lunedì 25 giugno 2012

Il dittatore

Larry Charles

Prima che Gheddafi incontrasse una meritata fine, “Il dittatore” di Sacha Baron Cohen avrebbe potuto interpretarlo lui - e sarebbe sembrato quasi un film documentaristico. Aperto dal cartello “In memoria di Kim Jong-il”, “Il dittatore” compone una memorabile parodia e quasi un monumento funebre per i tiranni cammellati e ingioiellati che hanno insudiciato il tardo XX secolo e l'inizio del XXI, da Idi Amin e Bokassa a Gheddafi e Saddam. Monumento funebre non perché manchino ancora canaglie dello stesso genere, ma perché probabilmente in futuro i dittatori manterranno un profilo personale meno flamboyant e più grigio: un grigiore militar-religioso (Ahmadinejad, Omar al Bashir) o militar-politico (Mugabe, Assad, il Kim di turno). Sul modello Caligola resiste ancora il satrapo del Kazakistan, Nazarbayev, ma a questo paese S.B.C. ha già dedicato il suo film migliore, “Borat”, e difficilmente può tornarci sopra. Comunque lui, che flamboyant lo è sempre stato, si diverte un mondo a interpretare il “suo” dittatore alla Caligola: il barbuto Aladeen, tiranno del paese immaginario di Wadiya (confinante col Sudan), assassino, genocida, stupratore di boy scout, antisemita, antifemminista (alla sua ragazza che gli dice di essere incinta: “E avrai un maschio o un aborto?”); nasconde nel suo palazzo Osama Bin Laden - sulla cui uccisione ci avevano raccontato palle - e sta costruendo di nascosto la bomba atomica, in puro stile iraniano. Resterà un'immagine di culto non solo nel cinema ma nell'imagerie politica in genere la gara di corsa ai Giochi Olimpici di Wadiya, in cui Aladeen vince sparando agli avversari, o la dichiarazione tv in cui dice che l'atomica “verrà usata per scopi pacifici” e gli scappa da ridere. Come tutti i personaggi di S.B.C. Aladeen ha una feroce innocenza.
Rispetto alla felicità di questa costruzione satirica, sembra un peccato che il film (la regia di servizio è di Larry Charles) molto presto cambi strada. Aladeen col suo infido vice Tamir (Ben Kingsley) va a New York per parlare all'Onu; qui viene rapito e si ritrova - senza più la sua barba-simbolo - in giro per le strade, anonimo e senza un soldo. Intanto Tamir vuole prendere il potere appoggiandosi a un sosia del dittatore, e fingendo di democratizzare il paese venderlo alle compagnie petrolifere straniere. Compagnie sia occidentali che cinesi: il personaggio di Zhan Lao è un bel tocco satirico sul feroce capitalismo “manchesteriano” cinese che impazza sotto la protezione del regime di Pechino.
“Il dittatore” - ispirandosi direttamente a “The Great Dictator” di Chaplin - si articola dunque su uno sdoppiamento del personaggio: l'ex dittatore in giro per le strade e il suo sosia scemo, così scemo che quando si trova di fronte alle fiorenti poppe nude di una delle sue belle guardie del corpo femminili (che il film prende direttamente dalle “amazzoni” di Gheddafi) non sa far altro che cercare di mungerla.
A questo punto il folgorante ritratto di Aladeen in veste di satrapo mediorientale passa in secondo piano e il film si concentra sull'ex dittatore ramingo e sconosciuto, e sui suoi tentativi di fare i conti con l'altro mondo nel quale si trova a vivere. Viene raccolto e “adottato” da una pacifista newyorkese che dirige un emporio di commercio equo e solidale (ovvio che lui se ne innamorerà). Anche qui non manca il tocco satirico, e va detto che questa radical/femminista/vegana, incarnazione del politically correct, è ancora più antipatica di Aladeen; ma la caricatura è piuttosto vacua e generica, perché a questo punto il film è diventato il solito gioco di Sacha Baron Cohen: inserire un personaggio politicamente scorrettissimo in un ambiente imbarazzato. E' il principio delle sue (spesso dubbie) candid cameras, anche se “Il dittatore” non ricorre a questo mezzo.
Niente di male, ma con questo il film si trasforma in una serie di scenette (indubbiamente divertenti) piuttosto slegate. C'è da dire (ma forse è solo una preferenza personale) che uno dei possibili sviluppi, presto abbandonato, è geniale e avrebbe fatto un grande film: perduta la dittatura del paese, Aladeen applica i suoi metodi all'emporio in cui è stato accolto, e ne risolleva le sorti declinanti, raggiungendo il titolo di “Supremo Droghiere”. Alla fine ovviamente Aladeen recupererà il trono - però non sarà il trionfo della democrazia che sarebbe piaciuto a Chaplin.
A dare unità al film, come sempre accade con Sacha Baron Cohen, è semplicemente la personalità dell'interprete. Il suo impatto è dovuto in parti pressoché uguali alla sua estrema bravura e alla sua estrema sfacciataggine: kamikaze dei mass media, tende al massimo la linea di tolleranza del filmabile; in confronto le gag più fisiche di “American Pie” o dei fratelli Farrelly sembrano Walt Disney. “Il dittatore” contiene una scena di humour estremo da antologia: la superba sequenza del parto nel negozio, dove la gag della mano introdotta dal soccorritore Aladeen nella vagina della partoriente raggiunge livelli di estremismo innominabile. Chi altri che S.B.C. avrebbe osato portare questo sullo schermo? I Dark Brothers, probabilmente; e, al di fuori del porno, forse il nostro grande Fernando Cicero, il più corporeo e fantasioso dei registi della vecchia “commediaccia” italiana.
Se Sacha Baron Cohen trovasse sceneggiatori e registi capaci di inserire questi umori e questo coraggio in film più strutturati, diventerebbe grande come Jerry Lewis.

lunedì 4 giugno 2012

Cosmopolis

David Cronenberg

Il mondo che vediamo in “Cosmopolis” di David Cronenberg è un mondo reale. La fisicità dei corpi si tocca, si annusa (sugli odori c'è insistenza nel film), può sanguinare; né mai, durante il viaggio in limousine di Eric Packer (un sorprendente Robert Pattinson) attraverso una New York impazzita, il film mette in dubbio (classica questione cronenberghiana) lo statuto di realtà dell'immagine. E tuttavia, per trovare nel mare tempestoso della filmografia di Cronenberg riferimenti utili a intendere “Cosmopolis” potremmo rivolgerci in particolare a “eXistenZ” e “Il pasto nudo” - in particolare ma non solo, ovviamente, e comunque tutto nasce da “Videodrome”. I film di Cronenberg in cui l'universo viene a coincidere con la mente: il mondo-allucinazione.
Questo perché la realtà fisica del corpo e del senso si inserisce nella perdita del Senso. Cronenberg ha descritto la caduta della civiltà occidentale come caduta della Legge ne “La promessa dell'assassino”, come caduta del Senso in “Cosmopolis”. Perdita del senso perché al centro di “Cosmopolis” c'è la realtà allucinatoria del cybercapitalismo - ovvero un capitalismo immateriale, svincolato dal valore-lavoro insito nella merce (direbbero i grandi vecchi Ricardo e Marx) e ridotto a pura illusione di dati che lampeggiano sullo schermo dei computer (la luce dei monitor, sentiamo nel film, è la luce del cybercapitale). A questo trasferimento nell'astrazione che caratterizza l'ultimo capitalismo non fa meraviglia che sarcasticamente risponda l'ipotesi del topo come nuova unità monetaria, e proprio in questo senso la figura del topo ritorna ossessivamente nel film.
“Il valore dei soldi non lo so più”, sentiamo dire (dalla gallerista) in “Cosmopolis”. E infatti Eric, il giovane re della finanza (una battuta paragona ironicamente lui e il suo giovane partner a Romolo e Remo), perde centinaia di milioni di dollari in una scalata allo yuan che fallisce. Eric crede di poter cavalcare le cose e le valute muovendosi secondo i modelli matematici astratti e razionali di cui è esperto (vale la pena di osservare che anche il cinema di Cronenberg, come quello di Kubrick, è pieno di grandi programmatori falliti). Ma è fin troppo evidente che in questa condizione virtuale le valute acquistano la personalità capricciosa delle figure mitologiche; il giovane re si rovina per non aver saputo riconoscere “i tic” dello yuan (“Lo yuan si è preso gioco di me”).
C'è nel film un bizzarro collegamento metaforico con questa rovina. Eric, sentiamo a conclusione della folle scena della visita del dottore in auto, ha la prostata asimmetrica. L'ossessione di Cronenberg per l'interno del corpo (cfr. “Inseparabili”) qui assume un particolare valore simbolico. L'asimmetria e l'irregolarità dell'interno del corpo irridono all'illusione “simmetrica” della previsione razionale.
Il concetto narrativo base di “Cosmopolis” è il tentativo di Eric di attraversare New York in una limousine super-accessoriata che è un autentico palazzo viaggiante ristretto in una dimensione claustrofobica da scatola (Eric, racconta, ha anche tentato di isolarla dal rumore esterno, ma invano). Cronenberg in un'intervista la paragona a un acquario, ma si potrebbe dire di più: mentre “Crash”, l'altro suo grande film sull'automobile, metteva in scena il matrimonio della carne e del metallo, qui abbiamo la limousine come utero.
Credo sia interessante mettere in relazione la dimensione assurdamente ristretta dello spazio vitale di Eric (assurda ma per lui di piena soddisfazione) con la dimensione assurdamente estesa dei suoi progetti: brucia la sua fortuna sullo yuan, vuol farsi costruire un poligono di tiro nel suo appartamento, cerca di comprarsi l'intera Cappella di Mark Rothko per metterla a casa sua e tenerla per sé senza farla vedere a nessuno (“E' mia, se la compro”).
Tutto questo c'è già nel romanzo omonimo di Don DeLillo. Infatti ciò di cui è stato accusato Cronenberg è di essere stato un po' vicario (“soggiogato”, ha scritto Paolo Mereghetti) rispetto al film; e indubbiamente ciò può dar conto di una certa verbosità che qua e là si avverte. Ma bisogna anche dire che il romanzo di DeLillo sembra scritto apposta (come già accadde per Ballard e Burroughs) per esprimere umori e ossessioni di Cronenberg. Eric è totalmente cronenberghiano, si inserisce al cento per cento nella galleria di personaggi del regista: “tutti relitti di esperienze affettivo-cognitive inelaborabili e accomunate dalla transizione dalla fascinazione perversa alla psicosi” (Dalle Luche-Barontini, Transfusioni. Saggio di psicopatologia dal cinema di David Cronenberg). Da questo bel libro del 1997 traggo un'altra notazione importante: per queste figure rapportarsi (sessualmente) significa lacerarsi; infatti il sesso in “Cosmopolis”, il sesso in Cronenberg, è violento e faticoso, doloroso e ginnico – non piacere ma contatto.
Il viaggio di Eric si trasforma in un viaggio nel caos; attorno alla limousine si disegna uno scenario da incubo (Dante più che Joyce sembra il nume ispiratore), ed Eric lo rispecchia: il suo stato d'animo, attesta il film, è lo smarrimento; il fallimento passa dalla dimensione economica alla dimensione esistenziale. “Cosmopolis” è una marcia verso la morte. La scandiscono, con la cupa regolarità dell'orologio di Poe, gli incontri progressivi con la giovane moglie Elise - che nel suo stupore quasi catatonico, vera incarnazione dell' essere “di là”, incarna, se non metafisicamente la Morte (non sarebbe cronenberghiano), certamente l'Altro e la Perdita.
Cronenberg, disegnatore di universi mutanti, disegna dunque con “Cosmopolis” un mondo della perdita del senso, un mondo-allucinazione, ma che è quello in cui viviamo oggi. Le sue profezie si sono avverate: il mondo di “Videodrome” è arrivato qui.