mercoledì 20 novembre 2013

Venere in pelliccia

Roman Polanski

Poiché un'ossessione ricorrente nel cinema di Roman Polanski è il rapporto amoroso/sessuale come rapporto di potere, e ciò connesso a un misto di attrazione e paura nei confronti della donna, era scritto nelle stelle l'incontro fra l'universo di Polanski e l'opera di Leopold Sacher-Masoch. Ecco dunque lo splendido Venere in pelliccia, tratto dal testo teatrale Venus in Fur di David Ives, che mi scuso di non conoscere. Va detto, quindi, che in tutto quel che attribuirò a Polanski in questa recensione ha parte Ives; il quale peraltro, oltre ad aver sceneggiato col regista il film, sembra concretizzare per Polanski la figura dell'autore ideale.
Siamo in un teatro off (tanto off che la H di Théâtre è caduta) di Parigi, nel quale è appena andata in scena una versione musical di Ombre rosse; gli elementi scenografici rimangono ancora sul fondo, e uno - un alto cactus fallico - avrà un ruolo nell'azione. Thomas (Mathieu Amalric, truccato in modo da assomigliare a Polanski giovane) è il classico intellettuale parigino e Wanda (Emmanuelle Seigner che di Polanski è la moglie e musa), un'attricetta senza fortuna, provano una pièce di Thomas tratta da Sacher-Masoch appunto. Wanda è arrivata tardi, zuppa di pioggia, alla selezione del cast (onde i due sono soli in teatro); inoltre è volgarissima e superbamente ignorante (di tutta questa parte divertentissima cito solo la sua immortale domanda su Venere in pelliccia: “C'entra la canzone di Lou Reed?”). Thomas accetta di provare con lei - assume il ruolo dell'amante-vittima nel testo - solo perché commosso (o meglio incastrato) dalle sue lacrime.
Ah, ma la coincidenza fra il nome dell'attrice e quello del personaggio avrebbe dovuto metterlo in guardia. Entrando nel personaggio, Wanda si trasforma completamente; anche perché quella sua paurosa ignoranza si rivela un'inquietante finzione, e lei conosce sia il romanzo sia la pièce; assume il ruolo di Wanda, la dominatrice, con perfezione assoluta (nota in margine: Emmanuelle Seigner è ottimamente doppiata da Emanuela Rossi ma vedere questo film in originale dev'essere glorioso). Lei s'intende anche di illuminazione scenica e comincia a sottomettere Thomas dirigendo la sua recitazione (“Ci metta un po' d'impegno”). Così, attraverso un gioco finissimo di accenni e di nuances, di ritirate strategiche e di cariche vittoriose, la prova diventa un jeu de massacre (completa di una situazione parodisticamente psicoanalitica). Tutto ciò è molto polanskiano invero; si riproduce il suo classico tema dei personaggi che si sbranano in uno spazio chiuso (ancor più che il recente Carnage, vorrei ricordare Cul-de-sac). Ha un ruolo importante (e come non potrebbe?) il feticismo: la servitù amorosa comincia coll'allacciare per cortesia un vestito sul dorso, culmina con i fascinosi stivali alti di Emmanuelle Seigner (comparivano già in Luna di fiele), per finire, come deve finire, con l'adorazione del piede. E' interessante notare come in questa prova nel teatro vuoto gesti e oggetti si mimano soltanto, e però lo spettatore sente i rumori degli oggetti mimati (per esempio piattino e tazzina da caffè); mentre gli unici oggetti a comparire in scena materialmente - spaventando Thomas - sono le armi: un coltello prima, una pistola poi.
Continuamente il regista e l'attrice entrano ed escono dal loro ruolo di personaggi - volutamente la dominatrice Wanda, involontariamente un Thomas sempre più soggiogato - fino a confondere le identità fisiche. Magia del teatro, questa! Che si realizza nella prima parte del film sovrapponendo i ruoli alla realtà biografica; qui l'intelligente commento musicale di Alexandre Desplat si prodiga nel far coincidere con delicata perfidia personaggio-regista e personaggio-personaggio; mentre nella seconda parte i ruoli addirittura si identificano fra loro in un gioco di scambio. E' davvero affascinante come il film illustri con minuziosa attenzione questo processo in tutte le piccole tappe, tutti i minimi particolari, con un'inesorabilità (vorremmo dire) geologica. E' un darsi, un farsi conquistare, un arrendersi totale, finché - come in un metafisico montaggio alternato griffithiano - i due percorsi convergenti arrivano allo stesso punto. L'assimilazione è compiuta, il regista è schiavo al pari del personaggio (e infatti Wanda lo ribattezza per farli coincidere meglio); ma contestualmente il gioco del dominio erotico diventa gioco di rovesciamenti fra dominante e dominato, fra servo e padrone (aveva già detto tutto il vecchio Hegel). Chi domina chi? Questo è il tema dell'amore. Il testo di Sacher-Masoch e il vissuto di Thomas (e in evidente filigrana il vissuto di Polanski stesso) esplodono rivelando tutte le loro ambiguità. Ora Wanda diventa (ingannevolmente) dominata; ed ora l'uomo diventa Wanda, truccato da donna e legato all'albero-cactus. Venere in pelliccia è un'illustrazione dell'amore in corpore vili – di una forza e una lucidità che ha pochi paralleli negli annali cinematografici.
Il romanzo di Sacher-Masoch contiene (è Wanda a ricordarlo a Thomas!) un'apparizione immaginaria di Afrodite. Sotto la regia di Wanda questa parte, mancante nella pièce, vi viene immessa, con una spiritosissima Afrodite tedesca. Ma qui bisogna fare attenzione. Da sempre il cinema di Polanski ci mostra il crollo delle nostre fragili costruzioni esistenziali, della nostra apparente realtà, sotto l'irrompere dell'assurdo. Molti sono i segni di quest'assurdo in agguato, in Venere in pelliccia (per esempio non un caso che la giacca da camera d'epoca, portata da Wanda che dice di averla comprata al mercato delle pulci, calzi a Thomas come un guanto). Wanda è Afrodite, in una circolarità perfetta fra il testo e il contesto. E il film culmina in una memorabile danza di vittoria di Wanda-Venere, nuda sotto la pelliccia, intorno a Thomas legato (quella lingua di Medusa che lei esibisce è il coronamento della violenta materialità arcaica della sua danza). E' la sconfitta del maschio per mano della donna che credeva di dominare. Wanda: “Non si prende per il culo una dea”.
Così il film si conclude e, pervertita di senso, la frase biblica “Il Signore onnipotente lo colpì e lo mise nelle mani di una Donna” compare come sigillo della storia del miserello Thomas. I titoli di coda compaiono su una lunga serie di dipinti classici di Venere, da quella di Tiziano menzionata da Sacher-Masoch a Velasquez a Cranach al sensuale accademico ottocentesco Cabanel (non ho capito perché vi sia anche una Danae: un errore?)... Venere la trionfatrice.

Blancanieves

Pablo Berger

Non fa meraviglia che Pedro Almodovar abbia dichiarato che Blancanieves è il miglior film spagnolo dell'anno: è suo! Ovvero: rientra totalmente in un'ispirazione almodovariana, a tutti i livelli: narrativo, figurativo, stilistico, persino in certi dettagli come un interesse affascinato per il coma (cfr. Parla con lei).
Questo film scritto e diretto da Pablo Berger è un neo-muto, come The Artist di Michel Hazanavicius (ma con meno finezza) e infatti ha aperto in ottobre – con scelta piuttosto discutibile – l'edizione 2013 delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone. La trama è un complicato retelling in salsa spagnola, tutta corride e flamenco, della storia di Biancaneve. La madre di Carmen muore mettendola al mondo lo stesso giorno in cui il padre, un torero, resta paralizzato nella corrida. L'ex torero sposa la sua perfida infermiera (Maribel Verdú, perfetta con quel viso da insetto predatore). La figlia cresce in casa maltrattata dalla matrigna, che tormenta anche il paralitico; questi insegna di nascosto alla figlia a toreare. In seguito la matrigna lo uccide (con un'inquadratura citazionistica hitchcockiana) e incarica il suo chauffeur, nonché amante, di uccidere Carmen. La ragazza per sfuggirgli cade in un fiume e quasi annega. Viene trovata e accudita da sette nani, che fanno uno spettacolo comico di toreri, ma ha perso la memoria. Tuttavia ricorda ancora l'arte del matador, e accanto ai sette nani diventa una donna torero famosa... Già ce ne sarebbe in abbondanza per un film, ma siamo appena a metà.
L'idea è certamente interessante, ma anche con la massima buona volontà è difficile guardare a Blancanieves come a un vero film muto; e certo non basta la sostituzione del dialogo con didascalie. Per quanto alcune immagini possano ricordare i classici, il montaggio è completamente moderno. Certo, il muto ha avuto anche altre forme di montaggio rispetto al classicismo del “grande muto” americano, e magari a queste Blancanieves è più vicino: ma citare il montaggio di Ejzenštejn in questa occasione sarebbe una bestemmia, e comunque Blancanieves non guarda affatto ad Ejzenštejn o Gance o Pabst ma segue direttamente e volutamente il linguaggio contemporaneo - senza l'ombra di quell'interesse verso lo stile d'epoca (oscillante fra i '20 e i '40, ma d'epoca) che rendeva piacevole The Artist. Allo stesso modo, è completamente contemporanea la recitazione degli interpreti.
Il motivo principale, però, per cui questo film muto non è un film muto non consiste nel montaggio bensì in un'incertezza di fondo nel regime del sonoro. Il problema sono i suoni diegetici, ossia i rumori. Un film muto naturalmente non li conteneva (se non eccezionalmente, in occasione di accompagnati complessi, come le pistolettate a salve durante le scene di battaglia nella “prima” con grande orchestra di Nascita di una nazione). Ora, la grande contraddizione di Blancanieves è che i suoni a volte entrano nella colonna sonora (il battito di mani, il graffiare della puntina del grammofono a fine disco), a volte restano muti, impliciti nell'immagine, mentre in un caso il chicchirichì di un gallo viene reso con una frase musicale. Il massimo della contraddittorietà è nella scena della prima “corrida” di Carmen (scende in campo per salvare un nano a mal partito): vi sono applausi che non si sentono e campane che si sentono nella stessa scena.
Ma qual è il valore di Blancanieves , potremmo chiederci, al di là della filologia del muto? In verità si tratta di un film piuttosto incerto e sconclusionato. Il punto è che in questa Blancanieves non solo non c'è fiabesco (e questa è una legittima scelta di partenza) ma non c'è neppure leggerezza né ironia complessiva. Così quando entrano degli elementi di umorismo - la matrigna in attire sadomaso col suo amante - pur fornendo le immagini migliori del film risultano stridenti in quanto non accordati col resto. Ora tragico ora grottesco, ora buffonesco ora mélo, ora garbato (il nano innamorato) ora volutamente eccessivo (l'infarto di Angela Molina mentre balla), il film aspira a realizzare un mélange di toni dove il modello di Almodovar è più che evidente - ma lascia piuttosto un senso di sconcertata sazietà. Per cui anche un unhappy ending che in sé non è brutto partecipa della mancanza di equilibrio del film.

domenica 3 novembre 2013

Zoran il mio nipote scemo

Matteo Oleotto

Molte commedie italiane (penso per esempio a Mi rifaccio vivo di Sergio Rubini) partono magari da una splendida idea – ma poi soffrono di fiacchezza congenita nello sviluppo. Matteo Oleotto e i suoi tre co-sceneggiatori di Zoran il mio nipote scemo sanno che il percorso da seguire è esattamente il contrario. Si può utilizzare uno schema tutt'altro che nuovo (quello del cuore di pietra conquistato dal parente/pupillo affibbiatogli ha una lunga storia che va dal muto passando per Shirley Temple fino a Cattivissimo me) perché l'importante è il modo in cui quest'idea si concretizza nella realizzazione: hic Rhodus, hic salta.
In questo Zoran è assolutamente vincente, perché ha nerbo: possiede uno sviluppo ben calibrato, un'ottima gestione dei tempi comici e una cattiveria implicita, sanguigna e vinosa, anche se finisce – com'è giusto – in affetto e in relativa gioia. Ho detto vinosa, perché il vino bianco o nero è la linfa che scorre nelle vene di questa commedia paesana. Siamo ai confini tra il Friuli orientale e la Slovenia. Paolo Bressan è un ubriacone, gran rompipalle, poco stimato da tutti. Nella superba interpretazione di Giuseppe Battiston, è un Falstaff triste. “Tu sei una persona cattiva”, gli dice uno dei suoi amici-vittima, ma qui bisogna intendersi: è una di quelle persone dalla cattiveria egoista e a suo modo innocente nella sua incoscienza (nella commedia americana le disegnava alla grande Walter Matthau). Il suo punto debole è che è ancora innamorato della ex moglie Stefania (Marjuta Slamic), e infatti di notte tira sassi al villino del suo nuovo marito Alfio (un nome che allude con buffo rovesciamento alla Cavalleria rusticana). Alfio (Roberto Citran) è anche il suo datore di lavoro e (supposto) amico; i coniugi lo invitano anche a pranzo e lui ci va, per abboffarsi, per vedere Stefania e per sgraffignare le sue mutandine che poi si mette in testa in un feticismo fai-da-te.
Alla notizia della morte di una zia slovena di cui neanche si ricordava, Paolo va in sollucchero all'idea dell'eredità (degno di Dario Fo il compianto funebre di Battiston davanti alle amiche scandalizzate della morta). Ma tutto quello che eredita è un nipote sedicenne che gli sembra scemo, di nome Zoran (per tutto il film lui lo chiama per sbaglio Zagor): con estrema riluttanza, lo deve custodire per alcuni giorni prima che vada in una casa famiglia. Interpretato dall'esordiente Rok Prasnikar in un pareggio di bravura con Battiston, Zoran è un occhialuto timido che parla - è l'invenzione più bella del film - in un italiano aulico (“Lo zio si perita di condurmi in Scozia”) appreso da due romanzi che cita a tutti e nessuno conosce. Orbene, quando Paolo scopre che “Zagor” è un campione con le freccette e non manca mai il centro del bersaglio (“Lo colpisci sempre?” - “Con estrema frequenza!”) cambia idea e si affretta a chiedere l'affidamento del nipote. Il suo piano: portarlo in Scozia, vincere il campionato del mondo e sparire con la borsa abbandonando Zoran sull'autostrada.
Di qui si sviluppa una commedia vivacissima che è allo stesso tempo assolutamente folle e assolutamente realistica. Anche a parte l'interesse dell'inedita ambientazione, è davvero rinfrescante vedere un film in cui i personaggi parlano proprio come parla la gente (la comica eccezione di Zoran è giustificata dalla sceneggiatura) e agiscono e si muovono proprio come si muove la gente nella vita. In questo senso Zoran è l'esempio di come potrebbe essere la commedia italiana – ma non è.
Un punto di forza è l'accurata definizione dei personaggi minori. Lontano dal costruire il film come un semplice vehicle per Battiston, Matteo Oleotto fa sì che, nel digradare d'importanza dei personaggi, anche i minori fra i minori si staglino come figurette memorabili (un esempio è la madre del barista Gustino col suo delirio notturno del tasso). Questa è una caratteristica che fa pensare alla commedia classica americana, che metteva il massimo dell'impegno proprio nel caratterizzare i personaggi di contorno.
Il film possiede buoni valori tecnici, a partire da un eccellente montaggio del suono. Preciso e accurato il montaggio di Giuseppe Trepiccione; c'è una vera finezza all'inizio, quando, su un discorso avvinazzato guardando in macchina, quello che sembra un raggio di luce che cade in modo caravaggesco sul vino si trasforma in dissolvenza incrociata (aiutata in postproduzione) in una strada che taglia diagonalmente l'inquadratura.
Soprattutto, come accentavo sopra, Zoran vanta una sana dose di cattiveria. Siamo nell'ambito di una commedia, e molto divertente, ma c'è un'inquietante carica di violenza latente in Paolo, una bomba umana pronta a scoppiare, che introduce nel film un elemento di autentica e stridula suspense. Vivacissimo poi è il senso del luogo. La fotografia di Ferran Paredes rende con evidenza fisica, tangibile, queste zone umide e malinconiche sotto un cielo grigio che invita al bicchiere... Epico il discorso della vecchia ubriaca sul vino Terrano di una volta che era più acido: “Io ho bevuto dei vini schifosi... che bei tempi!”

Gravity

Alfonso Cuaròn

Il 3D di solito è un acchiappa-ingenui inutile; però ne troviamo un raro caso di uso produttivo in Gravity di Alfonso Cuarón. Bisogna tener mente al fatto che il 3D non rende realmente la profondità: allontana il primo piano dal fondo lasciando in mezzo uno spazio vuoto alquanto irreale. Ma qui questa innaturale sensazione di distanza produce senso – perché fra la Terra immensa che si staglia sul fondo e i veicoli spaziali in primo l'immensa distanza è qualcosa più di fisico: è qualcosa di metafisico, ossessionante e fatale.
Così quella separazione, quella specie di apartheid dei piani visuali, introdotta dal 3D assume un senso concreto e rende drammaticamente una situazione. Che è quella di Sandra Bullock, sperduta nello spazio dopo un incidente: uno sciame di frammenti di spazzatura spaziale distrugge la sua navicella e uccide i suoi compagni (si salva con lei il suo compagno di missione George Clooney, ma poi deve sacrificarsi); e sta a lei trovare il modo di tornare a casa.
Sempre che ne abbia la forza, perché è una donna che ha un vuoto interiore (la morte anni prima della figlia piccola) e deve trovare la forza di reagire. Nella tradizione americana dello spazio come ultima frontiera, la sfida estrema per salvarsi diventa un percorso di crescita. Il senso della sua avventura si rinchiude tra due battute, da “Odio lo spazio!” all'inizio a “In ogni caso... sarà stato un grande viaggio” alla fine. Molto frequenti nel film sono le soggettive della protagonista da dentro il casco, con i riflessi e anche con il dettaglio (pseudo)realistico della visibilità delle mani in accordo col punto di visita.
Ma lo spazio diventa appunto un luogo metafisico, dove può accadere anche di incontrare (in senso soggettivo e allucinatorio) il compagno morto. Come in Solaris, lo spazio extraterrestre è il luogo in cui l'inconscio richiama in vita i morti.
Fin dal titolo, è una questione di gravità - ovvero della sua assenza. Gravity rende molto bene il trauma della mancanza di equilibrio, la perdita dell'ubi consistam, la frustrante fatica del muoversi, il terrore dell'abbrancarsi agli oggetti sporgenti mentre si passa volando vicino a una navetta, quando la forza propulsiva del minimo impulso viene mostruosamente moltiplicata. Diciamo subito che questo film non c'entra con 2001: Odissea nello spazio, se non per il fatto che il secondo episodio di 2001 fornisce alcune suggestioni visuali, che vengono reinterpretate alla luce della concezione propria del film (laddove lo spazio di 2001 era pulito, quello di Gravity è “sporco”, pieno di spazzatura spaziale, popolato di veicoli e stazioni spaziali morti e decadenti).
Mentre all'interno dei veicoli spaziali, sempre in assenza di gravità, è tutto un disordine di piccoli oggetti volanti – e questo suggerisce un'immagine di grande poesia: le lacrime che si staccano dalle guance di Sandra Bullock per galleggiare, piccole sfere di liquido, nell'aria.
Contestualmente il film rende assai bene il senso di minaccia di questa nera infinità in cui ci si perde. Perché la nostra Terra è un luogo finito; solo il mare o il deserto ci danno quell'impressione di infinità, e di infinita solitudine, che nello spazio è immediatamente presente, minacciosa e inumana. La logorrea del personaggio di George Clooney non sarà per caso anche un mezzo per colmare quest'infinita vuotezza? Gravity è un film sulla solitudine: la sua protagonista è recisa da ogni contatto umano (compreso il cordone ombelicale immateriale della voce della base terrestre, che l'incidente rende muta) – e a questo punto è di sola di fronte alla vera domanda: vuoi veramente salvarti? E' interessante che il personaggio sia piuttosto indisponente quando è in compagnia di George Clooney (anche nella sua riapparizione fantasmatica), sfiorando la caratterizzazione stereotipata della damsel in distress – mentre dà il meglio quando è sola e abbandonata. La solitudine per lei è la migliore delle cure?
Ed è interessante, in questo irregolare percorso di salvezza, il passaggio di Sandra Bullock - nella sua ricerca di salvataggio da un veicolo spaziale abbandonato a un altro - dagli USA ai russi e dai russi ai cinesi: come una trasmigrazione della tecnologia fondatrice e salvifica, che tanti anni fa era per definizione solo occidentale.
E forse si può collegare a questo il fatto che sia nella stazione russa sia in quella cinese troviamo dei simboli religiosi a proteggere il posto di “guida” (rispettivamente un'icona e una statuetta orientale), mentre di sicuro non ve n'erano nella navetta del nostro occidente “laico” e tecnicizzato.