lunedì 30 luglio 2012

L'estate di Giacomo

Alessandro Comodin

In “Jagdfieber” (La febbre della caccia), il breve documentario con cui Alessandro Comodin si è fatto conoscere a livello internazionale, il cineasta friulano segue due cacciatori, separati, alla caccia del cinghiale nella boscaglia francese. L'istinto della caccia non è raccontato attraverso una drammaturgia (e sì, anche il documentarismo possiede una drammaturgia). Il pedinamento incessante, “aderente”, della mdp, scandito dal selvaggio abbaiare incessante dei cani, sulle tracce della preda che non si scorge mai, ci avvolge e ci sospinge: dai cacciatori passa a noi spettatori un'ansietà, una brama di vedere (che è il modo cinematografico di cacciare) questa preda che si nasconde nel folto – e di arrivare allo spettacolo del sacrificio. Scivoliamo dentro un'identificazione, una comprensione profonda, che ci riporta ad atmosfere mitiche e arcaiche. Le concentra e le annuncia la citazione che apre il film, sopra il dettaglio dell'occhio dell'animale morto: “Mia madre bevve il sangue rosso. Subito mi riconobbe” - è la nekuia, l'evocazione dei morti col sangue, la pagina più cupa e primitiva dell'“Odissea”.
La stessa trasformazione dell'immagine in conoscenza che c'è in “Jagdfieber” la troviamo, potenziata a livello di lungometraggio, nel bellissimo “L'estate di Giacomo” (una fiction che si rovescia in documentario, un documentario che si rovescia in fiction), vincitore del “Pardo d'oro Cineasti del presente” a Locarno, che esce in Italia distribuito dalla Tucker Film.
Giacomo è un ragazzo sordo; subito nell'apertura, inquadrato di schiena alla batteria, si nota il suo apparecchio sopra l'orecchio. Il suo tratto più evidente è un modo particolare di parlare, precipitato: perché per un sordo la sua propria lingua è una lingua straniera. Una maniera di “sparare” le frasi che in qualche modo si accorda con un atteggiamento spigoloso; c'è come un'aggressività sotterranea, che il film esemplifica nell'assordante assolo alla batteria di Giacomo in apertura; i suoi scherzi hanno la stessa bruschezza: “Attenta, io ti copo !” (ti ammazzo). Giacomo parla e si muove esattamente come chi ha vissuto molto nella solitudine: la campana di vetro della sordità.
Lui passa il tempo estivo con l'amica Stefania, ed è una danza di corteggiamento fra due diverse ritrosie. In Giacomo, si esprime come prepotenza giocosa adolescenziale/amicale, momenti di tenerezza alternati a scherzi verbali e fisici quasi violenti; in Stefi, come una sorta di rilassata stabilità: un equilibrio che intuisce il desiderio nelle aggressioni burlesche e risponde colpo su colpo - nascondendo non paura (lei è una indomabile) bensì la comprensione della fragilità del gioco.
Subito dopo l'apertura alla batteria, viene quella che è forse la pagina più stupefacente e ammirevole del film: semplicemente una camminata di dieci minuti fra le piante (“Natura di merda!”, ringhia Giacomo) per raggiungere il Tagliamento, il fiume “padre” del Friuli, e tuffarsi e poi fare un picnic. Qui il film raggiunge un momento di purezza assoluta. E' un film di corpi, di piante, di luce, d'acqua, di rumori (il lavoro sul suono, di Florian Namias, è davvero fenomenale) - ma non un film impressionista, fenomenico, perché ne emerge un racconto forte; non si risolve in macchie di esperienza sensoriale ma da questa appare allo spettatore una storia conchiusa: non per via drammaturgica, appunto, ma sarebbe giusto dire per empatia. Anche attraverso la stupefacente verità dei suoi interpreti, o meglio soggetti, Giacomo Zulian e Stefania Comodin (e poi Barbara Colombo che appare alla fine), il film riporta la diretta evidenza dell'esperienza: è la realtà immediata e tattile che si trasforma in storia.
Alla fine, questa danza di corteggiamento ha raggiunto il suo punto limite e si ferma (“Ti vedo che sei molto timida con me”). Si arriva sempre al momento in questi rituali in cui bisogna accettare di fare un passo avanti, passando dal segnale alla realtà, o di fare un passo indietro - e noi esseri umani siamo fatti in modo tale che in questo secondo caso copriamo le tracce, torniamo alla finzione del caso e del gioco.
Vediamo Giacomo e Stefi ritornare, insieme sulla stessa bicicletta, ed entra una canzone extradiegetica: “I remember fifty years ago”. Così il testo della canzone si sovrimprime all'inquadratura e la determina; parla del passato, e consegna al passato quella danza dell'estate. La mdp che precede i due ragazzi in camera-car a un certo punto si allontana dalla coppia, accelerando, li rimette alla lontananza, come in un finale.
Ha un senso che questo passaggio sia l'unico momento apertamente enunciativo del film (ce ne sono stati altri, ma nascosti nel flusso). Questo è un passaggio liminare. E' la fine di una tappa esistenziale, che possiamo facilmente identificare nell'adolescenza; segna il confine tra un segmento di vita e un altro. Nella sezione conclusiva del film vediamo Giacomo con un'altra ragazza, Barbara, anche lei sorda, come capiamo dal modo di parlare. Sono sempre sul Tagliamento, ma in un punto affatto diverso, il greto sassoso più a Nord. Sono fidanzati. Entra la voce narrante di lei che parla sui dubbi e le incertezze dell'amore. Lui la rassicura con un abbraccio.
Non è una fine; è il punto medio di un nuovo periodo. Per un film così intrinseco al flusso della vita, un punto fermo sarebbe una violazione.

mercoledì 25 luglio 2012

La leggenda del cacciatore di vampiri

Timur Bekmamentov

Abramo Lincoln ha avuto una quantità infinita di ritratti cinematografici, con le punte più alte in Griffith e Ford, ma sicuramente il più strano di tutta la storia del cinema è il divertentissimo “La leggenda del cacciatore di vampiri” di Timur Bekmamentov, il cui titolo originale - e migliore - dice tutto: “Abraham Lincoln: Vampire Hunter”.
Quest'idea di Lincoln ammazzavampiri si deve al romanzo di Seth Grahame-Smith (anche sceneggiatore del film): uno dei prodotti della nuova voga anglosassone di riscrivere classici della letteratura o modificare personaggi storici in chiave fantasy (l'esempio più ameno è A.E. Moorat con “Queen Victoria: Demon Hunter” e “Henry VIII: Wolfman”, inediti in Italia). Qui il giovane Lincoln, dopo che sua madre è stata uccisa da un vampiro, viaggia per l'America per far fuori i succhiasangue con un'ascia d'argento (con fucile incorporato) che maneggia in puro stile wuxiapian. Anche da Presidente se la vedrà coi vampiri: ci sono loro dietro la secessione del Sud.
“Abraham Lincoln: Vampire Hunter” è un action fantasy-horror assai godibile. Timur Bekmamentov (“I Guardiani della Notte”, “Wanted”) è un regista che merita sempre seguire; possiede una certa competenza visionaria e l'abilità di mettere in scena uno scontro con magniloquenza ed efficacia. E' dai tempi di “Van Helsing” che non ne vedevamo di così belli. Per citare solo una scena, il combattimento fra Lincoln e il vampiro Barts fra (anzi, su) una mandria di cavalli al galoppo è un vero pezzo da antologia. Anche la sequenza finale del treno sul ponte in fiamme mostra come Bekmamentov sappia forzare nella fiction “dal vero” un estremismo da cartone animato.
Anche il dialogo è spiritoso, con buone caratterizzazioni: lo sbocciare dell'amore fra il giovane Lincoln e la sua futura moglie Mary Todd ha un piacevolissimo tono di commedia sentimentale, ben servito dagli ottimi interpreti Benjamin Walker e Mary Elizabeth Winstead. Una buona idea visiva è la breve storia della cattiveria umana realizzata animando gli affreschi della villa del vampiro Adam – il quale, grande tocco umoristico, continua a suggerire a Lincoln di “emanciparsi” (dalle sue idee umanitarie)!
Il problema del film è che ce ne sono due. La prima parte, che è la migliore, introduce con intelligenza alcuni caratteri del Lincoln in fieri ma ovviamente l'elemento fantastico se ne allontana (ovvero, questo film non è il fordiano “Alba di gloria” in chiave horror); d'altro canto, l'idea base sta proprio nella trasformazione del Lincoln Presidente, con la famosa barba; e così il film deve far quadrare i conti in una seconda parte che abbandona l'action - come se un po' se ne vergognasse e volesse "innalzarsi" - per una versione piuttosto silly della Guerra di Secessione. Non era il genio militare del Generale Lee a tenere in scacco l'Unione, apprendiamo, ma il fatto che i confederati fossero potenti vampiri in divisa grigia. C'è una buona trovata (l'origine della depressione, storica, di Mary Todd) ma l'impianto generale è risibile.
Per fortuna il film si conclude tornando all'azione. Certo, la trovata del treno è involontariamente comica anche per il livello di assurdità di questo film: il Presidente degli USA abbandona Washington e si mette a scortare il treno che porta le armi d'argento antivampiro ai soldati unionisti a Gettysburg. Però con l'attacco dei vampiri al treno il film ridiventa pura action (e anche buona), e qui non è più questione di plausibilità o ridicolaggine ma semplicemente di kick ass: chi massacra chi.
Un risultato imprevisto del presente film - visto che pone la Guerra Civile in termini di contesa tra i vivi e i morti - è di dare una base più logica al Discorso di Gettysburg, che sentiamo alla fine. Attualmente la Confederazione del Sud non gode di buona fama a Hollywood ed è regolarmente typecasted nel ruolo del cattivo (povero Presidente Davis, lo vediamo in combutta coi succhiasangue). In attesa che le mode culturali cambino, e magari di vedere “General Lee, Vampire Killer” o “Jefferson Davis against a Yankee Werewolf”, godiamoci “Abraham Lincoln: Vampire Hunter”. Non sarà un manuale di storia - ma è grande spettacolo.

lunedì 23 luglio 2012

The Amazing Spider-Man

Marc Webb

Un poster di Einstein in camera di Peter Parker fornisce una considerazione valida per qualsiasi reboot (cioè un remake con ripartenza da zero) di una saga: “E' più importante l'immaginazione che la conoscenza”. Oggi la saga dell'Uomo Ragno riparte con “The Amazing Spider-Man”, affidato al regista Marc Webb: senza grandi pretese autoriali ma in compenso con perspicacia e con una gradevole freschezza. Arriverei a dire (certo scandalizzando molti lettori) che è più spigliato del primo film - piuttosto accademico - di Sam Raimi (il vero “Spider-Man” raimiano è il secondo). Non per nulla qui troviamo fra gli sceneggiatori, accanto a James Vanderbilt, Alvin Sargent (che appunto fu tra gli autori di “Spider-Man 2”) e il grande Steve Kloves.
Il film fa un uso intelligente del 3D. E' piacevole per esempio che si apra applicando il 3D ai mobili di un semplice appartamento col gioco a nascondino. Un altro tocco indovinato è che il film presenti almeno due volte degli ologrammi, nelle scene di laboratorio, e inserire un ologramma (i.e., una forma tridimensionale) in un film in 3D è una sorta di raddoppiamento che in quanto tale mostra una consapevolezza del mezzo. La solita sarabanda di voli, che sembra fatta apposta per il tridimensionale, verrà in seguito; e qui il film trae veramente il meglio dal panorama di New York notturna.
Marc Webb ha un background inaspettato: viene dalla musica (videoclip e documentari) e dalla commedia romantica. Non stupisce vederlo particolarmente interessato all'aspetto personale: il carattere adolescenziale di Peter Parker, segnato dalla scomparsa dei genitori, e il suo innamoramento di Gwen Stacy (lo spruzzo di ragnatela che attira Gwen nell'abbraccio è l'equivalente contemporaneo del famoso bacio rovesciato di Sam Raimi - che non è contemporaneo in quanto è già diventato un'immagine classica). Il dialogo di chiusura gioca abilmente con una debolezza d'origine del fumetto, il fatto che Peter si tira continuamente indietro con le sue belle per paura che i cattivi se la prendano con loro (Spider-Man non è proprio un campione nel nascondere l'identità segreta. Anche qui, è sconsigliabile lasciare il tuo nome sulla macchina fotografica quando l'hai fissata vicino alla tana del mostro per raccogliere prove).
Dal film emerge un quadro psicologico di Parker ben disegnato (ombra degli “Harry Potter” di Steve Kloves?), un mix di gentilezza da bravo ragazzo (delizioso quando nel primo scontro, nel vagone del metrò, non fa altro che chiedere “Scusi” e “Mi dispiace tanto”) unita a una certa violenza adolescenziale che fa fatica a dominare. Nota in margine: considerando quant'è stronzo il classico bulletto del liceo che lo tormenta all'inizio, ci si chiede perché dovrebbe dominarla, e non piuttosto strappargli la testa per giocarci a palla - ma questo è improponibile per la correttezza politica hollywoodiana. E' già molto che a tal proposito ci sia una sequenza anticonformista: in lotta con Lizard e contemporaneamente braccato dalla polizia, Spider-Man viene aiutato dagli operai edili tramite un ponte di gru. Questo è interessante perché introduce un classico tema populista-conservatore: la polizia (o meglio i liberal che comandano) odia i giustizieri mascherati, ma l'uomo comune che lavora, il colletto blu, ha invece ben chiaro chi sono i buoni e chi i cattivi.
La mitologia di Spider-Man emerge adeguatamente: niente revisionismi alla Nolan. Se zia May qui per la prima volta ha i capelli neri, si potrebbe osservare che questi la connotano più come madre che come grandma, la canuta zia-nonna del fumetto: in accordo con la sofferenza di Peter che si sente abbandonato dai genitori. Invece colpisce la mancanza di J.J. Jameson; ma il presente film è addirittura plateale nel dichiararsi come primo di una serie, e che la comparsa di J.J.J. sia solo rimandata lo capiamo quando viene inquadrata la testata di un giornale di New York ed è proprio il “Daily Bugle”.
Accanto a un certo realismo (Peter ha sempre la faccia piena di botte e ferite), c'è una corrente di solido umorismo che attraversa il film. A partire dal divertente riduzionismo ironico del costume: il film lo beffeggia amabilmente facendo sì che l'idea sia suggerita a Peter dai poster di una palestra di wrestling (“El Cruzado de la Noche”). O lo spiritoso raccordo che da “Ti piace il branzino?” - “Piace a tutti” di Gwen e Peter ci porta agli schifosissimi esemplari conservati sotto alcool in vaso nel laboratorio. O il tradizionale cameo di Stan Lee, che però qui ascolta musica classica con le cuffie senza accorgersi che alle sue spalle Spider-Man e Lizard distruggono la stanza (come dire: sì, tutti questi film di supereroi Marvel sono figli miei, ma ormai vanno per la loro strada).

venerdì 20 luglio 2012

C'era una volta in Anatolia

Nuri Bilge Ceylan

Si potrebbe vedere nell'apertura di “C'era una volta in Anatolia” di Nuri Bilge Ceylan (inquadratura di un vetro offuscato; lento avvicinamento della mdp; cambio di fuoco che finalmente rivela le figure) come un'immagine della struttura del magnifico film turco. Nelle sue due ore e mezza, una lentezza meditabonda e avvincente ci immerge, per così dire, nel ritmo del respiro degli uomini e delle cose; coll lento delinearsi delle psicologie (il riferimento principale dell'autore è Čechov) emerge una verità che non è scoperta drammaturgica, strategia narrativa a puzzle, bensì il lento costruirsi dell'esperienza che permette di apprezzarne il peso, e quindi di rapportarlo a quel dolore universale che beffeggia la buona volontà degli uomini.
C'è stato un omicidio, un uomo è stato ucciso in un litigio causato dalla scoperta di un adulterio. Nella notte, poliziotti e militari, guidati dal commissario Naci con il procuratore Nusret e il medico legale Cemal, scortano in lungo e in largo per la campagna anatolica l'assassino e suo fratello cercando di farsi mostrare dove il corpo è stato seppellito. La bella fotografia di Gökhan Tiryaki esalta questo paesaggio povero: non in senso cartolinesco ma in riprese intense nelle quali l'ampiezza del panorama in rapporto alle piccole figure umane richiama qualcosa del cinema iraniano.
Il film è percorso da un'asciutta vena di humour noir: il verbale della scoperta del cadavere con la folle discussione (quasi un Beckett in Turchia) su quale sia il paese più vicino; il cadavere avvolto, perché si è dimenticato il sacco, in una coperta con un disegno superkitsch di aquile e leopardi; i problemi per ficcare dentro il corpo nel portabagagli; più tardi, nella sequenza dell'autopsia, il discorso dell'assistente che invidia gli strumenti chirurgici dell'ospedale vicino, fra cui una sega elettrica che la sera si può mettere in ricarica (come un cellulare!).
Per passare il tempo nella lunga ricerca, i viaggiatori discutono oziosamente; e io loro discorsi rivelano di ognuno una storia nascosta e una sofferenza segreta. Dolori tutti legati alla famiglia: i dispiaceri del commissario, la colpa del procuratore, la solitudine del medico divorziato. Parlando della malattia del suo bambino il commissario si chiede: “Perché Dio ha scelto lui?” - un travaglio universale al quale non ci sottraiamo, qualunque sia la nostra vita, è l'orizzonte del film. Un momento di sospensione quasi magica a questo dolore si ha nel capitolo sulla visita al sindaco del paese vicino - che li secca con beghe di politica locale - con l'apparizione della sua giovane figlia, che serve il tè in silenzio, ammutolendo tutti con la sua bellezza, in una luce alla De La Tour. Di fronte a questo momento il prigioniero Kenan piange; non per nulla nella scena appare un fantasma (allucinazione o sogno): quel momento di pace unifica i vivi e i morti.
Un fatto umano fondamentale, che salta fuori per vie traverse, apparentemente casuali, e ritorna in modo ossessivo fra il procuratore e il medico è il racconto di una bellissima donna che è morta improvvisamente senza motivo ma dopo averlo preannunciato mesi prima. E' molto vero e molto umano il modo in cui il film ci guida alla comprensione che questo è un dar voce del procuratore al proprio sospetto di un suicidio – e quindi autoaccusarsi (non sarebbe sbagliato aggiungere al nome di Čechov quello di Dostoevskij). L'ingenuo cinismo dei sottoposti più umili - “Quando si dice che qualcuno è gentile vuol dire che è innocuo” - risponde all'intuizione che tutti gli uomini sono peccatori. La terra è proprio “l'aiuola che ci fa tanto feroci”.
Nell'orizzonte di questo pessimismo sulla vita che attraversa il film, cosa può fare un uomo? Può solo portare un gesto di umanità o di gentilezza: quel minimo di bene che può fare; di qui la conclusione con il dottore, che qui ci tocca rivelare, perché è il centro di gravità morale del film. L'autopsia rivela che quando la vittima è stata seppellita dall'assassino e da suo fratello, che credevano di averlo ucciso con un colpo in testa, era ancora viva. Questo il dottore lo passa sotto silenzio, impone un verbale falso; impedisce che un omicidio per rissa si aggravi spaventosamente. E guarda allontanarsi, perduti nella loro miseria, altre due vittime, la moglie del morto e suo figlio - che forse è, senza saperlo, il figlio dell'assassino (“Alla fine sono i bambini quelli che soffrono di più. Tutti pagano per i loro peccati ma i bambini pagano per quelli degli altri”).
Quel minimo di bene. In questo senso è un film intrinsecamente religioso; dal punto di vista morale - non da quello narrativo - un ultimo nome che sale alle labbra è quello di Robert Bresson.

lunedì 16 luglio 2012

A Liduina, mia madre

Benedetto Parisi

E' solo nel momento della memoria, la rievocazione complessiva che tracciamo a cose finite, che comprendiamo veramente ciò che è accaduto.
“A Liduina, mia madre” - del documentarista udinese Benedetto Parisi, l'autore di “The Time of Her Life” - porta già nel titolo il suo carattere di film doppio, film a specchio. La protagonista è Liduina attraverso lo sguardo rievocativo di sua figlia Monica - ma allo stesso modo è Monica che guarda indietro a se stessa nel suo rapporto con Liduina.
Liduina: una donna friulana con problemi mentali, con tutta una storia di ricoveri all'Ospedale Psichiatrico di Udine, che ha avuto Monica da una relazione con un altro ricoverato mentre era là; nei primi tempi, sentiamo, vegliava la figlia notte e giorno nel terrore che gliela portassero via per darla in adozione. Col passare del tempo e con l'apertura dei manicomi Liduina va a vivere in un appartamento. Ha un intenso, non facile rapporto con Monica, che sta ora in collegio, ora in temporanei affidamenti, ora presso amici (nel giro di pochi anni c'è un tentativo di suicidio della figlia e uno della madre). Il film testimonia le sue speranze, i progetti, le ossessioni, le ricadute, come l'episodio della gita, le fragili rinascite; racconta il manicomio e apre uno squarcio sulla vita quotidiana del dopo manicomio (il dettaglio delle ex ricoverate che condividono un appartamento e litigano sempre, ma quando arriva l'incaricato dell'ospedale per il controllo si fanno trovare d'amore e d'accordo); e in primo luogo naturalmente descrive il magma di affettività e tensione fra madre e figlia. Da adolescente Monica ce l'aveva con la madre per la mancanza di tranquillità in cui cresceva: “C'era astio fra di noi, c'era aggressività”; “Invece di volere il motorino volevo che lei stesse sempre bene”.
Monica – sentiamo nel film – è la scommessa di Liduina con la vita. Il suo sogno è che, finite le superiori, la figlia si trovi un lavoro di commessa in un supermercato e venga finalmente ad abitare con lei; quindi è un colpo duro quando Monica le dice che vuole completare gli studi all'ISEF a Urbino. “Non mi lasciava”: sono le prime o fra le prime parole che sentiamo nel film, relative al saluto in stazione dopo una visita che si rivelerà l'ultima (“... ma non mi ha aspettato”): la madre muore mentre la figlia è a Urbino.
Il racconto di Monica si sostanzia, oltre che delle testimonianze filmate, di foto, delle lettere sgrammaticate che riportano con pregnanza la voce di Liduina, dei verbali dell'ospedale psichiatrico che raccontano dei suoi elettroshock. Alcune deformazioni d'immagini, nel filmato, intendono accordarsi con il contenuto, per esempio quando si parla dell'elettroshock (non una scelta felicissima, perché troppo enunciativa; la drammaticità sta nel racconto, non nell'immagine). La voce narrante di Monica, che struttura il film, trova un corrispettivo nella sua presenza, muta, nel visuale, presenza fissa, insistita, che gira in auto per Udine come in una ricerca del passato – ma questo film è in effetti il documentario di una ricerca.
Monica traccia un disegno della vita di Liduina sotto l'angolatura della vita propria (ma è esattamente il modo in cui ci riferiamo ai nostri genitori, che a ben pensarci ci danno la vita anche in questo senso); e quindi nel fare un bilancio della vita di Liduina Monica definisce e giudica la propria. Lo sguardo è lucido; non ci sono né rancori né complessi di colpa ma la dura verità della vita. “Se adesso col senno di poi potessi evitarglielo” (sul tentato suicidio)... “Peccato che quando si è più giovani si capisce di meno”... Questa è la vera storia del documentario: un assessment che diventa una sorta di pacificazione: ovviamente già esistente sul piano personale e soggettivo, ma di cui questo documentario è una sorta di ricapitolazione ed esposizione pubblica. Possiamo vederlo come un rito di addio – ciò ch'è la vera elaborazione del lutto.
Come mostrava il bellissimo “The Time of Her Life”, quello di Benedetto Parisi non è il documentarismo panflettistico di moda oggi, che parte da un'idea predefinita e si limita a illustrarla - non dimostrarla - con immagini ad hoc, scelte e montate secondo un intento retorico più che narrativo. In Parisi il documentario è organizzazione della memoria – e quindi uno sguardo sulla concretezza materiale della vita; davvero in queste (ri)evocazioni il documentarista riesce a trovare e trasmettere la vibrazione inconfondibile (emozionante) della realtà.

domenica 15 luglio 2012

Biancaneve e il cacciatore

Rupert Sanders

E' così bello il cartoon di Walt Disney “Biancaneve e i sette nani” del 1937 che ha reso difficile realizzare altre realizzazioni filmiche della fiaba. Se ne conoscono solo versioni minori o laterali: un paio di cartoon senza pretese, un musical, qualche escursione nel porno (da notare che il genialmente intitolato “Biancaneve sotto i nani” in realtà non è né un porno né una versione della fiaba). Invece questa stagione cinematografica ce ne ha portate due: l'interessante “Biancaneve” di Tarsem Singh, in chiave avventuroso-ironica, e il deludente “Biancaneve e il cacciatore” di Rupert Sanders, in chiave fantasy (mortalmente) seria. A Lily Collins contro Julia Roberts corrispondono nel secondo film Kristen “Twilight” Stewart contro Charlize Theron.
L'idea base di “Biancaneve e il cacciatore” è di concentrare tutta la vicenda sulla bellezza/giovinezza (i due termini sono assimilati) come valore assoluto; essa diventa la ragion d'essere della regina-strega, che la cerca ovunque perché le occorre per sopravvivere, e anche la aspira vampirescamente da una prigioniera. Compare perfino un clan di donne rifugiate nella palude che si sfregiano per non essere belle e quindi sfuggire alla regina.
Qualsiasi film di genere possiede un livello metaforico. Questa gara in cui la bella donna che invecchia ricorre a vari artifici e tuttavia viene sconfitta e sostituita da una bella donna più giovane, viene dai fratelli Grimm; nondimeno vi si potrebbe vedere una metafora dell'eterna lotta fra le attrici di Hollywood (che rispetto ai maschi sono più soggette all'usura del tempo) – quasi un “Eva contro Eva” fantasy. Così Charlize Theron soccombe alla logica dell'invecchiamento, nonostante tutti i tentatrici per annullarlo (a livello diegetico la magia nera; a livello di messa in scena il make-up), e Kristen Stewart prende il suo posto.
L'idea della bellezza come punto centrale è logica, i suoi addentellati metaforici sono affascinanti; il punto è che rimane astratta. Per funzionare a livello metaforico il film deve prima funzionare a livello narrativo: ovvero, si direbbe che l'attivazione “riflessiva” dell'allegoria possa attuarsi solo sulla base di una “soddisfazione” creata dal primo livello del racconto. Siccome “Biancaneve e il cacciatore” delude a questo livello base, non riesce a a rendere vivo e concreto il livello superiore.
Se l'invenzione non manca, la realizzazione è piatta e stucchevole, incapace di farsi prendere sul serio: il regista esordiente Rupert Sanders è inferiore come capacità agli sceneggiatori (già non eccelsi, ma indubbiamente più sperimentati). Sul piano visuale è il tipico film di storyboard: le sue scene sembrano l'animazione di disegni preesistenti - ma senza vivacità né potenza.
Si tratta di un film altamente derivativo; il suo modello narrativo e visuale, evidentissimo, è il ciclo di Narnia. Peraltro a un certo punto - la parte successiva alla morte del nano - l'ispirazione si sposta visibilmente a “Il Signore degli Anelli”. Inoltre c'è anche una parte in cui l'intento è quello di rifare Disney, quando i protagonisti si inoltrano nel territorio delle fate; solo che è fortissimo il contrasto di atmosfera e di senso con tutto quanto precede. Ovvero, sembra un altro film: non è meno incongruo che se fosse comparso Fred Astaire ballando il tip tap.
La definizione dei personaggi è ambiziosa (i traumi infantili della regina cattiva. Il rapporto quasi incestuoso col suo malvagio fratello) ma nonostante gli sforzi degli interpreti partecipa di quella mancanza di calore di fondo che caratterizza il film; tuttavia c'è almeno un'idea molto graziosa: il bacio che risveglia Biancaneve non è quello, inefficace, del principe bensì quello del cacciatore plebeo innamorato di lei. Peraltro lo humour è totalmente assente. O meglio si concentra in una sola scena, che appare quindi un bizzarro unicum: quando i nani devono farsi strada nell'acqua putrida delle fogne del castello (per calare il ponte levatoio durante l'attacco), Muir, il Dotto della situazione, intona “Ehi-ho! Andiamo a lavorar!” e un altro nano commenta: “Se si mette a fischiettare gli spacco la faccia”.
Che la regina cattiva sia il personaggio visivamente più interessante, è la regola del gioco: Biancaneve dovrebbe essere una forza della natura per battere in attrazione spettacolare una strega capace di trasformarsi in uno stormo di corvi (l'immagine migliore del film); se poi Biancaneve è Kristen Stewart, aiuto! Perché Kristen Stewart è tutto meno che un'attrice. La sua concezione di recitazione è: socchiudere la bocca quando il personaggio è emozionato. Come in “Breaking Dawn”, anche qui questa donna è espressiva allo stesso modo da viva o da morta. D'altro canto le manca quel carisma che solo potrebbe sopperire alla sua desolante impassibilità.

domenica 8 luglio 2012

Chernobyl Diaries - La mutazione

Bradley Parker

L'horror antiquario (Argento, Avati, Bianchini) si muove tra vecchie cose dimenticate: fotografie ingiallite, vetusti giocattoli, libri perduti, documenti polverosi, affreschi semicancellati: oggetti del passato che rivelano antiche storie crudeli. Anche prima del cinema: basta pensare alle “Ghost Stories of an Antiquary” di Montague Rhodes James. Ma si potrebbe parlare anche di un horror antiquario dei luoghi, che si svolge negli ambienti degradati dell'archeologia industriale et similia: fabbriche dismesse, vecchi ospedali abbandonati, paesi disabitati. Che, inutile dirlo, fanno più paura dei castelli gotici della Hammer - perché quell'atmosfera di degrado ci tocca più da vicino.
Ora, il brutto “Chernobyl Diaries” di Bradley Parker si basa su un'idea formidabile (dello sceneggiatore Oren Peli, l'autore di “Paranormal Activity”): un gruppo di ragazzi americani in vacanza in Europa approdano a Kiev e il più scemo di tutti ha l'idea di trascinarli in un tour estremo - ovviamente clandestino - nella città fantasma di Pripjat', la città ucraina che fu abbandonata dopo il disastro della vicinissima Chernobyl. Va subito detto che il film (in realtà girato in Ungheria e Serbia) provvede una location e un lavoro scenografico del tutto all'altezza. Si imprimono nella memoria gli appartamenti vuoti, il luna park abbandonato, i locali di ritrovo e di riunioni politiche luridi e devastati, tutto lasciato in preda al potere distruttivo del tempo. Sarebbe uno spettacolo cupo comunque; se poi la fiction vi sovrimprime lo stigma della catastrofe radioattiva di Chernobyl, diventa francamente pauroso.
Tanto più brucia che il film sia un'occasione totalmente sprecata. Ancora pazienza se “Chernobyl Diaries” non si allontana di un millimetro dall'usual fare del cinema slasher: primi segnali sinistri, il camioncino non parte più, cala la notte, oscure presenze, la tettona terrorizzata, prime scomparse e/o ferimenti, eccetera. Per la cronaca, la guida del gruppo, un ex militare russo che sembrerebbe tough as nails, come si dice (ed è anche - l'attore Dimitri Diatchenko – l'unico dotato di una presenza scenica convincente), è il primo a mordere la polvere. Il punto è che questo film goffo e piatto non sa sfruttare le sue possibilità né sul piano della lenta e sadica costruzione della suspense né su quello della maligna e isterica esplosione del massacro. L'atmosfera di minaccia che si basa soprattutto sull'effetto dell'ambiente finisce per spegnersi nella noia; e questi orrori nascosti si risolvono in quattro cani inselvatichiti e un drappello di zombi (vivi, niente di soprannaturale) creati dalle radiazioni. In qualche modo è indicativo che altri dettagli più inquietanti (i pesci mutanti) non vengano realmente sfruttati.
Infine, e peggio, manca qualsiasi possibilità di empatia. “I miei amici sono cretini”, dice una ragazza all'inizio commentando i filmati del viaggio: ecco in nuce tutto il film. Certo, è la prima delle regole del genere slasher che un gruppo di adolescenti deficienti si precipiti tutto giulivo a far da pecore al macello. E' talmente obbligatorio che fornisce la base metanarrativa, seria a “Scream”, ironica a “Scary Movie”. Ma i protagonisti di “Chernobyl Diaries” sono deficienti a tal punto da ingenerare un sentimento di totale ostilità nello spettatore – il quale, fregandosi le mani in anticipata Schadenfreude, si dice: sarà un vero piacere vederli morire. Ebbene, anche questo ci viene negato: non è che non muoiano, è che la goffaggine della regia non sa neppure rendere adeguatamente spettacolari le loro traversie e la loro dipartita.