sabato 28 giugno 2014

Jersey Boys

Clint Eastwood

Per introdurre la dimensione del racconto, una volta il cinema era obbligato a usare la voce narrante. Clint Eastwood per Jersey Boys - portando sullo schermo il musical di Marshal Brickman e Rick Elice sul gruppo rock The Four Seasons negli anni '50/'60 - mantiene della pièce un espediente che nel cinema è ben più moderno che in teatro: l'interpellazione. Ora l'uno ora l'altro dei quattro musicisti guarda in macchina e parla direttamente agli spettatori. Si può aggiungere che in Jersey Boys il regime delle interpellazioni è uno dei più belli mai visti al cinema: i componenti della band non si rivolgono allo spettatore solo in momenti di sospensione dell'azione, ciò che sarebbe comune, bensì prendendosi un attimo a parte in un'azione che continua: perfino durante l'esecuzione di una canzone.
Ciò dà al film un carattere più diretto e colloquiale della semplice voce narrante, e più “vero”. Lo si vede bene nel finale, quando i quattro protagonisti, invecchiati, si rivedono anni dopo per entrare nella Rock and Roll Hall of Fame. Qui ci rivelano la loro verità individuale, i loro retroscena psicologici; come accade sempre, ognuno ha vissuto la storia a modo suo; ognuno si gioca da solo la partita della vita. Il tragico, dice Jean Renoir ne La regola del gioco e ripete Eastwood in Jersey Boys, è che ciascuno ha le sue buone ragioni. 
La biografia è davvero nelle corde di Clint Eastwood (che qui appare giovane in tv in Rawhide). Questo perché raccontare una vita in un biopic significa immergersi nel tempo: cercare le piccole cose come le grandi, tracciare la quotidianità, disegnare la lenta spirale della crescita. Ciò è nelle corde di Eastwood perché il suo cinema racconta le cose come sono: un fatto è un fatto, un oggetto è un oggetto, e basta. E' per questo che Clint è l'ultimo dei grandi cineasti classici americani: per l'atteggiamento. Non tanto, quindi, per ragioni di linguaggio cinematografico: che, certo, è semplice e diretto, ma Eastwood non ha problemi a innestarvi soluzioni evolute come gli audaci parallelismi di Hereafter o gli incroci temporali di J. Edgar o il regime dell'interpellazione qui.
Così, nei bei colori d'epoca della fotografia del suo regular Howard Stern, Eastwood ci parla di cosa significa crescere nel New Jersey povero, dove hai tre modi per venir fuori dal quartiere: entrare nell'esercito, entrare nella mafia o diventare famoso (il solo in cui non rischi la pelle). C'è una cordialità picaresca nella descrizione di questa giovinezza di piccola malavita (con un grandissimo Christopher Walken nel ruolo del boss mafioso locale, che prende i ragazzi sotto la sua ala protettrice); Clint sa raccontare allo stesso modo la legge e l'illegalità, il ladro e il poliziotto - perché al centro del suo cinema sta sempre l'uomo nella sua interezza.
Ci racconta del rapporto da fratello maggiore/fratello minore tra Tommy, leale e prepotente, chiassoso e spaccone, e Frankie, ragazzotto impacciato ma provvisto di una voce che farà il successo del gruppo. E poi ci parla dell'inevitabilità di crescere, cambiare, veder emergere i lati oscuri degli amici, come Tommy che diventa troppo disinvolto coi soldi del gruppo: in una parola, separarsi pur restando insieme (occorre ricordare che la caratteristica degli eroi eastwoodiani è la solitudine?) in quella specie di matrimonio a quattro che è la carriera musicale di una band.
Impalpabilmente la centralità del racconto scivola da Tommy DeVito (Vincent Piazza) a Frankie Valli (John Lloyd Young), con le sue sventure familiari: la moglie ostile e alcolizzata e poi la figlia estraniata, a causa della sua vita errabonda di musicista. Sono i temi del cinema di Eastwood: la responsabilità e il senso di colpa dell'abbandono. Forse solo Clint è capace di prendere un topos del cinema sentimentale come la bambina che guarda dall'alto delle scale dopo una lite dei genitori e renderlo dolce e straziante come se fosse la prima volta che lo vediamo - dipende dal fatto che Eastwood non cita e non rifà: mostra, filma, fresco come Griffith. Per questo il suo cinema non è fatto pei filistei.
Jersey Boys è un film di una bellezza struggente. L'arte è nascosta, ma non c'è particolare che non sia decisivo; al punto che lo spettatore viene invaso da una commozione che non è di ordine narrativo (empatia verso un personaggio) bensì estetico: commozione per il fluire quieto e maestoso del racconto. Che è supportato da interpreti eccellenti, come Walken (indimenticabile quando piange ascoltando Frankie in una canzone che era la preferita di sua moglie) o Mike Doyle, flamboyant senza essere caricaturale nel ruolo del produttore gay Bob Crewe.
Clint Eastwood è un musicista, e Jersey Boys si accomuna a Honkytonk Man e Bird, stavolta in omaggio all'era del rock (con Sinatra spesso citato). Il film segue in modo realistico la formula del biopic musicale: la musica è diegetica (prodotta in campo) o appartiene alla score. Perciò è tanto più stupefacente il finale che, nato sul filo del ricordo, si allarga diventando un balletto, con la pura follia doneniana e minnelliana per cui tutti si mettono a cantare e ballare in strada – e dico tutti i personaggi, anche il vecchio boss Walken, anche l'usuraio Donnie Kehr. E così abbiamo visto qualcosa che non ci aspettavamo di vedere: il musical eastwoodiano.

venerdì 13 giugno 2014

Edge of Tomorrow - Senza domani

Doug Liman


La prima lettura è quella che più o meno hanno fatto tutti: Edge of Tomorrow – Senza domani, dove Tom Cruise continuamente muore e rinasce nella sua battaglia contro gli alieni, è ispirato ai videogiochi. Ma non è del tutto vero: gli eroi dei videogiochi hanno più vite da consumare, ma in numero finito, quindi il loro span di vita è un segmento, come il nostro. Sarebbe più pertinente citare il Walhalla vichingo, dove i guerrieri morti passano il tempo a combattere per divertimento, e i caduti rinascono il mattino dopo (oltre a quello, banchettano con un cinghiale inesauribile, idromele e birra. Se ci si aggiunge il sesso, diventa un’idea di paradiso più che attraente). Ma il bel film di fantascienza di Doug Liman ha una fonte d’ispirazione meno mitologica e certamente più probabile. E’ la commedia fantastica del 1993 Groundhog Day (Ricomincio da capo), di Harold Ramis, in cui Bill Murray, invece di passare da un giorno a quello seguente come tutti, si trova a rivivere infinitamente lo stesso giorno, e così lentamente diventa un uomo migliore.
Succede lo stesso al soldato (e ufficiale degradato) Tom Cruise in Edge of Tomorrow. Il contesto: da anni la Terra è sotto attacco da parte di invasori alieni che si sono già impadroniti dell’Europa. Ora siamo alla vigilia del contrattacco che partirà dall’Inghilterra con uno sbarco in Normandia.
Ricorda qualcosa? Sì, lo sfondo narrativo del film si concede un paio di riferimenti alle due guerre mondiali, la seconda (il sanguinosissimo sbarco in Normandia) come la prima (l’“Angelo di Verdun”). Si potrebbe aggiungere che questa prima parte, in particolare la battaglia, è così ben realizzata che quasi dispiace che lo sviluppo del racconto ci porti altrove. Fatto sta che Tom Cruise (arrestato per tentata diserzione e scaraventato senza tanti complimenti nel carnaio) viene subito ucciso. Ma siccome il suo sangue si è mischiato a quello di un alieno di grado superiore, un Alfa, ciò gli trasmette la dote dell’Omega, la mente-capo degli alieni, che li rende invincibili: la capacità di “resettare” il tempo, ricominciando a ripetizione la stessa giornata per imparare dall’esperienza ed evitare imprevisti. L’unica speranza per la Terra è trovare l’Omega e distruggerlo di sorpresa. Il film si dipana sui tentativi del protagonista, contro tutto e contro tutti (poiché nessuno gli crede) - coll’unico aiuto di una soldatessa che ha vissuto la sua stessa esperienza, una convincente Emily Blunt tough as nails.
Insomma Tom Cruise è sottoposto a un continuo reset. Il film delinea assai bene questo (quasi!) inedito procedimento “per prove & errori”; un lato bizzarramente umoristico è che, all’inizio, la sua partner e “allenatrice” gli spara in testa ogni volta che si persuade che “è meglio ricominciare”. Ora, questa impostazione concettuale offre spazio per un paio di riflessioni che vanno oltre il carattere assai piacevole, e anche emozionante, del film.
La prima: in realtà Edge of Tomorrow mette in scena un reset doppio. Non dimentichiamo che Tom Cruise all’inizio del film è un vigliacco. Il reset temporale che rappresenta l’argomento del racconto è anche la strada per un reset morale del protagonista. Lo si vede bene quando il classico sergente di ferro, prima della battaglia, intona “Domani mattina verrai battezzato, rinascerai” (lui intende, nel fuoco del combattimento – ma accadrà ben di più). Il che conferma un’arcinota riflessione teorica sul rapporto fra personaggio e star nelle sceneggiature: il personaggio è un insieme di tratti caratteriali e morali, ma anche il divo, come persona cinematografica, lo è; quando questi due fasci di tratti sono divergenti all’inizio del film, il prosieguo farà evolvere il personaggio in modo da avvicinarlo progressivamente ai tratti della star. Qui Tom Cruise cresce da vigliacco a eroe. “Sei un uomo in gamba”, gli dice Emily Blunt prima dello scontro finale – a sancire la raggiunta coincidenza tra il personaggio e l’immagine del divo di Mission: Impossible.
Ma ancora più intrigante è l’idea stessa che sta alla base di Edge of Tomorrow. Se il protagonista può superare gli ostacoli, è perché infinite volte ci è caduto ed è morto. Il suo progresso passa attraverso innumerevoli ripetizioni della giornata per arrivare al punto X in cui può apprendere (morendo) come sopravvivere un minuto oltre, e così via.
Però, quello che realmente è spaventoso non è la ripetizione delle morti: è la ripetizione delle vite. Ogni volta il protagonista (come Bill Murray in Groundhog Day) deve risvegliarsi al mattino nello stesso momento e, per arrivare al punto di svolta, rivivere penosamente, interminabilmente, ogni secondo di esistenza già passata. Una descrizione dell’inferno, o almeno del purgatorio, che interesserebbe a Jorge Luis Borges.  
Ma naturalmente questo non si vedrà sullo schermo in Edge of Tomorrow. Se già nell’ordinario il cinema sopprime i tempi morti, figuriamoci in un racconto basato sul delirio della ripetizione infinita! Così nel film tutto l’ammasso doloroso e inconcepibile del tempo rivissuto va in ellissi. Il cinema comprende l’ellissi - la vita no. Se l’inferno attraverso cui passa Tom Cruise ci spaventa al cinema, il nostro coraggio vacilla a immaginarlo nella sua realtà.

martedì 3 giugno 2014

Map to the Stars

David Cronenberg 

I morti si mescolano ai vivi nella Hollywood cronenberghiana di Map to the Stars. Li visitano, li avvisano, li beffano, si lamentano (“Sai cos'è l'inferno? Un mondo senza narcotici”). Se Havana (Julianne Moore) riceve dal suo terapeuta una formula psicologica per eliminare le sue “allucinazioni” della madre morta, non serve, perché la madre le scodella con sarcasmo le parole che lei dovrebbe dire. E' impossibile scacciare i morti – perché conoscono già le armi che useremo contro di loro.
Ma sono allucinazioni o fantasmi veri? In realtà la domanda non ha molto senso nel cinema di David Cronenberg, in cui l'universo coincide con la mente: l'unica risposta possibile è paradossale: sono allucinazioni di fantasmi veri. Cronenberg e lo sceneggiatore Bruce Wagner inseriscono un paio di indizi risolutivi: Havana apprende dalla madre una cosa che non poteva sapere (e infatti dice, con più ironia di quanto creda, “Prendo le mie informazioni da una morta”); più tardi, Benjie vede nella piscina assieme al fantasma di una ragazzina che conosceva quello del bambino Mika, e a differenza dello spettatore non sa chi è.
Havana è ossessionata dal ricordo della madre, star del cinema, che lei odia per uno stupro lesbico incestuoso subito da bambina (però il fantasma lo nega). Val la pena di ricordare che di odii madre/figlia è piena la storia di Hollywood, il più famoso essendo quello della figlia di Joan Crawford. Adesso la star è Havana, un misto di nevrosi, fragilità e malignità, sull'orlo del declino per l'età che avanza (grande interpretazione di Julianne Moore, che in questi tempi di moralismo plumbeo non si tira indietro di fronte a niente, nemmeno le scorregge onscreen). Il suo sogno è di interpretare sua madre nel remake di un vecchio successo di lei, del quale vediamo un paio di scene in b/n (ispirate, se non erro, a Lilith di Robert Rossen).
La sua storia s'incrocia con quella di Benjie (Evan Bird), divo-bambino tredicenne in disintossicazione dalla droga, scostante e disperato, segnato da un trauma: anni prima la sorella maggiore Agatha - che aveva l'ossessione di giocare con lui al matrimonio - cercò di ucciderlo e diede fuoco alla casa. Il terzo personaggio è proprio Agatha (Mia Wasikowska), che è stata dimessa dal manicomio ed è tornata segretamente a Hollywood, sfregiata dal fuoco, per cercare di riannodare fila che non vogliono essere riannodate. L'ignara Havana la assume come assistente personale, ma preferisce dire “schiavetta”: a un certo punto seduce l'amante di Agatha (Robert Pattinson) per puro dispetto e gusto del potere sessuale. Cronenberg ritorna sempre sui suoi temi: nella curiosità sbavante di Havana che chiede al giovane com'è far sesso con Agatha, col suo corpo segnato dalle cicatrici, ritroviamo l'ombra di Crash.
I segreti uccidono”: il titolo del bestseller scritto dall'egoistico padre di Benjie nonché terapeuta di Havana (John Cusack, dai memorabili occhi opachi) ci fa capire cosa sta alla base del film: la memoria. Non è per caso che quando Agatha in un incontro/scontro strappa la fede dal dito della madre la lascia col dito insanguinato. Il passato scortica.
E' un film di persone lacerate dalla loro memoria; il che ci riporta all'universo hollywoodiano ricostituendo uno dei suoi generi costitutivi, il melodramma. Con Map to the Stars Cronenberg ci dà la sua versione (vale a dire, contorta e mutante) del mélo alla Douglas Sirk.
Sbaglia dunque chi ha visto nel film una semplice diatriba contro Hollywood. Certo, Cronenberg e Wagner fanno propria la ben nota ostilità di Carrie Fisher, che compare nella parte di se stessa, in una minacciosa inquadratura dal basso. Hollywood fornisce al film quell'atmosfera di egocentrismo malato che lo permea, e che peraltro si può trovare anche altrove; chiedete al Martin Scorsese di The Wolf of Wall Street; ma Cronenberg non poteva mica replicare il mondo del suo Cosmopolis, al quale fa un riferimento con humour quasi tarantiniano a inizio film, con Robert Pattinson appoggiato all'auto (però stavolta è l'autista!).
Questo, però, è l'involucro. Soprattutto, Hollywood è lo sfondo perfetto per un film di Cronenberg perché Hollywoodland è Dreamland, un mondo mentale, in cui la vita reale si intreccia e confonde con la fiction; un luogo di fantasmi creati per lo schermo; e di tutte queste creazioni la più fantasmatica è il remake, l'evocazione del passato che si incarna in altri corpi... E allora che dire dell'ossessione di Havana, l'operazione spettrale/incestuosa di replicare in se stessa il corpo della madre?
Noi siamo fuoco e lui è acqua”, esulta crudelmente Havana quando la morte del bambino annegato in piscina, figlio di una rivale, le apre la strada verso la parte bramata. Acqua e fuoco sono gli elementi ritornanti del film. Acqua: quante piscine hollywoodiane compaiono in Map to the Stars! Sembrano quasi un tratto di passaggio fra questo mondo e l'aldilà. Fuoco: un incendio ha ucciso la madre di Havana, un altro doveva uccidere Benjie e ha marchiato Agatha. Gli snodi della storia - fantasmi, incendio, incesto - non appartengono a un personaggio in opposizione caratterizzante agli altri, bensì a tutti, si intrecciano e si confondono. Map to the Stars è un film apparentemente lineare e invece multiplo, incrociato, più vicino in realtà a Il pasto nudo che ad altre opere cronenberghiane; la sua narrazione ricorda David Lynch. Su tutto risuona in modo ossessivo la poesia di Paul Eluard Libertà - che è già di per sé ossessiva, non per il suo contenuto ma per la sua struttura, giocata tutta sulla ripetizione. Ma questa libertà coincide con la morte.