mercoledì 22 maggio 2013

La casa

Fede Alvarez

Prendere il dvd, inserirlo nel lettore e rivedersi ancora una volta l'incomparabile La casa (The Evil Dead) di Sam Raimi - ecco la cosa migliore che uno può fare dopo aver visto il piatto e inutile remake La casa (Evil Dead) dell'esordiente Fede Alvarez, da lui scritto assieme a Rodo Sayagues.
Dopo un inizio che occhieggia agli slasher movies e che si sviluppa in un breve episodio di possessione demoniaca, la trama fa una brusca virata per seguire da vicino il film originale, con cinque ragazzotti (francamente antipatici) che si rifugiano nella fatidica capanna fra i boschi, stavolta per aiutare una di loro a disintossicarsi dalla droga. Niente di male in ciò; però questo rifacimento non provoca la minima emozione. Come se un bambino capriccioso avesse demolito un puzzle, ne avesse raccolto alcuni pezzi e avesse cercato di assemblarli come può, così in questo remake galleggiano alcuni materiali perfettamente riconoscibili (la sega a nastro, il ciondolo rotondo, gli oggetti misteriosi che dondolano appesi, e qui sono gatti morti, il fulmine che infiamma l'albero, perfino le palate di terra in soggettiva nella sepoltura) - ma ridotti a meno che citazioni, a tenui segni di riconoscimento per gli adolescenti annoiati che già conoscono il film di Raimi e ora sono andati a vedere questo. La ripresa aerea dell'auto sulla strada all'inizio occhieggia anche a Kubrick, naturalmente, ma non dice nulla - in opposizione alla pura genialità visuale dell'apertura di Raimi. Le piante che si animano nel bosco e avvolgono la ragazza servono a poco più che trattenerla mentre arriva la donna mostro, erede di una serie infinita di film sulla possessione, senza niente della lucida crudeltà dello “stupro vegetale” del La casa originale. Distanziandosi dallo humour noir raimiano, il film è mortalmente serio. I sensi di colpa del protagonista fanno pensare a L'esorcista, certamente tenuto presente da Diablo Cody che ha collaborato ai dialoghi.
La cupezza di una fotografia “sporca” che annega tutto sotto una patina brunastra, e un montaggio troppo rapido che offusca l'azione, annegano alcuni discreti tocchi graphic come un mega-flutto sanguigno sparato in faccia, una lingua divisa a metà con un taglierino, alcune auto-amputazioni sulla linea Saw, fino al finale dove la ragazza-demonio nuda con le gambe mozzate striscia per terra inferocita (ma con una ridicola censura elettronica sul sedere). Quanto ai disegni del libro demoniaco che scatena tutto - qui intitolato Naturom Demonto - non sono affatto male; ma attenzione, anche qui vince la versione che appariva in Raimi, con le sue allusioni lovecraftiane.
In conclusione, il solo mistero (qualcuno direbbe il solo horror) del nuovo La casa è che i produttori siano addirittura Bruce Campbell, Sam Raimi e Robert G. Tapert (vale a dire il trio originale) con la loro compagnia Ghost House. Che dire? Evidentemente qui gioca la magia del solo libro demoniaco che Hollywood conosca (altro che il Naturom Demonto): il libretto degli assegni.

lunedì 13 maggio 2013

Confessions

Nakashima Tetsuya

Abbiamo conosciuto Nakashima Tetsuya quando il bellissimo Kamikaze Girls (che però non era la sua opera prima) è stato proiettato al Far East Film Festival 2005. Narrava dell'imprevista amicizia fra due ragazze giapponesi diversissime: Ichigo è un maschiaccio motociclista, Momoko una seguace estrema di quella moda fancy, tutta pizzi, merletti, cuffiette, in cui le giovanissime esprimono l'ideale giapponese del kawaii (carino).
In seguito nel notevole Memories of Matsuko (Far East Film 2007) dopo l'assassinio di una barbona ex prostituta si ricompongono retrospettivamente i tasselli della sua vita. La fine rivela che a ucciderla senza motivo è stato un branco di ragazzini annoiati.
Dopo Paco to maho no ehon, una sorta di fiaba nera, è arrivato lo sconvolgente Confessions. Anch'esso presentato al Far East Film (2011), esce ora nelle sale italiane, distribuito dalla sempre meritoria Tucker Film. E' un film molto più cupo, anche visivamente, rispetto allo stile flamboyant cui ci ha abituati il regista giapponese, ma non è difficile vedervi i tratti tipici di Nakashima: sul piano narrativo, una tendenza a partire da un punto avanzato per “ricostruire” all'indietro la storia; sul piano del contenuto, una visione angosciata della gioventù giapponese e sull'assenza della famiglia (“Addio, inutile padre”, pensa Momoko quando crede di morire all'inizio di Kamikaze Girls).
In Confessions la noia spinge due ragazzi del liceo alla crudeltà senza scopo a uccidere una bambina, figlia della loro insegnante. Adolescenti che hanno perso le basi morali minime in una civiltà in caduta libera perché ha spinto il garantismo fino all'autodistruzione: tanto, pensano i due (citando un caso realmente accaduto), i minori non sono legalmente responsabili.
Così la madre della bambina assassinata si fa giustizia da sola. In una sequenza a inizio film, potente e claustrofobica, che inizia in tono quasi di comedy ma assume subito un'intollerabile drammaticità, ella confessa in un lungo monologo il suo dramma alla classe indifferente - e approfitta di un'iniziativa di eduzione alimentare, l'offerta di latte agli allievi, per convincere i due assassini di avere contaminato il loro latte col virus dell'AIDS.
Scandito in capitoli intitolati “La confessione di...”, il film racconta il processo di autodistruzione dei due colpevoli terrorizzati, passando da un punto di vista all'altro come un Rashomon morale. Dico morale perché qui la costruzione a tasselli non serve tanto a definire l'accaduto quanto l'universo morale dei vari personaggi: la madre di uno dei due che difende ciecamente il figlio, una fidanzata piena di illusioni romantiche, i due assassini stessi, per i quali si possono evocare i due estremi concomitanti del comportamento nazista: il superomismo nella ferocia del primo, la “banalità del male” nell'acquiescenza del secondo.
Confessions è una impietosa riflessione sul male e la reazione, un impietoso esame della colpa, un Delitto e castigo senza sbocchi. Forse si avverte in alcuni passaggi una certa tendenza alla costruzione dimostrativa; ma non più, diciamo, che ne Il diavolo probabilmente... di Bresson. Nakashima ha il coraggio di porre il tema della giustizia, di veder compiere la vendetta - anche se essa lascerà un sapore di cenere. Così Confessions non è solo un grande film ma uno dei pochi esempi di cinema etico degli ultimi tempi.

* già pubblicato parzialmente su Paper Street (www.paperstreet.it), 2011

martedì 7 maggio 2013

Far East Film Festival 2013

Eccoci all'annuale report sul Far East Film Festival di Udine - sempre magnifico, sebbene questo non dovrebbe dirlo uno che ci collabora. Solo che - qui devo permettermi una nota personale - quest'anno a causa di una malattia non sono riuscito a seguire il festival nella sua interezza, e ho potuto vedere in modo abbastanza esaustivo soltanto la selezione giapponese (beh, la migliore). Mettendo insieme le visioni in sala, le visioni precedenti per le selezioni e qualche recupero post-festival, cercherò di tracciare un panorama, ma sarà inevitabilmente più frammentario che negli anni precedenti. Aggiungo che il festival ha pubblicato un bellissimo volume, a cura di Roger Garcia, su King Hu, accompagnato da una mini-retrospettiva, e ha reso omaggio con un film al grande regista filippino Mario O'Hara, recentemente scomparso.

Il Giappone ancora una volta si rivela la miglior cinematografia asiatica. Anche uno dei due capolavori assoluti visti al festival è nipponico (A Story of Yonosuke), mentre l'altro proviene, lieta sorpresa!, dai territori filmici non altrettanto appassionanti della Cina continentale (The Last Supper).
Accanto al detto A Story of Yonosuke di Okita Shuichi (vedi scheda sotto), si sono visto altri film eccellenti, come lo sfrenato It's Me, It's Me di Miki Satoshi. Il giovane Hitoshi si appropria dell'identità di un'altra persona per compiere una banale truffa telefonica e questo atto manda la sua, di identità, fuori dai binari del reale quotidiano. Hitoshi comincia a incontra molte altre copie di se stesso, il mondo si “hitoshizza”, ma poi, come in un Highlander metafisico, i vari Hitoshi si “cancellano” l'un l'altro finché ne resta uno solo - e la riappropriazione di un'identità frazionata si lega a una rinascita morale. Miki Satoshi ci ha abituato a questi film dove la follia cammina a pari passo con un'imperturbabile logica narrativa, ma è anche la sua abilità di regia a rendere It's Me, It's Me un film non solo da vedere ma da studiare.
Sullo scambio di identità gioca, in forma realistica, anche Key of Life di Uchida Kenji. Un altro giovane squattrinato si scambia i documenti con un tizio dall'aspetto ricco finito in coma per una caduta - senza sapere che costui è un killer professionista. E il killer si risveglia senza memoria e crede di essere il poveraccio... Il nome di Billy Wilder non va speso con facilità, ma questa commedia ha in effetti un certo sapore wilderiano (immaginatevi Tony Curtis e Walter Matthau!).
Uno dei migliori film del festival è I Have To Buy New Shoes di Kitagawa Eriko. Storia di giapponesi a Parigi, è un film intimista, sottilmente malinconico e sorprendentemente piacevole, con interpretazioni notevoli e un montaggio secco e preciso. Dialoghi e scene sono di una naturalezza incantevole - e la Parigi di Kitagawa Eriko è più bella di quella di Woody Allen!
Ora dimentichiamo Parigi e spostiamoci nei danchi, anonimi complessi edilizi di case popolari, nati all'inizio del boom economico giapponese e poi - almeno a prestar fede al cinema - decaduti assai. Qui si svolge la vita di Satoru in See You Tomorrow, Everyone di Nakamura Yoshihiro. Fin da bambino Satoru ha preso una decisione (verso metà del film scopriamo perché): non uscire mai dal danchi in cui abita, e dove fa ronde notturne per assicurarsi che tutto sia a posto, mentre però i traslochi fanno calare progressivamente la popolazione. Se prova a uscire dal danchi comincia a iperventilare e deve rinunciare all'impresa. In fondo, Satoru è un hikikomori a livello di quartiere anziché di appartamento. Il film ha un piacevole svolgimento arguto ma non privo di un côté toccante.
Ancora un danchi, ma in chiave horror, in The Complex di Nakata Hideo, storia di fantasmi ambientata in uno squallido caseggiato. Non sarà bello quanto Ring o Dark Water, i capolavori dell'autore, ma Nakata ha sempre al suo attivo una notevole perizia narrativa, nonché una spietatezza (molto giapponese invero) per cui la conclusione avvicina questo film a Dark Water nella logica di un inevitabile sacrificio.
Se non proprio un triste danchi, un quartiere autosufficiente un po' più elegante fa da sfondo alla vicenda di Maruyama, the Middle Schooler del fantasioso regista e sceneggiatore Kudo Kankuro, forse il film più divertente del festival. Basti dire che è un tuffo a capofitto dentro la mentalità preadolescenziale, in base alla quale il giovanissimo Maruyama ha uno scopo nella vita: farsi una fellatio da solo. E questo è il punto saliente di una delirante riflessione sulla sessualità nascente, i rapporti familiari, le figure paterne sostitutive, il culto dei supereroi, e più in generale il tentativo adolescenziale di individuare un ordine nel caos del mondo.
Il festival non ha trascurato il genere dei jidaigeki – i film storici con samurai e battaglie – con The Floating Castle, diretto dal grande Inudo Isshin (assieme a Higuchi Shinji) con tutto il suo bizzarro senso dell'umorismo e la sua vivezza di sguardo. Si tratta di un film piuttosto spiazzante nel panorama usualmente solenne del genere perché - senza trascurare le scene di combattimento, i dibattiti sull'onore, il doppio gioco e tutti i topoi del caso - si impernia sulla figura di un lord-buffone, Nagachika (Nomura Mansai), che agisce per vie contorte e imprevedibili (la fenomenale scena della danza davanti al nemico). L'ascendenza del film viene direttamente da Kurosawa, come mostra il particolare del rapporto amichevole, in pratica da pari a pari, fra Nagachika e i contadini. Infine, menziono di passaggio
il piacevole ma non decisivo Girls for Keeps di Fukagawa Yoshihiro.

Spostiamoci alla Cina continentale. Purtroppo quest'anno ho perduto la maggior parte dei film; ho potuto vedere l'importantissimo The Last Supper di Lu Chuan (vedi scheda sotto), ma per esempio, il grande nome di Zhang Yuan segnalava che Beijing Flickers non era da mancare. 
Ha dei difetti, ma è molto piacevole Design of Death, di Guan Hu, con un memorabile protagonista sorretto da un'ottima interpretazione di Huang Bo, col suo sorriso cavallino alla Fernandel. Accanto all'inutile An Inaccurate Memoir di Yang Shupeng, era deludente Million Dollar Crocodile di Lin Lisheng, un primo esempio cinese di creature movie - sulla carta, perché era ovvio che la censura cinese non ammetterebbe un film in cui una bestia mostruosa fa strage di gente. Così questo film si articola non in termini di dramma sanguinario ma di commedia avventurosa, strano mix di spavento come bluff e buonismo come realtà, con tanto di ragazzino che vorrebbe essere cute. Il coccodrillo gigante (femmina) del titolo spaventa molte persone ma in fin dei conti uccide solo una capra - più il cattivo del film (nientemeno che Lam Suet, spiritosissimo). Curiosità: il titolo è perché il coccodrillo si è mangiato una borsa con 100.000 euro, che l'emigrata di ritorno Barbie Hsu era riuscita a risparmiare in otto anni di lavoro in Italia a fare scarpe (sì, bonasera).
Molto divertente, in compenso, Lost in Thailand, prima regia dell'attore comico Xu Zheng, che anche lo interpreta coi colleghi Wang Baoqiang e Huang Bo. Si è detto: i cinesi hanno inventato il cinepanettone – e per una volta è vero. Questa avventura di tre cinesi che tirano a fregarsi (o comunque a danneggiarsi per stupidità) in una Thailandia che è la summa di tutti i luoghi comuni turistici sul paese, ci riporta ai tempi migliori di Boldi e de Sica, per di più con una regia più vivace e valori produttivi migliori.

Molti film in costume da Hong Kong. Ronny Yu ha realizzato con Saving General Yang una delle sue opere migliori (vedi scheda sotto). E anche Ip Man – The Final Fight potrebbe essere il film migliore (fra quanti ne ho visti: è un autore estremamente prolifico) nella carriera dignitosa ma alquanto diseguale del simpaticissimo Herman Yau. Ennesima variazione sulla biografia di Ip Man, qui nei suoi anni hongkonghesi, interpretato da Anthony Wong, è un film di estrema freschezza, che parla con convinzione e semplicità dell'integrità morale del suo protagonista. Non mancano però le scene di kung fu, molto ben costruite. Particolare gustoso, a un certo punto (in una visualizzazione immaginaria) Yau introduce una vera e propria parodia dello stile tutto CGI dei film di arti marziali moderni più esagerati. E' tanto più delizioso nell'ambito del festival perché sembra una risposta a The Guillotines di Andrew Lau - il tipico prodotto alla Andrew Lau minore: molta enfasi che gira un po' a vuoto e un pesante appoggiarsi sulla computer graphics.
The Bullet Vanishes di Lo Chi-leung, con Lau Ching-wan, mette in scena un mystery con una buona ambientazione d'epoca (primo Novecento), ma si perde per strada. Se parliamo di Hong Kong, infine, non possiamo non menzionare i cortometraggi di autori giovanissimi del benemerito concorso Fresh Wave. Ciascuno di loro mostra un'intelligenza e capacità che da noi non hanno neanche molti registi affermati, figuriamoci i ventenni.
Il solo film di Taiwan che ho avuto modo di vedere, Forever Love di Shiao Li-shiou e Kitamura Toyoharu, è molto più gradevole di quanto lasci supporre il banalissimo titolo (pare che il titolo di lavorazione fosse “Hollywood Taiwan”: molto meglio). Questa commedia è un appassionato omaggio all'epoca dei film di serie B in cantonese che venivano prodotti in gran quantità a Taiwan negli anni Cinquanta.

Sia delusioni sia piacevolezze arrivano dalla Corea. Per il primo gruppo, ecco A Werewolf Boy di Jo Sung-hee: Il ragazzo selvaggio di Truffaut incontra il cinema dei licantropi all'insegna di un iper-romanticismo giovanilista che non si dimentica di Edward Mani di Forbice. Non è memorabile nemmeno The Berlin File di Ryoo Seung-wan, il film di apertura, un comune action, meno svelto e piacevole, per esempio, del recente Die Hard – Un buon giorno per morire di John Moore. Entrambi i film comunque sono stati campioni d'incasso in patria.
Molto meglio il folle The Ghost Sweepers (cioè “Gli spazzafantasmi”) di Shin Jung-won. Storia di cinque esorcisti, più una giornalista d'assalto, in lotta contro un potente spirito maligno su un'isola sperduta, è un originale mix di farsesco e (se non proprio horror) avventura fantastica, con passaggi dall'uno all'altro registro talvolta quasi stridenti (ma lo dico in senso positivo).
How to Use Guys with Secret Tips di Lee Wong-suk ha addirittura vinto il premio del pubblico. In realtà non è affatto il miglior film del festival; tuttavia è molto arguto. L'uso della computer graphics a manetta - una mania dei coreani - trova la sua giustificazione in un'intelligente formula narrativa che invece di tenere separati i due livelli del film (un corso video su come fregare gli uomini e l'uso che ne fa la protagonista nella sua vita) li mescola e incrocia in un divertente delirio. The Thieves, di Choi Dong-hoon, come molti film coreani è troppo lungo e come tutti i film del regista un po' troppo intricato. Tuttavia è molto divertente, ha dell'umorismo, contiene scene d'azione fulminanti - e non dimentichiamo la bellezza di Kim Hye-soo! 
Non ho visto il film novità proveniente dalla Corea del Nord (ma in coproduzione).

La Thailandia ha contribuito con un film a episodi sull'amore, convincente e piuttosto intenso, Home di Chookiat Sakveerakul, con un buon film di gangster assai vivace (The Gangster di Kongkiat Khomsiri), e con alcuni horror. 9-9-81 è un film a episodi interessante fin dalla concezione: i registi sono molti ma la storia è una. Nel prologo una ragazza vestita da sposa si uccide. I 9 episodi costituiscono una sorta di puzzle che dà la spiegazione di questo e di altri fatti che vediamo in seguito, mentre descrivono la situazione per cui il ghost della sposa si aggira ancora, ora dolente ora vendicativo. Le diverse sensibilità dei registi (più di nove: alcuni episodi sono co-diretti) realizzano un film molto sfaccettato, sia dal punto di vista del racconto che del linguaggio cinematografico.
Long Weekend di Taveewat Wantha (autore anni fa di una spassosa commedia sugli zombie, SARS Wars) è un horror in senso stretto, e fa anche paura. Deve molto al Sam Raimi de La casa, ma senza il suo umorismo, e sviluppa la sua lezione con intelligenza, adattandola con mano felice alle tradizioni locali.
Dall'Indonesia, Upi, sempre una regista interessante, porta Shackled, un thriller dalla atmosfere vagamente alla David Lynch, che però - come dirlo senza spoiler? - è eccessivamente debitore nel dénouement a un famoso film di Scorsese.

Chiudiamo in bellezza con tre urrà per le Filippine. Gli aswang - grosso modo, una via di mezzo locale tra licantropi e vampiri - sono stati il mostro ufficiale del quindicesimo Far East Film, apparendo in due film. Tiktik: The Aswang Chronicles dell'infaticabile Erik Matti è un horror-action ricco di humour e di calore umano, con un'ottima costruzione della situazione: la scena in cui i protagonisti arrivano in un villaggio di aswang sotto mentite spoglie è magistrale. I trucchi sono buoni, specie prima delle trasformazioni finali: il modo animalesco e cauto di muoversi degli aswang quando sono ancora in forma mezzo umana è memorabile. Indovinati certi dettagli, come quando Erik Matti decide di rifare la scena più famosa di Un lupo mannaro americano a Londra senza CGI (la trasformazione del maialino) - per il puro gusto di farlo, visto che userà la CGI nella scena immediatamente seguente (l'aswang nudo che fa un salto-volo). Anche la fotografia, che corregge al computer i cieli dando loro un valore fiabesco, è da menzionare.
Gli aswang ritornano in The Strangers di Lawrence Fajardo, un horror minore rispetto all'altro ma comunque mosso e piacevole. La sorpresa (costruita mediante intelligenti allusioni all'inizio) viene sviluppata in modo abile, con false piste, per cui alla fine sorprende effettivamente; la CGI, se non proprio buona, è discreta; e infine, per chi conosce anche appena un poco il cinema filippino, vedere Cherry Pie Picache che improvvisamente si trasforma in un mostro vale da solo il prezzo del biglietto. Il suo ambiguo sorriso prima della trasformazione è una pagina di recitazione indimenticabile!
Su una nota più allegra, Chris Martinez ci porta un delizioso musical con I Do Bidoo Bidoo, colorata versione di Romeo e Giulietta fra due famiglie, una ricca e una povera, con stupefacenti interpretazioni (si capisce che la più brava di tutti è la sublime Eugene Domingo). Con la sua prevalenza di duetti e quartetti rispetto alle scene di balletto il film sembra quasi staccarsi dal musical classico all'americana per assumere la forma del film cantato alla Jacques Demy; e Chris Martinez sviluppa al massimo la figura geometrica del rispecchiamento fra i personaggi delle due parti sul piano musicale. E' un vero peccato che non sia piaciuto a tutti gli spettatori. In un mondo perfetto, tutti gli spettatori sarebbero usciti entusiasti dal teatro Giovanni da Udine cantando in coro “I Do Bidoo Bidoo”. Ma che questo non sia un mondo perfetto già lo sospettavamo, vero?

A Story of Yonosuke

Okita Shuichi

Yonosuke, l'eroe eponimo di A Story of Yonosuke di Okita Shuichi (The Woodsman and the Rain), è un giovane di provincia di buon carattere, un po' perso. Viene a Tokyo e si iscrive all'università (nonché al gruppo universitario di samba). Fa amicizia con diverse persone. Riesce simpatico alle donne e nel suo modo svagato, ha le sue relazioni e i suoi amori. Si interessa di fotografia. Nel corso del film attraverso i ricordi degli amici veniamo a sapere che è morto giovane. Tutto qui? Tutto qui.
Eppure A Story di Yonosuke non si può definire in altro modo se non appassionante. E' un film di incredibile immediatezza: sicché il sentimento che desta negli spettatori si può definire di cordiale adesione ai personaggi (è questo, accanto alla perizia narrativa e di messa in scena di Okita, che fa passare le sue oltre due ore e mezza quasi senza accorgersene). Naturalmente quest'immediatezza non cade dal cielo: è abilmente costruita - ma proprio in questo sta la realizzazione artistica. Yonosuke non è un catalizzatore in senso proprio, ma certo lo è in senso simbolico: ovvero, è come un centro, un polo di attrazione, intorno al quale si organizza (in apparenza) spontaneamente il film.
Le cui caratteristiche sono una grazia generale, un umorismo delicato, un sentimentalismo sempre controllato. Ma al di là di questo, parlare di immediatezza significa avvicinarsi alla vita. Questo film assume un tono autentico (un termine che va al di là di “realistico”) perché il suo svolgimento è analogo a quello reale della vita: ci si incontra, ci si perde di vista, nascono amicizie che sembrano eterne e poi finiscono, viceversa casualità si trasformano in imprevedibili amicizie; e ciò vale ancora di più per l'amore: quell'incertezza del futuro che è la caratteristica più forte dell'amore, quella possibilità del morire dell'eclissarsi dei sentimenti, o viceversa quel loro rispuntare, tutte cose che conosciamo bene dalla vita – e che non è così facile ritrovare in un film. Perché? Ma perché per sua natura un film (cioè una storia che dev'essere venduta al pubblico) si basa sulla drammaturgia, ossia la costruzione dei destini e delle vicende: il caso non esiste, o è ridotto al minino; ogni processo deve avere il suo compiuto sviluppo e ogni attimo è indirizzato al prosieguo.
Invece in A Story of Yonosuke l'elemento drammaturgico di causa/effetto è abilmente annullato nel fluire delle cose - proprio come la vita stessa è una drammaturgia incompiuta e mancata. Quindi abbiamo l'impressione di spiare personaggi del mondo reale (e non era proprio questo il programma della Nouvelle Vague?)
Bisogna poi riflettere sul tempo. Pur essendo in realtà sempre declinato al perfetto narrativo, il racconto cinematografico ha due strade possibili da seguire: o un falso presente in sviluppo, tutto aperto alle possibilità del futuro (il quale naturalmente può comprendere la sconfitta o la morte) – o il tuffo all'indietro nel passato, sul filo del ricordo, giocato sull'“E' già accaduto”. I 400 colpi e Quarto potere, per intenderci. Quale di queste due strade segue A Story of Yonosuke? Entrambe.
Questo grazie a un bellissimo lavoro sul tempo, con dei falsi raccordi che rappresentano, sì, dei flash-forward, ma che (per il loro contenuto commemorativo) lanciano uno sguardo retrospettivo, nostalgico e mortuario, sul “presente” del film. Lo mette particolarmente in chiaro ultimo di essi, con il personaggio di Choko, ormai adulta e madre di una ragazza, in auto, che dal finestrino vede (è una soggettiva dichiarata) se stessa giovane con Yonosuke; e questo sguardo dall'auto che si allontana, mentre le figure si rimpiccioliscono, ha un forte senso di addio.
Il senso del ricordo e della morte è fortemente presente nel film. Non bisogna dimenticare che questo film è ispirato, sebbene non ufficialmente, a un noto fatto di cronaca - il protagonista è diventato famoso a partire dalla sua morte per un atto di eroismo nella metropolitana. Il pubblico giapponese è ben al corrente di ciò. Quindi sul presente di Yonosuke si stende retrospettivamente la morte (meno per il pubblico occidentale, naturalmente, ma lo si capisce nel corso del film). Anche per questo è fortissima nel film la dimensione del ricordo. Le ultime parole del film (l'invito della madre a Choko) parlano proprio del ricordare/raccontare (etimologicamente, commemorare). Penso che in questo senso sia significante l'immagine del ciliegio in fiore fotografata da Yonosuke alla fine del film, tanto più che vediamo i petali “nevicare” su di lui - il che ricorda tanto i fiocchi di neve di un precedente momento felice quanto il significato simbolico di quei fiori (bellezza unita a brevità: l'impermanenza) nella cultura giapponese.

The Last Supper

Lu Chuan

The Last Supper è un potente dramma storico, scritto e diretto da Lu Chuan (City of Life and Death); il montaggio, importantissimo, è firmato da Liu Yijia. Nel film si intrecciano le storie di tre personaggi, Liu, di umile origine ma destinato a diventare imperatore, Yu, il generale ribelle sotto la cui bandiera ha combattuto contro la dinastia Qin, e Xin, il cui cambio di alleanza dona a Liu il trono, ma del quale Liu non si fiderà più. Fra i tre è un intrecciarsi di tradimenti, di atti di generosità mal ripagata, di sospettose crudeltà. Dietro di loro si agitano i personaggi secondari: in primo luogo la moglie di Liu, Lu Zhi, e poi tutti gli uomini che lo hanno accompagnato nell'ascesa al potere - e con questo hanno camminato verso la propria perdizione.
L' epopea del potere e del tradimento si srotola in un intrico di tempi e di ricordi, a partire dal “racconto primo” con l'imperatore Liu vecchio e disperato, mentre si avvicina la morte e il potere gli sfugge impercettibilmente dalle mani sotto le trame della moglie: l'eccezionale attrice Qin Lan, truccata per la maggior parte del film da vecchia, disegna un'indimenticabile Lady Macbeth cinese, intensa e drammatica nei suoi primissimi piani dagli occhi gelidi.
Il tempo narrativo base, dunque, non è la gloria della giovinezza né la maturità del tradimento: è la vecchiaia, quando il potere sa di cenere - e questo è Shakespeare, nume ispiratore del film (non solo tramite Kurosawa). Non per nulla certe inquadrature del vecchio imperatore hanno una tipica costruzione da teatro-nel-cinema, con il primo piano che si articola in un primissimo piano dell'imperatore e un personaggio immediatamente alle sue spalle. L'aspetto visuale del film è stupefacente: la fotografia di Zhang Li e Ma Cheng raggiunge un livello di bellezza da mozzare il fiato, ben al di là dello “spazio largo” necessariamente concesso alla foto nei film storici; e l'equilibrio dialettico che vibra in queste composizioni è prettamente cinese.
La consegna della testa mozza del generale Xin apre la lunga partita a tre che si dipana retrospettivamente attraverso diversi strati temporali nella tessitura dei flashback. Complesso mosaico di tempi e di ricordi, il film autorizza un riferimento a Ejzenštejn - non per l'aspetto visuale ma per il montaggio, che non è semplicemente narrativo ma prettamente intellettuale. Un suono chiama un'immagine, un'immagine chiama un tempo; il processo del pensiero si svolge sotto i nostri occhi: il lavoro della memoria va oltre la normale funzione drammatica dei flashback perché ne riprende e ne sviluppa l'interiorità. Benché alla fine il quadro si delinei pienamente, pure l'impressione che la visione trasmette è quella di un caos corrusco ed onirico. Anche se molti flashback hanno spesso un contenuto oggettivo, rivelando cose che il protagonista non può sapere, la crudele confusione del mondo, che emerge dal racconto, si accorda perfettamente con la dimensione soggettiva della mente turbata del vecchio imperatore.
Da questo caos gli episodi, frammenti di passato, emergono come lampi, amplificati dalla grande bellezza visuale. Cito solo il banchetto di Yu col tentativo di omicidio, prolungata sequenza d'incubo ritmata dalla danza del guerriero armato di spada (un altro asset del film, è l'uso stupendo del suono).
Lungo tutto il film serpeggia un coraggioso riferimento al passato prossimo della Cina comunista - per esempio il fondamentale discorso “orwelliano” sulla possibilità di cambiare il passato riscrivendo la storia: il potere è anche il controllo degli archivi. Ma anche al di là della storia della Cina, The Last Supper parla, con implacabile potenza, del dramma umano.

Saving General Yang

Ronny Yu

E' ben nota al pubblico cinese l'antica storia del generale Yang, assediato dai nemici Khitai, e di come i suoi sette figli gli vanno in soccorso e poi, tutti meno uno, sacrificano la loro vita affinché l'ultimo possa portare il cadavere del padre a casa. Ronny Yu - ottimo regista a metà strada fra Hong Kong e Hollywood - la canta in Saving General Yang con aperta epica solennità. Se l'azione in una prima scena (il flashback dello scontro a due) è alquanto debole e frettolosa, ciò viene poi ampiamente compensato dal sanguinoso crescendo nel resto del film, con pagine di combattimento memorabili. Almeno una è da antologia: il duello all'arco fra due abilissimi arcieri in mezzo all'erba alta. Ma è da citare anche l'improvviso e spiazzante flashback che incrocia la morte di due dei fratelli, che precipitano in un dirupo insieme ai nemici, con un ricordo infantile, quando da bambini si erano tuffati in acqua da una rupe per sfuggire ai compagni di giochi dopo uno scherzo. E' interessante notare che nella presentazione “barbarica” dei Khitan – e per estensione quindi negli scontri – il film mostra chiaramente l'influenza de Il Signore degli Anelli.
Tuttavia, non è semplicemente sui combattimenti che Ronny Yu gioca le sue carte, bensì su tre elementi che vorrei elencare in ordine crescente di importanza. Primo, l'atmosfera morale su cui si articola il film. Quel senso del dovere (righteousness, cioè yi) intriso di sacrificio, e di conseguenza implicitamente fatale, è connaturato al wuxiapian come genere ma raramente il cinema lo esprime con tanta forza e sicurezza.
Secondo, il grande affresco pittorico. Davvero si può dire che ogni inquadratura è un quadro, grazie alla fotografia di Chan Chi Ying: incantevole composizione, senso paesaggistico, originalità delle soluzioni espressive, come quando la decapitazione dell'ostile consigliere da parte del comandante Khitan avviene in un momentaneo fuori campo entro la continuità di un carrello laterale, a causa di un monticello di terra che blocca per un attimo la visuale. In Saving General Yang la concezione “eroica” della fotografia (inquadrature a piombo ecc.) non appare mai roboante proprio perché si inserisce con coerenza in un tono alto generale.
Ma soprattutto, a rendere grande il film arrivano gli splendidi squarci sentimentali e melodrammatici in cui si spalanca il racconto (e questa non è una sorpresa, venendo dall'autore di The Bride with White Hair). Penso al “controcanto” femminile, fatto di trattenuto dolore dominato dal senso del dovere, rappresentato dalla madre Lady Yang (una splendida interpretazione di Xu Fan) - e proprio questo “controcanto” viene ripreso e riflesso dalla parte del nemico col discorso del comandante Khitan sul dolore della madre propria, un racconto che improvvisamente lo umanizza per entro la ferocia della vendetta.
Un dettaglio come lo sguardo del generale Yang alla moglie prima di partire, col suo breve controcampo, ci ricorda che è di queste cose che si fa il cinema. Il punto più alto è la scena in cui Lady Yang saluta i sette figli in partenza - una scena, per la concezione e per l'invenzione dei particolari significativi, addirittura fordiana. Così il film fonda un discorso eroico privo di revisionismi su una sensazione viva e dolorosa del prezzo umano da pagare - sfuggendo all'aspetto per così dire “ginnico” dei wuxiapian puramente avventurosi.