaglio del vero assoluto nelle cose, “Melancholia” consta di un prologo e due episodi, intitolati alle due sorelle Justine e Claire. Il prologo mostra, in un montaggio poetico d'immagini sulla musica di Wagner, come il pianeta errante Melancholia si schianti contro la Terra (la fine del mondo è dunque già dichiarata all'inizio: tutta la nostra visione del film si svolge nel cono di questo lutto). Le immagini del disastro, di un disumana bellezza, si fondono con immagini surreali e sconvolgenti di Justine; con la visualizzazione del suo mondo onirico; con diverse citazioni pittoriche; con la morte delle creature viventi, racchiusa e simboleggiata in quella del cavallo; con raffinate figure in cui la geometria narrativa viene concretizzata in geometria visiva. Lo scontro di Melancholia con la Terra sembra un coito stellare, ricorda la fecondazione dell'ovulo - ma al contrario: nel senso che non serve a produrre la vita bensì a cancellarla in tutto l'universo (Justine, che “sa le cose”, dichiara a un certo punto che la vita è un'eccezione unica nel cosmo). Ma quello che nel film di Lars von Trier è diverso da mille catastrofi alla Flammarion concepite ben prima che fosse inventato il cinema è la calma accettazione con cui viene messo in scena il destino.
Il primo episodio si apre - con un brusco passaggio alla mdp a mano - sulla limousine che porta i due sposi Justine e Michael alla loro festa di nozze nella villa della sorella di lei, Claire (Charlotte Gainsborough). Sullo stretto viottolo di campagna la limousine stenta seriamente a manovrare; e la sua difficoltà a muoversi, realizzata in modi insieme comici e unsettling, è un'anticipazione allegorica del fallimento della festa (cui fra l'altro gli sposi arrivano con ore di ritardo). Questo matrimonio turbato da una corrente ghiacciata di imbarazzo e follia è parente stretto di tanti matrimoni, riunioni e celebrazioni che abbiamo visto nei film del Dogma (e ne ha la stessa immediatezza linguistica). Mentre appare in cielo il pianeta Melancholia, in Justine la melancolia prende il sopravvento. Vediamo tensioni sotterranee ma soprattutto un rifiuto non spiegato (come quello di Bartleby lo scrivano) di Justine - sicché alla fine Michael fa le valige e tristemente se ne va. Justine è connessa al pianeta; è lei che lo vede per primo: “Che stella è quella?” Poiché Justine è l'incarnazione del temperamento melancolico - ciò che unisce in una linea ideale il pianeta, il racconto, la sua protagonista e il regista, che in lei si rispecchia.
Se la prima parte mette in scena la fine (sul nascere) di un matrimonio, la seconda mette in scena la fine del mondo (lo spazio non consente di analizzare qui il raffinato gioco di ripetizioni e scarti fra i due splendidi “mezzi film”). Justine raggiunge i familiari - Claire, suo marito John, il loro figlio ragazzino - mentre, immenso sull'orizzonte, Melancholia si avvicina alla Terra. Tutti credono che le passerà solo vicino, a partire dal cognato John, il portatore della certezza scientifica (e dello status sociale) destinata a essere distrutta: John sarà il primo a uscire di scena. Ma Justine misteriosamente sa. Sa che questa è la fine del mondo - per dirla con T.S. Eliot, “not with a bang but with a whimper”: vedi la sua ironia crudele quando Claire propone di rendere pomposo l'evento con un brindisi in terrazza quale ultima sfida dell'umanità.
Di notte Justine si bagna nuda alla luce di Melancholia: anche questo possiamo vederlo come un freddo atto sessuale, senza concepimento perché il tempo di tutti i concepimenti è finito; lei, che non ha sposato Michael, qui sposa il pianeta. Mentre Melancholia si avvicina, poi sembra allontanarsi, poi si riavvicina (una danza di morte, si dice nel film), Justine, la veggente, dichiara a Claire che “siamo soli”; “la vita è soltanto sulla Terra – e per poco ancora”; e soprattutto: “l'unica cosa che so è che la vita sulla Terra è cattiva”.
Sappiamo che per Lars von Trier il giudizio sull'umanità si concentra nel nome della città di un suo film famoso: Dogville: la città dei cani. Ma non solo. Nei suoi ultimi film il regista danese è arrivato a una forma di gnosticismo radicale: la vita è il male in se stessa. Di qui l'aspetto demoniaco della natura, già dichiarato in “Antichrist”, con il quale “Melancholia” ha rapporti assai stretti, anche sul piano visuale. Anche qui ritroviamo il brulicare immondo di insetti sotto l'immediata superficie.
E dopo l'esplosione in fiamme della Terra non ci sarà nell'universo vuoto nessuno a rimpiangerla. Un pessimismo cosmico che noi italiani, lettori di Leopardi, possiamo intendere perfettamente.
Ma tutto questo non sarebbe completo senza aggiungere che Lars Von Trier trasfonde nel film - in feconda contraddizione con quel suo pessimismo cosmico - un alto sentire umano. Come nell'infernale “Riget” (“The Kingdom”) esisteva, alla base della gotica costruzione di orrore e delirio dell'ospedale, l'umile umanità dei due inservienti mongoloidi, così qui il pianto segreto di Justine nell'abbraccio al nipotino dopo averlo illuso con la pietosa bugia della grotta magica equilibra e in un certo senso riscatta il male della vita e l'inevitabile distruzione. Quella dolorosa umanità e comprensione che dà al cinema di Lars Von Trier la sua dreyeriana grandezza.