venerdì 23 agosto 2013

In Another Country

Hong Sang-soo

Si paragona spesso, cercando un riferimento occidentale, il cinema del maestro coreano Hong Sang-soo a quello di Eric Rohmer. Ed è certamente vero per il suo amore del dialogo libero, del bavardage, che riempie i suoi film e paradossalmente quanto più è ozioso tanto più è significante. Tuttavia, un altro nome occidentale mi sembra ancor più pertinente, ed è Alain Resnais. Questo per la concezione che Hong Sang-soo ha della narrazione: una materia fluida, che ama biforcarsi e moltiplicarsi, disperdersi in rivoli di narrazioni alternative. Un gusto del racconto che ne esplora, modernamente, le infinite possibilità.
In Another Country si apre presentandoci madre e figlia che discutono tristemente sulle malefatte di uno zio acquisito che ha rovinato la famiglia mettendo nei guai la madre, che aveva garantito per lui. Per questo sono andate a rifugiarsi a Mohang, un tranquillo posto di mare senza pretese. Per passare il tempo la figlia comincia a scrivere una sceneggiatura (in quante opere di Hong Sang-soo torna il mondo del cinema!) che dovrebbe raccontare la loro storia. Ah, ma le storie hanno una loro autonomia: sotto la penna la sceneggiatura cambia strada: diventa la storia di Anne (Isabelle Huppert), una regista francese, che è in vacanza a Mohang assieme a un collega regista coreano e sua moglie. Dopo aver delineato in pochi abili tocchi cosa succede, la sceneggiatrice passa a raccontare dell'ospite successiva dell'albergo: Anne (Isabelle Huppert), una francese di Seoul sposata con un coreano, approfitta di un'assenza del marito per andare a Mohang e incontrarsi clandestinamente con l'amante, un altro regista coreano. E dopo la sua storia, tocca a quella di Anne (Isabelle Huppert), una francese che è appena stata lasciata dal marito per una coreana, ed è venuta a Mohang insieme a un'amica per tirarsi su.
Non sono tre storie successive: la pseudo-sequenza temporale implicata dalle parole “l'ospite successiva” viene smentita dalla presenza di Isabelle Huppert, con lo stesso nome, nelle tre storie, o meglio nelle tre “vite”, nonché dal ritornare di persone e situazioni. Abbiamo le tre versioni di Anne, che rappresentano la varietà delle possibilità dell'amore (l'autonomia amorosa, l'abbandono che è implicito nell'adulterio, il trovarsi abbandonata); e attorno a lei ruotano figure, dialoghi, oggetti, situazioni, che nelle tre storie ritornano e si ricombinano come in un gioco di carte - o come negli universi paralleli. E' puro Resnais la costruzione del film come gioco combinatorio (la seconda storia poi si ramifica a sua volta in vari svolgimenti nati dall'immaginazione e dal desiderio). Il sottile umorismo del film non viene tanto dalle situazioni quanto proprio dai ritorni, cioè dal gioco combinatorio stesso. Penso che si potrebbe fare un raffronto con l'architettura della composizione musicale.
Così, gli stessi personaggi ritornano nel film, in differenti variazioni a seconda delle storie - e delle scelte (Resnais encore!). I principali sono un regista che è sempre pronto a provarci con Anne quando beve; sua moglie incinta e (non senza giustificazioni) molto gelosa; e soprattutto il giovane bagnino che fa da genius loci del posto, e del film. In un film tutt'altro che magnanimo nei confronti dei maschi coreani, questo bagnino porta gentilezza, semplicità, ingenuità - e poesia (improvvisa una canzone per Anne nella prima “vita”). Attratto da Anne (in ciascuna della sua triplice versione), la corteggia goffamente alla sua maniera da cucciolo: un corteggiamento che trova uno sbocco differente nelle tre “vite”.
Il gioco dei ritorni e delle variazioni è orchestrato dal regista Hong Sang-soo con tocchi molto raffinati: per esempio, inquadrare in modo rovesciato una situazione un po' imbarazzante a tavola, nella scena del barbecue, nei due episodi in cui si presenta. Oppure, il gustoso dettaglio per cui nel primo episodio Anne trova sulla spiaggia una bottiglia di soju (il liquore coreano) rotta, nel terzo vediamo Anne, sbronza, che la butta (questo rinforza la nostra impressione di mondi paralleli – ma in fondo, scrivere una sceneggiatura, come fa la ragazza nel film, è proprio creare mondi paralleli). In tutti gli episodi ritorna come un Leitmotiv il piccolo faro di Mohang, che Anne cerca di andare a vedere (ma il bagnino non sa cosa vuol dire “faro”, e bisogna mimare). Questo aneddoto minimo ma grazioso è come un chiodo al quale Hong appende il suo quadro. E' forte la tentazione di vederci un significato simbolico (che poi si accorda con una sequenza quale l'incontro col monaco nella terza “vita”): non è forse vero che tutti noi siamo alla ricerca di un faro?
Come sempre in Hong Sang-soo i tempi del racconto sono dilatati, nel senso che sono realistici, “quotidiani”. Hong ha uno stile di inquadratura essenziale: usa il campo medio o lungo, rifugge dai primi piani. Questa moderatezza espressiva dà rilevanza agli zoom che punteggiano (sobriamente) il film. Eppure In Another Country non è un film austero. Anzi, ha un tono leggero, come d'una commedia vagamente surreale. Questo, conviene aggiungere, è il marchio di fabbrica del cinema di Hong Sang-soo, autore famoso nel suo paese ma non conosciuto in Italia. E' merito della coraggiosa Tucker Film averlo introdotto nel nostro paese con questo film, nonché con un ciclo di tre piccoli capolavori in edizione sottotitolata (Hahaha, The Day He Arrives e Oki's Movie).
Tre storie sull'amore, dicevamo, sui sentimenti e sul desiderio; ma anche sull'essere altrove (in another country) e su come questo incide sui rapporti, sentimentali e no. L'uso di due lingue - il coreano sottotitolato e l'inglese (l'italiano nel doppiaggio del film) - permette di ampliare il registro dei dialoghi sfruttando il gap di comprensione di Anne, per cui i personaggi possono passare al coreano per parlare di lei. Ma al di là di questo Hong sfrutta deliziosamente il complesso di passaggi, incertezze e rimpalli fra le due lingue: non è comico, non è neppure scherzoso, ma mantiene uno sguardo divertito. Come divertito, lucido, profondamente istruttivo è il suo sguardo sulla Corea. In Another Country inanella nel suo modo non intrusivo una serie di gustose osservazioni. Il machismo degli uomini coreani (fra l'altro il film è intessuto di richiami ad Anne, esagerati ma indicativi di una cultura, a stare attenta quando va in giro). Il loro autoritarismo come mariti e le conseguenti frizioni coniugali. Il gran gusto dei coreani per il bere (il soju nella sua tipica bottiglietta verde potrebbe vincere l'Oscar come best supporting actor del film).
Anche considerando la sua struttura, che potrebbe sbalestrare qualche spettatore, In Another Country è un film che conviene vedere due volte. Parola, ne vale la pena.

mercoledì 14 agosto 2013

Lawless

John Hillcoat

John Hillcoat è sempre stato attratto da due temi correlati: la violenza come guerra di tutti contro tutti e il mondo dei fuorilegge e degli outcast. Lo si vede fin dal suo primo (e forse miglior) lungometraggio, Ghosts... of the Civil Dead, ambientato in un penitenziario americano. In seguito Hillcoat ha declinato questi elementi nell'intelligente adattamento per lo schermo del romanzo post-apocalittico The Road di Cormac McCarthy, su un mondo in cui la civiltà è crollata; mi spiace di non conoscere il suo “western australiano” La proposta, che però è coerente con gli altri film.
Fin dal titolo Lawless, scritto dal compagno di sempre Nick Cave, riprende questa tematica. Ambientato fra i bianchi poveri della Virginia nel 1931, è una truce epopea dei bootleggers (i distillatori clandestini al tempo del Proibizionismo). Ovvero, il controcampo rurale dei film urbani di gangster, che qui fanno capolino attraverso il personaggio di Floyd Banner (Gary Oldman). Il film, tratto da una storia vera, racconta dei tre fratelli Bondurant - che una leggenda locale vuole indistruttibili - e della loro guerra contro il “vicesceriffo” Rakes (le virgolette sono opportune perché si tratta di una figura crudele e corrotta da far impallidire tutti i poliziotti corrotti del cinema americano).
Come un cantastorie Hillcoat alterna il tono epico negli scontri di estrema violenza (c'è qualcosa di Peckinpah in lui) e quello asciuttamente confidenziale nel descrivere i rapporti fra i tre fratelli, in particolare il maggiore, l'irriducibile Forrest (Tom Hardy), e il più piccolo, l'ambizioso Jack (un eccellente Shia LaBoeuf). E le loro donne: se Jessica Chastain tratteggia con dignità una figura non inedita (l'ex ballerina indurita in fuga dalla città), Mia Wasikowska nei panni di Bertha, la figlia celatamente ribelle del pastore, offre un'interpretazione vibrante, da ricordare fin dall'immagine fisica, che fa pensare a Vermeer.
Hillcoat “sente” il mondo di cui parla, mostra un'attenzione solida ai volti, ai dettagli (la festa funebre dei negri), alla messa in scena (grande la sequenza della funzione religiosa cui si introduce Jack solo per vedere Bertha). Emerge convincente il quadro di un'epoca forte e primitiva; un'epoca in cui un uomo per bene poteva sfasciare la faccia a un altro col tirapugni ma si toglieva il cappello se doveva parlare a una signora. Un paio di particolari tendono a un simbolismo un po' pesante (due galli che si battono dopo la scena in cui Jack si ribella al fratello maggiore; cavalli che corrono liberi quando Jack per la prima volta porta la sua ragazza a fare un giro sull'auto nuova); ma sono tenuti sotto controllo e presto riassorbiti nella narrazione.
Guy Pierce interpreta Rakes con una sorta di gusto iperrealista, con un'accurata odiosità, tale che il personaggio risulta un po' programmatico; poco male, se non fosse che questa accentuazione crea un contrasto con gli altri personaggi (compreso il gangster Banner, cui Gary Oldman presta una misura di ferocia e di concretezza quotidiana che lo rende molto verosimile). E' un contrasto che Hillcoat voleva evidentemente costruire, a partire dall'aspetto fisico di elegantone col farfallino, ma si ha l'impressione che gli sfugga un po' di mano.
Il film ha un epilogo nel 1940: l'era del Proibizionismo è solo un ricordo. “Quei tempi ormai sono andati”, dice la voce narrante di Jack. C'è sempre nella narrativa americana questa sfumatura nostalgica che è la ricerca del passato: che non è solo ricordo delle battaglie della giovinezza, un “meminisse iuvabit”, come sarebbe per gli europei; è l'eco di un mito di innocenza e di fondazione, pur nel dolore e nel sangue, che è iscritto nel DNA del pensiero americano. E' il suo fondo anarchico a fondare lo spirito western che attraversa il film: quando i potenti corrotti impongono la regola del pizzo ai bootleggers, l'unico a ribellarsi è Forrest: “Io sono un Bondurant e noi non ci pieghiamo davanti a nessuno”. Lawless è un film southern (connotato sul piano visivo dall'emblema stesso del Sud rurale: lo Spanish moss che pende dagli alberi), però cinema e letteratura ci insegnano che fra southern e western si possono gettare molti ponti. Ma è, il suo, uno spirito western nero e doloroso, intriso della disperazione ch'è figlia della Grande Guerra.
La fine del film, nel 1940, ci fornisce la notizia di vari matrimoni e una grande riunione rievocativa, come in Dickens. “Quei tempi ormai sono andati”. Ma se pensiamo all'anno in cui Jack ci sta parlando, il suo “Diavolo... non succede mai niente da queste parti”, che conclude il film, avrà presto una tragica smentita; tragica, e destinata a cancellare quel mondo contadino poverissimo e primitivo fra le due guerre, di cui Lawless è una dolente ma a suo modo nostalgica rievocazione.

venerdì 2 agosto 2013

Fear and Desire

Stanley Kubrick

Una pagina di Kubrick sembra particolarmente adatta per comprendere Fear and Desire, il suo primo lungometraggio, del 1953, poi rifiutato e nascosto (era già reperibile in dvd e ora è uscito nelle sale). E' in 2001: Odissea nello spazio ed è l'ellissi più famosa della storia del cinema. L'uomo-scimmia ha appena ucciso il suo avversario con l'osso che è diventato la prima arma; in un'estasi feroce lancia l'osso in aria e il suo volo disegna un movimento ascendente che si conclude con la stazione spaziale in orbita. Il tratto di tempo messo in ellissi (dalla preistoria al futuro) comprende l'intera storia della civilizzazione umana. Ovvero: tutto è nato dalla prima arma.
Quell'ellissi famosa è il manifesto del pessimismo radicale di Kubrick - che si ritrova già in questo suo primo, acerbo lungometraggio, storia di tre soldati che si ritrovano dietro le linee nemiche e devono tornare alla base. Il concetto di uno stato di guerra eterna e atemporale dell'essere umano è espresso fin dall'introduzione in voce over: la guerra che vediamo, dice, non è una guerra in particolare, è “qualunque guerra”. Più oltre un personaggio, il tenente, rifletterà che non è più vero che “nessun uomo è un'isola”, ora lo siamo tutti.
I soldati progettano dapprima di costruire una zattera per seguire il fiume; prendono prigioniera una ragazza ma non sanno cosa farne; poi progettano di rubare un aereo e uccidere un generale nemico in una casa vicina (ricordiamo che di progetti e progettatori falliti sarà pieno il cinema di Kubrick). Ora, questo generale nemico e il suo aiutante di campo - che passano le ore l'uno filosofeggiando e l'altro bevendo - hanno lo stesso volto dei due soldati che vanno a ucciderli e sono interpretati dai medesimi attori. Il concetto è: l'uomo fa la guerra contro se stesso.
Anche al di là di questa invenzione piuttosto ingenua nella sua programmaticità, la guerra in Fear and Desire assume un aspetto metafisico e kafkiano. Tutta l'azione, sotto il realismo apparente, si svolge in una dimensione come sospesa, vagamente onirica. Con un'intuizione davvero geniale, Enrico Ghezzi già nel 1977 (nella prima edizione del suo Stanley Kubrick) collegava il film all'onirismo di Doppio sogno (Traumnovelle) di Schnitzler, eterno progetto cinematografico di Kubrick, che lo realizzerà solo molti anni dopo con Eyes Wide Shut.
Il film è attraversato ossessivamente dalle voci over dello stream of consciousness dei soldati (distinto dalla voce impersonale dell'apertura); questa, come è stato giustamente osservato, è un'interessante anticipazione del cinema di Terrence Malick, che peraltro lo impiega con tutt'altra maestria. Molti particolari segnalano l'astrazione. Cosa ci fa una grande carta dell'Africa nel quartier generale del generale nemico? Non è irreale l'attacco alla casa, coi pochi soldati di guardia facilmente attratti da alcuni spari di diversione, mentre non ci sono sottufficiali e il generale e il suo aiutante restano seduti all'interno? Inoltre i protagonisti si rendono conto di avere sparato a dei loro sosia (il tenente lancia uno sguardo di realizzazione incuriosita al cadavere del generale morto) ma sembrano prenderla per una cosa normale.
Sarebbe perfino possibile l'ipotesi, visto il carattere metafisico del film, che in realtà i quattro personaggi siano già morti e sognino di combattere. Nel finale, mentre due di loro aspettano il sergente nella nebbia: "Pensa che tornerà?" - "Non lo so. Non sono sicuro neanche che siamo tornati noi". E poco più tardi: “Penso di non essere adatto per questo” - “Nessuno lo è. E' uno stratagemma che usiamo quando non vorremmo morire subito”. E' vero che nel film il sergente viene ferito e sembra morire; ma è anche vero che aveva espresso proprio il desiderio di morire in precedenza.
In Fear and Desire si ritrovano riconoscibilissime anticipazioni del Kubrick futuro. La scena in cui i quattro soldati attaccano dei nemici in una capanna per impadronirsi dei loro fucili mostra già quella capacità di mettere in scena la violenza totale e assoluta che è una delle caratteristiche della sua opera. E' già molto kubrickiano lo sguardo satirico sulle pretese di civiltà: “Cerchiamo di rimanere civilizzati”, ripete il sergente che è il guerriero più feroce di tutti. Questo ricorda Il dottor Stranamore, come pure altri particolari del film (dal cane nominato tenente alla brevità semiseria del briefing finale). La scena della prigioniera legata che lecca l'acqua dalla mano del soldato possiede un erotismo disturbante che fa pensare alle fantasie di Arancia meccanica. Quella specie di girare in tondo dei soldati, con la boscaglia che si trasforma in uno spazio concentrazionario, anticipa l'ossessione labirintica di tutto il cinena di Kubrick. Una soggettiva impossibile della donna morta anticipa quel barocchismo che pure è uno dei tratti della sua opera. Perfino quel flusso di pensiero dei personaggi (qui assolutamente disastroso) crea un cortocircuito, richiama alla memoria una pagina di Full Metal Jacket, quando il classico stilema kubrickiano del carrello indietro rivela i morti della fossa comune, sulla voce over del pensiero del personaggio (Joker): “Morti coperti di calce viva. I morti sanno una cosa sola... che è meglio restare vivi”.
La bella fotografia è di Kubrick stesso (non dimentichiamo che lui veniva dal lavoro di fotoreporter): testo a parte, le scene della zattera sul fiume sono eccellenti. Ma perché il regista rinnegò il film? A prescindere dal suo simbolismo alquanto pesante, Fear and Desire soffre di un difetto fondamentale e paralizzante: una sceneggiatura, del poeta Howard Sackler, che non è esagerato definire disdicevole. Il suo linguaggio aspira a un tono “alto”, lirico-filosofico, infarcito di frasi ingenuamente estetizzanti che che ricordano il “Mi fanno male i capelli” di antonioniana memoria. Collegata a questo difetto basilare è la recitazione disastrosa del futuro regista Paul Mazursky nel ruolo del giovane soldato traumatizzato che cerca goffamente di sedurre la prigioniera, la uccide quando lei cerca di scappare, e impazzisce. La pagina in cui cerca di far ridere la ragazza legata imitando il generale, e quella in cui delira dopo l'omicidio, sono imbarazzanti a vedersi. Kubrick letteralmente pianse sentendo le risate a un'anteprima. Ma siamo onesti, recitando un testo simile perfino Sir John Gielgud sarebbe risultato ridicolo.
Non fa meraviglia che Kubrick, regista famoso in futuro per il suo perfezionismo, non voleva che questo film fosse proiettato. Vederlo oggi è una strana esperienza. Vi riconosciamo aspetti e procedimenti kubrickiani - ma “allo stato bruto” (come scrive Michel Chion nel suo splendido libro sul maestro). Stupefacente è che già nel 1955 Kubrick firmasse un film - Il bacio dell'assassino - che si inserisce a pieno titolo, anche estetico, nella sua filmografia. Se Fear and Desire era risultato, nelle parole di Kubrick stesso, “un tentativo serio fatto in modo inetto”, con Il bacio dell'assassino comincia davvero la sua carriera.