martedì 31 maggio 2011

The Tree of Life

Terrence Malick

Il capolavoro di Terrence Malick “The Tree of Life” si apre con una citazione del Libro di Giobbe, cioè della più alta (e irrisposta) domanda che sia stata prodotta dalla cultura occidentale. E appunto la forma della domanda è quella in cui si esprime il film. Il Libro di Giobbe lo modella: sul piano alto nelle voci della madre (Jessica Chastain) e in modo più oscuro di Jack (Sean Penn), ma anche - parodisticamente - in una misura più mediocre, a dimensione del personaggio, nella lamentazione del padre (Brad Pitt) dopo aver perso il lavoro. In Malick il parlato ha sempre un tono elevato, oratorio, “shakespeariano”, che enuncia con ricchezza retorica l'interiorità; ma in “The Tree of Life” esso prende la forma della preghiera e dell'invocazione. Il sermone in chiesa, a un certo punto, ci mette esplicitamente di fronte alla triste verità che già Giobbe ha dovuto imparare: essere giusti non serve ad assicurarci contro il male e la sventura. Dio - sentiamo nel film - “sparge sale sulle ferite che dovrebbe curare”. Risuona sempre nei millenni la stessa domanda: “Signore, perché? Dov'eri?”, “Chi siamo noi per te?”
La risposta a questa domanda è (come caratteristico in Malick) ambigua, potente, trascendente: è la visione assoluta che irrompe come un vento irrefrenabile nella narrazione. Si intrecciano, nel film, le linee di un doppio livello dell'immagine, che c'è sempre in Malick ma qui è infinitamente allargato. Il primo livello è il realismo della storia, di altissima concentrazione emotiva, della nascita, della fanciullezza e dell'adolescenza (raramente un film è riuscito a portarci così dentro nel mondo del fanciullo): la crescita, l'odio per il padre, l'aggressività cieca, la scoperta della sessualità, la scoperta della morte. Il secondo livello è la visione totalizzante e infinita, che rappresenta e amplifica tanto il turbamento del sentimento quanto la risposta ad esso. Visione assoluta, dico, perché sempre nel suo cinema Malick conferisce all'immagine della natura, in dialettica con il narrato umano, una freschezza incondizionata e miracolosa: per cui queste immagini diventano totalmente inedite, una visione da “primo mattino del mondo”. In pochi altri maestri del cinema troviamo qualcosa di simile: Murnau, Dovženko, Dreyer, Godard.
Nel suo sviluppo estremo che vediamo in “The Tree of Life”, questo sguardo totale copre la realtà quotidiana e non, gli umili steli di un campo e i pianeti, i microbi e i vulcani, l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo, la totalità del tempo dal “qui ed ora” di un paesaggio all'evocazione dei dinosauri. Troviamo nei credits finali la menzione di natural realm, astrophysical realm, microbian realm, ma ad essi Malick ha l'audacia di aggiungere tutte le risorse del trucco. Questo svincolarsi dell'immagine dal campo mimetico rare volte metaforizza la narrazione (un esempio eccezionale: la resa visiva del parto con il figlio, già ragazzino, che esce nuotando verso un'apertura in alto dalla casa allagata); più spesso la “apre” e la soverchia, vi entra come la voce possente dell'universo. O di Dio (la citazione iniziale riporta le terribili parole di Dio a Giobbe, “Dov'eri tu...” - perché le forme della materia, che vediamo dispiegarsi nell'immagine, sono le forme della creazione). Due vie e due forze si contrappongono in “The Tree of Life”, la Natura e la Grazia; potremmo dire, per mantenere l'antinomia malickiana, che nel film il realismo narrativo concretizza sullo schermo la Natura, la visione assoluta concretizza la Grazia.
Tutte le opposizioni che attraversano il film - Natura/Grazia, padre/madre, cattivo/buono, egoismo/donazione, logica/amore, contingente/infinito - vanno risolte; allo stesso modo in Jack va risolta, pacificata, la ferita della perdita del fratello, elemento unificatore simbolico della perdita del tutto (l'infanzia, gli affetti, la famiglia): “Cercami”. E tutto questo viene risolto nell'imponente visione finale, in cui, fuori dallo spazio e dal tempo, Jack ritrova il se stesso dell'infanzia, il fratello perduto, la madre, il padre, che pure - allora - odiava: ed è la grande conciliazione del tempo, che lima i nostri furiosi dolori. La Grazia irrompe come vento, o come la mutevole grandezza di un immenso stormo di uccelli in volo fra i grattacieli. Valgono tanto più per questo film le parole che concludevano “La sottile linea rossa”: “Tutto risplende”.
Sotto questo aspetto “The Tree of Life”, coerentemente con la sua aspirazione alla totalità, si differenzia dai film precedenti di Malick, e li assomma, perché pone in modo esplicito e quasi trionfale la sua risposta affermativa, in precedenza implicita, o si potrebbe dire sperata. Come già altri hanno osservato, stante l'evidenza dell'immagine visionaria e il suo modo di intersecare la narrazione, possiamo considerare “The Tree of Life” un “2001: Odissea nello spazio” per il terzo millennio.

martedì 24 maggio 2011

Far East Film Festival 2011

Far East Film Festival 2011: la delusione cinese. Sembra strano scriverlo, visto che a Udine i film della Cina continentale si sono portati a casa un bel successo, col primo posto (“Aftershock” di Feng Xiaogang) e il secondo (“Under the Hawthorn Tree” di Zhang Yimou) nel premio del pubblico; mentre il terzo premio è andato alla commedia filippina di Chris Martinez “Here Comes the Bride” e il premio dei Black Dragons al superbo dramma giapponese “Confessions”. Oh beh, mi permetto di non essere d'accordo col pubblico: la rappresentanza cinese al Far East Film 13 è stata di livello modesto; l'anno scorso era assai meglio.
Quanto al perché, credo si possa dire che il cinema cinese si sta indirizzando sempre più verso la dimensione del crowdpleaser inteso nel senso più facile. Ovvero, vuole far contento il pubblico (com'è giusto) vellicandolo con mezzucci, strizzate d'occhio, banalità. A differenza dei grandi e piccoli film popolari della Hollywood classica, i film cinesi continentali lasciano un'impressione di furbizia, di architettura a effetto, e financo di ovvietà.
Lo mostrano bene i due infelici film delle sere di apertura e chiusura del festival: la gonfia e sovraccarica commedia “Welcome to Shama Town” di Li Weiran e il mediocrissimo “What Women Want” di Chen Daming, remake del film di Mel Gibson, in cui Andy Lau ruba la scena a un'imbalsamata Gong Li con la quale non ha la minima alchimia. Chen Daming dovrebbe andare a lezione da Johnnie To per imparare come si fa una commedia sofisticata.
A un livello superiore, ma sempre poco soddisfacente, “Buddha Mountain” di Li Yu, onesto compitino di emarginazione giovanile e dolore senile (mancanza del padre incontra mancanza del figlio) che non aggiunge nulla a temi già conosciuti, e “Under the Hawthorn Tree” di Zhang Yimou, che ha i suoi meriti (Zhang è un cineasta superiore) ma non sfugge a un sospetto di manierismo e di un calo d'ispirazione rispetto alla sua folgorante filmografia.
Cronaca del grande terremoto di Tangshan del 1976 ma soprattutto di trent'anni di vita di una famiglia separata di superstiti, “Aftershock” segna invece un punto medio-alto nella diseguale filmografia di Feng Xiaogang. Questo regista è una specie di Cecil B. De Mille cinese, meno dotato del grande americano ma non disprezzabile. Il suo carattere più evidente e insieme il suo punto debole è la pomposità; infatti il cinema migliore di Feng si ha quando se ne allontana - non per nulla la sua opera migliore (con “A World Without Thieves”) è un film relativamente intimista, “If You Are the One” (parlo dell'originale, non del sequel uscito quest'anno, di assoluta e imbarazzante bruttezza). Così in “Aftershock” la parte sull'immediato dopo-terremoto è migliore di quella sul terremoto, e la parte mélo sulla vita dei personaggi in seguito è migliore ancora.
In conclusione, però, l'unico film assolutamente buono della pattuglia cinese è il delizioso “The Piano in a Factory” di Zhang Meng, una commedia sentimentale quasi musical sulla quale mi permetto di rimandare alla mia scheda sulla rivista online Paper Street (www.paperstreet.it/cs/leggi/872-Piano_in_a_factory_-_Meng_Zhang.html).

Se la Cina delude, qual è la miglior nazione del festival? Senza sorpresa, il Giappone. “Confessions” di Nakashima Tetsuya è un raggelante capolavoro: un impietoso esame delle colpa, un “Delitto e castigo” senza sbocchi, molto più cupo - anche visivamente - rispetto allo stile flamboyant cui ci ha abituati il regista. “Wandering Home” di Higashi Yoichi è uno studio sull'alcoolismo di un intellettuale e sulla morte, realistico, psicologicamente credibile, solido nello sviluppo drammatico. Buono anche “The Seaside Motel” di Moriya Kentaro, buffa raccolta di storie interlineate sul tema dell'amore, impreziosito da uno stile vivace e divertito nonché da eccellenti interpretazioni. “The Lady Shogun and Her Men” di Kaneko Fuminori è un intelligente film in costume ambientato in un mondo alternativo: lo scambio di ruoli fra uomini e donne all'interno della classica scenografia da film storico sulla Edo dello shogunato realizza una satira vagamente swiftiana.
L'unico film giapponese privo di interesse della rassegna (devo segnalare che non li ho ancora visti tutti) è la vacua imitazione “Paranormal Activity 2 - Tokyo Night”. Invece, un autentico godimento è l'eccessivo e spiritosissimo “Yakuza Weapon” di Sakaguchi Tak (anche interprete) e Sakaguchi Yudai. Purtroppo il fatto che il festival avesse in programma la bella rassegna dei pink movies (necessariamente a ore tarde) gli ha impedito di programmare a mezzanotte qualche altro piccolo gioiello outré uscito di recente nell'arcipelago, quali il delirante “Horny House of Horror” di Tsugita Jun e “Helldriver” di Nishimura Yoshihiro, il più bel film di zombi degli ultimi anni.
A completare (è appena uscito) la rassegna dei pink ecco “Underwater Love” di Imaoka Shinji. Reclamizzatissimo pink musical (peccato che le coreografie, per usare un termine lusinghiero, siano degne di un serie zeta italiano degli anni settanta), è puro trash delirante, ma proprio per questo è amabile. Del resto, un film pieno di donne nude come può essere veramente cattivo?

E' un piacere rilevare l'alto livello della selezione di Hong Kong. Il maestro Johnnie To con la commedia sentimentale “Don't Go Breaking My Heart”, mirata al pubblico della Cina continentale, ha realizzato un capolavoro scintillante non indegno di Lubitsch. Dentro la formula patinata della commedia sentimentale alla cinese, completa di quell'orgoglio nazionalistico con cui la Cina ostenta sullo schermo la sua nuova ricchezza, To inserisce con ammirevole leggerezza un discorso filosofico sul rapporto fra il progetto e il destino (un suo cavallo di battaglia tematico), sullo scambio (idem), sul segno (lo stupefacente balletto di segnali fra grattacieli!) e in generale sul sentimento e sul rapporto tra i sessi: è questo film il vero “What Women Want”, altro che la bruttura di Chen Daming. Ci vorrebbe una pagina intera per discutere la penetrazione e l'intelligenza celate sotto la sua ingannevole semplicità.
Il bellissimo “The Drunkard” di Freddie Wong allarga il tema dell'alcoolismo a tutto il dolore umano entro una splendida ricostruzione semi-astratta della Hong Kong anni sessanta. “Perfect Wedding” di Barbara Wong (sempre una regista da seguire) è una commedia molto gradevole, con un buon ritmo, un bel dialogo e delle caratterizzazioni spiritose; l'interpretazione di Miriam Yeung è deliziosa, ma tutti gli attori sembrano assai divertiti (e che bello rivedere dopo tanti anni il grande Richard Ng!). Infine, la sorpresa del durissimo, magnifico thriller “Punished” ci riporta ad audacie della Hong Kong di ieri che sembravano scomparse – oltre a regalarci l'ennesima grande interpretazione di Anthony Wong.

Quarto grande del cinema asiatico, la Corea ha offerto uno dei capolavori assoluti del festival: “Night Fishing”, il cortometraggio di Parl Chan-wook e suo fratello Park Chan-kyong “girato con l'iPhone”, che inizia come un videoclip, si trasforma in un incubo irreale, culmina - mentre la nostra comprensione arriva pian piano a coprirne l'estensione - in un'evocazione della vita e della morte attraverso un rituale sciamanico: un breve film di potenza che si vorrebbe definire dreyeriana, per quanto impegnativo sia il termine.
A fronte di questo capolavoro qualsiasi film è un palmo al di sotto, ma bisogna citare la deliziosa commedia erotica “Foxy Festival” di Lee Hae-young (vedi scheda sotto); il duro, teso, vigoroso “The Man from Nowhere” di Lee Jeong-beom; il notevole dramma in costume “The Showdown” di Park Hoon-jung, dove l'impianto claustrofobico (due nemici mortali bloccati con una terza persona in una casa isolata) si allarga in ariosi flashback che compongono come un puzzle il senso della storia. E poi c'è “The Unjust”, cronaca di una guerra fra carogne nell'ambito dell'inchiesta su un serial killer, firmato dall'ottimo Ryoo Seung-wan (suo fratello, famosa star coreana, è uno dei due protagonisti - ma è migliore l'altro). In questa storia infernale sul potere investigativo e giudiziario vediamo che la Corea non è tanto lontana dall'Italia di Ciancimino jr. e dei magistrati di Palermo.
Film minori ma non mediocri sono l'intelligente ma non del tutto riuscita commedia nera “Villain & Widow” di Son Jae-gon e il buon thriller fantastico “Haunters” di Kim Min-seok. Unico film che si poteva evitare, la laboriosa commedia “Cyrano Agency” di Kim Hyun-seok.

Passiamo alle altre nazioni. Trascurando l'inutile “Night Market Hero” di Taiwan, andiamo in Thailandia: “Mindfulness and Murder” di Tom Waller ha un'impostazione interessante (delitto e indagine in un monastero buddhista) ma sbanda un po', soffrendo di una sovrabbondanza di flashback che sembrano messi apposta per allungare il brodo. Una bella sorpresa viene dall'Indonesia col film a episodi di 9 autori diversi “Belkibolang”, sui sentimenti nella metropoli di sera, caratterizzato da un'estrema concentrazione del discorso, poetica e allusiva, servita da una buona fotografia dai colori acidi. Pur un po' diseguale, è assai bello (c'è da vergognarsi al pensiero che il cinema italiano sia ormai del tutto incapace di concepire, non dico realizzare, opere simili).
Per la Malesia, il simpaticissimo - anche sul piano personale - Mamat Khalid ci riporta al comico villaggio stregato di Kampung Pisang con “Hantu Kak Limah Balih Rumah” (“Il fantasma della signora Limah torna a casa”). Meno felice di “Zombi Kampung Pisang”, è comunque gradevole e divertente. “Seru”, di Pierre André e Woo Ming Jin, è un horror del genere “REC” (mi sembra giusto battezzarlo così, anche se il primo è stato “The Blair Witch Project”). Il problema di questi film è che, fingendo di essere una registrazione, si devono imporre una grammatica molto stretta – e su questo “Seru” fallisce. Essendoci due cinecamere per due gruppi diversi, il problema si sposta da “chi gira?” a “chi monta?” Tuttavia il film scorre fluido, ha un buon sonoro e vi sono un paio di momenti di autentico spavento. Ricorda l'indonesiano “Keramat”, ma meno intellettuale. Infine, la new entry della Mongolia ci dà con “Operation Tatar” di Bataar Bat-Ulzii una gustosa commedia di rapina in banca metropolitana e “tarantiniana” che è una vera scoperta.
Ho lasciato per ultime le Filippine, per un buon motivo: da questo paese viene il terzo capolavoro dell'edizione 2011, con "Confessions" e "Night Fishing" (ed è una scoperta del Far East Film, ignoto nel mondo dei festival): lo sconvolgente “Wanted: Border” di Ray Defante Gibraltar (vedi scheda sotto). A un livello molto più mainstream, va segnalata l'eccellente commedia “Here Comes the Bride” di Chris Martinez, in cui cinque persone per un mistico incidente si scambiano l'anima fra loro. Anche l'anno scorso una commedia filippina, “Kimmy Dora”, aveva divertito molto, ma soprattutto grazie all'interpretazione della grande attrice comica Eugene Domingo. Quest'anno la commedia di Martinez era gustosa anche di per sé, come ritmi, struttura, dialoghi – e sì, c'era pure Eugene Domingo: infatti, tutti e cinque i personaggi sono gustosi e ben interpretati, ma lei è quella che riesce a dare al proprio una particolare umanità.

Parlando di commedie, bisogna assolutamente nominare la stupenda retrospettiva “Asia Laughs!”, sulla commedia asiatica, che – accompagnata da un capitale volume curato da Roger Garcia – ha offerto ai fortunati spettatori presenti a Udine una serie di gioielli che mai sarebbe stato possibile vedere altrove (per lo più sono assenti anche in DVD). Così, pur con tanti bei film e con tre capolavori nella selezione, credo si possa dire che questa ultra-memorabile rassegna sulla commedia asiatica è stata l'achievement numero uno della tredicesima edizione.

Wanted: Border

Ray Defante Gibraltar

Fra i capolavori indiscutibili del tredicesimo Far East Film Festival, è una scoperta assoluta del festival il filippino “Wanted: Border” di Ray Defante Gibraltar (il titolo, che compare in un cartello nel film, vuol dire “Cercasi pensionante” col sostantivo boarder scritto sbagliato – richiamando così il concetto di “frontiera”).
In ottanta minuti scarsi, questo film concentra un maelström di esistenza umana di ampiezza e intensità sconvolgente, intrecciando mania religiosa, cannibalismo, crudeltà cieca, superstizione, trauma infantile, sessualità contorta, satira sociale, e anche uno sguardo retrospettivo alla storia filippina e alle squadre della morte della dittatura di Marcos. Il tutto attraversato da una vena di umorismo nero e bizzarro - già annunciato dal delirante doppio senso dell'inizio: sentiamo la protagonista dire “Oh dio mio!, mi hai spaventato”, sembra una normale interiezione, visto che l'ospite inatteso è un signore baffuto in camicia hawaiana con una ghirlanda di fiori al collo - e invece è proprio Dio (lei gli bacia la mano).
Tutto si tiene, tutto ritorna su tutto nel film. Al centro sta il concetto di cannibalismo, ove il collegamento al cinema di genere (il vecchio mito horror del ristorante che serve carne umana) è pura traccia, materia di base. Partendo di qui il film costruisce una vertiginosa pluralità di senso fra il dubbio cibo cucinato dalla protagonista Saseng (la storia della quale si delinea a poco a poco), il cannibalismo che ci sta sotto, i miti popolari sui mostri mangiatori di carne umana delle foreste, il valore simbolico e sacrale del cibo in senso religioso, il “cannibalismo sacro” del rito cristiano (se il Vangelo dice “Questa è la mia carne”, qui abbiamo Dio in persona, nella sua camicia hawaiana, che implora irosamente di essere macellato, cotto e mangiato). Un film del genere, che sarebbe piaciuto a Buñuel, poteva solo uscire da una cultura intrisa di cattolicesimo come quella filippina. Non occorre insistere, perché sono evidenti, sulla prodigiosa inventiva visuale, la bellezza e la libertà inventiva dell'inquadratura, la nettezza del montaggio, l'ottimo lavoro sul suono.
In voce over, come un controcanto sulle immagini, ritorna ossessivamente il delirio religioso di Saseng, che trasforma il film in una perversa parodia di sacra rappresentazione. Questo film non è teatrale, in realtà, ma ne dà l'impressione, perché talmente depurato da raggiungere un livello di astrazione quasi epica, come dichiarano anche i cartelli-didascalia. Narrativamente non lineare, sebbene assai ben connesso, “Wanted: Border” pone un tempo frazionato, un tempo che ritorna su se stesso, fugge indietro nel flashback e avanti nell'anticipazione: un tempo ridotto a schegge, disseminate in un modo che sembra irregolare, e che il progredire dello svolgimento riconduce a unità: il quadro si definisce nella memoria dello spettatore con un effetto di scoperta che lo mette “in rilievo”. Un po' come in Resnais o in Tati, il film è proiettato nella mente dello spettatore.

Foxy Festival

Lee Hae-young

“Che cos’è indecente per te, comunque?”, chiede il navigato poliziotto Jang-bae al suo giovane subordinato – dopo che il capo della polizia ha ordinato, nel quadro di un'offensiva morale, di ripulire dalle cose “indecenti” Seoul. Buona domanda! Tanto buona che sta alla base di tutta la piacevole commedia erotica “Foxy Festival” di Lee Hae-young (Far East Film 2011).
Il film illustra con intelligenza e humour due truismi in verità poco morali: “Ce ne vogliono di tutti i tipi per fare un mondo” e “Tutto ruota intorno al sesso”. L'insegnante Mr. Kim indossa lingerie femminile quando la moglie è assente. La signora Soon-sim, una dignitosa e piacente vedova, da quando ha buttato l'occhio su una frusta appesa nel negozietto del meccanico Ki-bong non fa che pensarci; lui la introduce ai misteri del sadomaso, ma l'allieva supera il maestro, e diventerà la Domina dei suoi sogni. La studentessa Ja-hye, figlia di Soon-sim e ignara della passioni della madre, tira su qualche soldo vendendo le proprie mutandine, che inumidisce correndo; vorrebbe cedere la sua verginità al proletario venditore di salsicce di pesce Sang-doo, il quale la respinge - anche perché, come vedremo, ha una perversione tutta sua. Il poliziotto Jang-bae non fa eccezione: è convinto di essere il John C. Holmes coreano, con grande scocciatura della fidanzata insegnante che non sopporta le sue maniere rudi - finché nei bagni non gli capita di gettare un'occhiata all'apparato sessuale del suo subordinato, e paragonarlo al proprio, dopo di che entra in crisi.
Questa piccola “Ronde” della perversione raggiunge il notevole risultato di apparire esilarante pur mantenendo ai suoi personaggi una dimensione umana. Nella sua buffa esagerazione “Foxy Festival” parla a ciascuno di noi: è un film sulle nostre fantasie sessuali - e sul fatto che non sempre coincidono con quelle di chi amiamo. Anche perché sono segrete: una scena di rilevanza simbolica mostra il professor Kim e la signora Soon-sim in veste di madre, a serioso colloquio nell'ora di ricevimento a scuola circa le stranezze di Ja-hye (pare che le sia venuta la mania di correre) - ed ecco che la mdp pettegola ci rivela i tacchi a spillo S&M di lei e le mutandine femminili il cui orlo spunta dai calzoni maschili del professore. Il centro del film lo tiene inevitabilmente la coppia sadomaso di Soon-sim e Ki-bong, con la loro fabbricazione di deliranti macchine erotiche che ricordano molto un capolavoro di Jan Švankmajer, il lungometraggio “I cospiratori del piacere”.
Attraversato da un umorismo oltraggioso, il film è zeppo di doppi sensi sia sul piano parlato che su quello visivo, di collegamenti in montaggio per analogia. Sovente un'immagine entra in montaggio a rappresentare il pensiero o il ricordo, con una libertà simile a quella del fumetto (e che esisteva nel cinema muto, e oggi comincia a rispuntare sullo schermo). La raffinata regia di Lee Hae-young, già autore con Lee Hae-jun dello splendido “Like a Virgin” (2006), è capace di grandi momenti flashy (l'esilarante split-screen da film di arti marziali nella scena della rissa al parco) ma anche di tocchi più sottili (la luce delle scale del condominio che si spegne automaticamente durante la resa dei conti fra il professor Kim e sua moglie). In simbiosi col montaggio di Nam Na-young, la regia compie un grande lavoro di connessione giocando sulle luci, gli spiragli, gli sguardi.
Il film provvede ruoli succosi per un gruppo di attori in stato di grazia. Soon-sim è interpretata con humour impassibile da Shim Hye-jin, un’ottima attrice che al cinema è stata attiva particolarmente negli anni Novanta (e ritorna dopo “Mothers and Daughters” del 2008). Il suo partner Ki-bong è Seong Dong-il, eccellente attore di contorno (“200 Pounds Beauty”). Jang-bae è il grande Shin Ha-kyun, protagonista di “No Mercy for the Rude”, il film vincitore del Far East Film 2007. Infine, nel ruolo del riluttante Sang-doo appare Ryoo Seung-beom, ospite a Udine del Far East Film 13 come co-protagonista di “The Unjust”.
In ultima analisi “Foxy Festival” è un film umanista. “Cosa cavolo ne sai?”, grida Soon-sim alla figlia che la snobba, nel confronto finale: che cosa ne sappiamo per giudicare gli altri? E così il nostro cuore va con lei nella sua buffa, solenne, memorabile marcia finale, che sfocia in un grande momento di liberazione collettiva. Pervertiti di tutto il mondo, unitevi!

(Catalogo)