domenica 23 febbraio 2014

TIR

Alberto Fasulo

Film estremamente rigoroso, di un minimalismo quasi ascetico, tutto proiettato sull'individuo protagonista, tutto spezzettato in piccoli momenti dell'esperienza, TIR - la nuova importante opera di Alberto Fasulo dopo Rumore bianco - si situa nella zona di transizione fra il documentario e la fiction, sempre più esplorata nel cinema contemporaneo. Il film segue Branko, un ex insegnate croato che ha lasciato il lavoro per fare il camionista per una ditta italiana: guadagna il triplo, ma la moglie a casa non è soddisfatta della nuova situazione.
L'interprete Branko Završan (un attore che ha lavorato con Bulajić, Tanović, Stoppard) ha conseguito la patente di camionista per questo film, girato in sei mesi sulle strade di mezza Europa; mentre il suo partner nella prima parte del film, Maki, è Marijan Šestak, un camionista di mestiere che qui recita se stesso, ovvero il proprio ruolo. La situazione degli interpreti - Završan a mezza strada fra attore e camionista, Šestak a mezza strada fra camionista e attore - è simbolica del carattere “doppio” del film.
Il concetto di viaggio accomuna Rumore bianco e TIR - ma nel primo caso proiettato verso l'esterno, nel secondo verso l'interno. Ovvero: in Rumore bianco l'occhio della mdp, come trascinato dal nastro trasportatore ideale che è il fiume Tagliamento, guardava direttamente l'esterno che si dispiegava alla vista; in TIR abbiamo di nuovo un nastro che scorre, la strada interminabile, ma l'occhio della mdp è tutto concentrato sul protagonista. Ciò conferisce al film un senso centripeto, laddove Rumore bianco era centrifugo. Un senso centripeto che replica l'elemento “chiuso” del lavoro dei camionisti; la durezza del lavoro occupa il primo piano (il lavoro, con la sua muta sicurezza del gesto, sembra essere un tema centrale di Fasulo: l'uomo è faber, si definisce in questa logica).
Vediamo molta strada scorrere in TIR, ma non è un normale camera-car, perché lo sguardo si porta dietro tutta la pesantezza stanca del lavoro umano: scivola sulle cose (il panorama esterno) senza fermarsi su di esse, perché quello che importa non è il paesaggio ma il movimento (o meglio, il lavoro che sta dietro al movimento).
L'inquadratura dalla cabina di guida del camion è l'elemento fondamentale del film, oscillando fra la soggettiva del guidatore e un'inquadratura da dietro le sue spalle. Per forza di cose quest'inquadratura è stretta, quasi soffocante: la dimensione della cabina di guida, questo abitacolo dove trascorrono i giorni mentre il mondo si snoda davanti e intorno al TIR, diventa l'universo di svolgimento del film.
Gli spazi alternativi sono anch'essi ristretti: i momenti della pausa, seduti accanto al camion, in un'inquadratura quasi egualmente stretta, a cucinare su un fornello o sedere a chiacchierare, magari occhieggiando una donna che passa. E quando appaiono gli spazi larghi e vuoti di un magazzino, o un ufficio, noi spettatori - condizionati come siamo dal dispositivo “magnetico” della regia - sentiamo sulla pelle quest'allargamento dello spazio, come (qui esagero per farmi intendere, ma nel senso giusto) se fosse qualcosa di sorprendente. Del resto, sono spazi così intimamente legati al lavoro che psicologicamente formano un tutt'uno con la guida in strada.
Di conseguenza, si potrebbe dire che l'unico spazio vitale che si apre realmente fuori dalla dimensione ristretta dell'abitacolo è uno spazio virtuale che si esplicita nelle telefonate di Branko con la moglie, con le loro tensioni: la gelosia per un certo Goran, il malcontento della moglie rivelato dalla proposta di un nuovo lavoro precario a scuola, un litigio sul prestito dei loro risparmi al figlio sposato che vuole comprarsi una casa.
Branko - dichiara il regista Alberto Fasulo - è ovviamente un Ulisse, un uomo che ritiene che il dovere sia più importante del piacere”. Ma è un Ulisse il cui nostos non si conclude. Ciò che invece vale per il compagno - però a prezzo di un rifiuto: Maki, che già prima minacciava di lasciare il camion per strada, infine molla: “Io non ne posso più. Sono fuori dal gioco”. Invece il tempo di Branko, il tempo del lavoro, sembra immutabile e infinito come la strada (e non mancano accenni alla perdita della nozione del tempo nel film). A partire da qui, si potrebbero fare molti discorsi sull'alienazione (che non è Monica Vitti che dice “Mi fanno male i capelli”: è qualcosa di molto più reale e concreto e drammatico).
Senza sottovalutare le costrizioni produttive e di budget, mi pare evidente che TIR si basi su un partito preso antispettacolare, sviluppato in modo estremamente coerente. Anche un episodio come quello dello sciopero dei camionisti italiani che bloccano il TIR di Branko è depotenziato come sviluppo “drammaturgico” (cioè fictional) per giocarsi tutto sulla dimensione immediata dell'esperienza. E ancora, la scena in cui i maiali vengono fatti scendere dal camion “ereditato” da Maki passa subito all'umile compito di ripulire il camion da sterco a palate. Questa posizione antispettacolare deriva da una scelta di base: non c'è nel film, nemmeno sullo sfondo, nessun “romanticismo della merce che viaggia nel mondo” (perché esso implicherebbe una visione armoniosa come nei libri illustrati per bambini di Richard Scarry: una società ordinata di animaletti sorridenti dove tutti sono felici del mestiere che svolgono) - e di conseguenza nessuna astratta eroicizzazione del lavoro del camionista. C'è solo la silenziosa, tenace, ammirevole dignità di Branko nel suo duro impegno.

(Cinemazero)

venerdì 14 febbraio 2014

A proposito di Davis

Joel & Ethan Coen

E' il 1961. Il film si apre su un microfono in primissimo piano. Si avvicina Llewyn Davis (Oscar Isaac) e canta Hang Me, Oh Hang Me. Poco dopo sarà riempito di botte da uno sconosciuto (il motivo lo sapremo solo alla fine del film). Com'è proprio dei personaggi di Joel & Ethan Coen, il suo viaggio nel mondo è un'odissea kafkiana fra i poli gemelli della bizzarria e della sfortuna, anche per colpa sua, oscillando tra incazzatura e rancorosa rassegnazione. “Tutto quello che tocchi diventa merda, come il fratello idiota di re Mida”, gli sibila l'ex amante e tutt'altro che amica Jean (Carey Mulligan).
Film pieno di musica, che ritrae a piccoli tocchi l'alba della rivoluzione folk al Greenwich Village, il magnifico A proposito di Davis è tutto un camminare nelle strade fredde senza cappotto, sbattersi in cerca di un posto dove suonare, cercare un letto a casa di parenti e conoscenti, guidare da New York a Chicago sostando in deprimenti ambienti alla Hopper, incontrare strana gente come il monumentale Mr. Turner (John Goodman), veder di raggranellare soldi perché bisogna pagare l'aborto di Jean, che insulta Davis di continuo e aspetta un bambino (forse) suo - e proprio per quello vuole abortire. E' quella vita randagia e precaria che abbiamo incontrato nelle pagine di Jack Kerouac. Gli appartamenti che appaiono nel film si aprono su corridoi strettissimi; quello che porta all'appartamento di Jean, addirittura, quasi si chiude ad angolo; difficile non vederli come un'allegoria dell'esistenza.
Non è che Llewyn Davis, cantante folk liberamente ispirato alla figura storica di Dave Van Ronk, non sia bravo: semplicemente non ha quel dono indefinibile, quello knack, che conquista il pubblico. Dice l'impresario di Chicago (F. Murray Abraham) dopo averlo ascoltato: “Non ci vedo tanti soldi qui”. E' bravo ma non è Bob Dylan; è un eterno secondo. Se Emmet Ray (Sean Penn) in Accordi e disaccordi di Woody Allen si tormentava sapendo di non essere il chitarrista jazz più bravo del mondo (veniva dopo Django Reinhardt), per il razionalista Allen c'era un motivo preciso per quella condizione (ma inutile fare spoiler). Per i fratelli Coen, invece, se Davis è uno sconfitto della vita non c'è un motivo psicologico o morale, o di levatura musicale: come tutta la triste assurdità dell'esistenza, accade e basta. Il mondo per Joel & Ethan Coen è un luogo enigmatico, sfuggente alla comprensione, sottilmente ostile - è un gigantesco nonsense. I personaggi coeniani corrono come topi in trappola di qualche perverso esperimento psicologico di Dio.
Come sempre con i Coen, è forte in sottofondo la presenza della morte. Ne parla la prima canzone che sentiamo; Davis suona da solo perché il suo partner si è suicidato; il ringhioso Mr. Turner finisce a terra in overdose nei cessi di una tavola calda e verrà abbandonato esanime in macchina; la ballata sulla regina Jane che Llewyn canta a Chicago è un lamento funebre; lo stanco passeggero anonimo del ritorno a New York dorme sul sedile come se fosse morto.
Un'opera dei Coen vuol dire un film di fortissima pregnanza delle atmosfere e delle figure. Tutti i visi dei comprimari - con quelle espressioni deadpan che nascono dalla rassegnazione all'esistenza - sono indimenticabili. Non mancano poi nel film i tradizionali “giusti” coeniani, vilipesi e illusi, ma che forse - come vuole la leggenda ebraica - sono la giustificazione dell'esistenza del modo. In A proposito di Davis sono i due amici ebrei, i coniugi Gorfein, che lo accolgono e lo sopportano nonostante il suo egoismo e le sue sfuriate.
Tra le figure memorabili del film assume una bizzarra rilevanza un gatto rosso (anzi, come si vedrà, un doppio gatto rosso). Ha un ruolo nelle tragicomiche disgrazie del protagonista, ma i Coen non lo usano come puro espediente narrativo: lo elevano a personaggio. Lo si vede dai suoi primissimi piani di sguardo; e anzi, il gatto ha diritto anche a una soggettiva di viaggio, il percorso in metrò visto attraverso i suoi occhi. Questo suo status (che, se non mi sbaglio, è una novità nella produzione coeniana) apre domande non prive di fascino. Cosa pensa questo gatto-persona del caos umano? L'universo appare confuso e ostile, oltre che agli uomini, anche ai gatti? O i gatti sono più attrezzati degli uomini per farvi fronte?
Si potrebbe sospettare di sì; il gatto, specialista in fughe ed evasioni, torna a casa da solo alla fine di un periglioso viaggio per Manhattan (e non è una sorpresa quando apprendiamo alla fine del film che si chiama Ulisse). E' vero però che la sua copia, probabilmente (la scena è volutamente ambigua), si allontana nel buio zoppicando ammaccata...
La forma narrativa sulla quale i Coen costruiscono il loro cinema è quella, ampia e distesa, del novel, il romanzo d'impianto realistico. Ciò comporta una struttura narrativa forte, che consente digressioni, le quali però devono essere ben controllate; che si costruisce su episodi rilevanti e personaggi marcati, in una tessitura logicamente connessa; che si dilata su uno spettro narrativo vasto, per cui ammette una polifonia di toni. Così, il sarcasmo coeniano si apre a volte in potenti squarci di sentimento. Per esempio: nel film i rapporti amorosi sono guardati in modo fortemente ironico (il personaggio dell'ex amante Jean), ma - quasi invisibile nel suo scorrere veloce - appare una delle scene più belle a mio parere che i Coen ci abbiano mai dato, uno splendido tocco poetico, quando Davis sta guidando nel buio verso New York e vede in lontananza le luci della cittadina di Akron, dove si è ritirata la donna più importante che ha perso, con un figlio che neppure sapeva di avere.
O della stessa pudica dolcezza è la pagina in cui Llewyn va a trovare suo padre, ex marinaio, in una casa di riposo, e canta per il vecchio muto e impassibile la canzone dei pescatori - e il vecchio volta la testa per guardare verso la finestra, cioè alla vita che è passata, con l'ombra di un sorriso.
Quando il film si avvia alla fine, compare un microfono in primissimo piano, si avvicina Llewyn e canta Hang Me, Oh Hang Me... La narrazione è tornata sull'inizio, il film si è svolto in modo circolare (che il cerchio sia la figura tipica dei Coen, lo dichiarava apertamente L'uomo che non c'era). Ora capiamo molte cose, fra cui il motivo della battuta (meritata) che si prende Llewyn. Ultima immagine: lui, a terra dolorante, lancia un “Au revoir” al suo punitore che s'invola su un taxi. E' solo un gesto di sfida, s'intende – ma in un film dei Coen quando lanciamo un au revoir alla sfortuna sappiamo quel che diciamo.

martedì 11 febbraio 2014

Lupin the 3rd - La chiave del mistero

Diego Caponetto

Il 31 gennaio 2014 è stato presentato in anteprima al Visionario di Udine il cortometraggio Lupin the 3rd – La chiave del mistero, diretto da Diego Caponetto, e interpretato, col regista nel ruolo del villain, dal gruppo cosplay friulano A.A.A. Cercasi Lupin: Tommaso Strignano (Lupin), Massimo Codutti (Goemon), Stefano Del Fabro (Jigen), Elena Ponte (Fujiko), Ettore Stramare (Zenigata).
Sebbene il termine cosplay sia nato in Giappone, ce ne sono sempre stati esempi in Occidente in occasione delle convention di fan della fantascienza e dei fumetti – e qui non si può non inserire un omaggio alla grande Angelique Trouvere, pionieristica cosplayer americana, e splendida donna, che in anni ormai lontani appariva in vari ruoli, ma è ricordata soprattutto per la sua incarnazione di Vampirella (infinitamente più sexy di Talisa Soto nel mediocre film di Jim Wynorski del 1996).
Nonostante le possibili ascendenze ludiche il cosplay non è un semplice travestimento come quelli di ragazzi e bambini a carnevale e Halloween - e non solo per il dato sociologico dello spostamento dal mondo infantile a quello dei giovani adulti. Il cosplay è travestimento, ma nel senso non del richiamo segnico bensì dell'imitazione perfezionata; mentre il costume di Halloween si limita ad alludere, il cosplayer mira a un vero raddoppiamento imitativo – anche se a volte può essere declinato in forme parodistiche. Si potrebbe dire (e vai col paradosso!) che il cosplay è il professionismo dell'amatoriale.
Questo perfezionismo del cosplayer non avrebbe senso senza la riproduzione fotografica o il filmato. L'identificazione visuale va di pari passo con l'obbligo della posa – e dalla posa alla scenetta non c'è che un passo.
Adesso parliamo di Lupin III. Sebbene il manga di Monkey Punch sia un assoluto capolavoro di humour perverso, è stato l'anime (fra tanti animatori, com'è noto, si conta anche Miyazaki Hayao) a creare una platea internazionale di fedelissimi fan. Dei motivi che lo rendono memorabile, qui ci interessa specialmente uno: possiede un gruppo di protagonisti (Lupin, Jigen, Goemon, Fujiko e il povero Zenigata) perfettamente caratterizzato, sia come aspetto sia come elementare psicologia. Questo lo rende perfetto per il cosplay. Tanto più oggi, quando gioca anche sulle corde della nostalgia (accento sulla a, per favore).
Ora, mentre se ne annuncia un altro, è stato realizzato a mia conoscenza un solo film live action, ossia dal vero, su Lupin III: Rupin Sansei: Nenriki chin sakusen (Lupin III - La strategia psicocinetica) di Tsuboshima Takashi con Meguro Yuki (Lupin) ed Ezaki Eiko (Fujiko). Esso non fa eccezione alla regola per cui i film live tratti dai fumetti tendono a intervenire, modificare, in una parola differenziare la versione cinematografica dall'immediatezza del fumetto o del cartoon; il che non è solo per ragioni spettacolari ma perché hanno orrore del concetto di copia. In altri termini, sono reinterpretazioni (è in questo spazio fra imitazione e reinterpretazione che si gioca tutto un film imperfetto ma interessante e sottovalutato quale Popeye di Robert Altman). Per un esempio deteriore recente, vedi lo sciagurato Tintin di Steven Spielberg.
Viceversa, Lupin the 3rd – La chiave del mistero è un esempio di cinema-cosplay, esattamente perché trasporta quell'imitazione perfetta di cui parlavo sopra, non reinterpretazione ma trasposizione, in un cortometraggio - che, sebbene un po' più corto dei cartoon di Lupin, rientra del tutto nella loro logica. E poiché il cosplay è un atto di amore, questo film è un atto d'amore. 
Vi troviamo un doppio livello di riconoscimento “lupiniano”. In primo luogo a livello di personaggio, ovvero recitativo e visuale. I manierismi infantili di Lupin, la saggezza fra burbera e rassegnata di Jigen e Goemon davanti alle alzate d'ingegno del loro capo, la nonchalance di Fujiko (questo capolavoro di egocentrismo femminile) per cui dipingersi le unghie è la cosa più importante del mondo, e naturalmente la frustrazione di Zenigata (grande la sua lenta bollitura nella scena post credits), sono rese con un'aderenza encomiabile.
In secondo luogo a livello di costruzione e regia. Basta vedere com'è reso bene nel film, con un uso assai abile del montaggio e del sonoro, il classico swissh della mortale katana di Goemon quando colpisce nel cartoon. C'è un ritmo sicuro nel racconto, di cui piace la franca ambizione che non arretra di fronte a sfide tecniche come l'esplosione, ben realizzata.
La sorpresa di vedere la Cinquecento gialla di Lupin sfrecciare in un paesaggio friulano rientra, dopo tutto, nella sua caratteristica di giramondo. Ha viaggiato dalla New York del più bell'episodio di Zenigata (Ispettore innamorato) alla Transilvania dei vampiri. Perché non qui?