sabato 10 gennaio 2015

American Sniper

Clint Eastwood

Clint Eastwood viene dal western, e il western se l'è portato dietro per tutta la sua sfavillante carriera. Ora, cos'è che caratterizza il western? C'è chi dice questa cosa e chi quest'altra, chi dice i cavalli (horse opera) e chi i cappelloni dei cowboy, ma a parere di chi scrive è il fatto che tutti portino la pistola bene in vista nella fondina. Ovvero l'ostensione della possibilità di ciascuno di dare la morte, e la responsabilità di farlo o non farlo. L'uomo per bene non spara per primo - ma quando il male alza la sua brutta testa, tira fuori la pistola e lo manda al cimitero, a Boot Hill.
E' la semplice e onesta morale americana (che penetra con effetti letali nel putrido corpo di Osama Bin Laden in Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow). Ed è la morale dello splendido American Sniper di Eastwood, la storia autentica del tiratore scelto Chris Kyle, ottimamente interpretato da Bradley Cooper (come avrebbe potuto interpretarlo Clint da giovane).
Guarda cosa ci hanno fatto”, dice Chris a suo fratello guardando in televisione la strage islamica alle sedi diplomatiche americane in Kenia e Tanzania. E' il male (un termine che ricorre più volte nel film) che alza la testa. In una scena degna del cinema degli anni d'oro di Hollywood, il padre di Chris gli ha dato, da bambino col fratello, questa lezione di vita: esistono tre tipi di uomini, le pecore, i lupi e i cani da pastore; “in questa famiglia noi non alleviamo pecore e io vi ammazzo a cinghiate se diventate dei lupi”. Restano i cani da pastore: quelli che si battono contro il male. E' per questo che Chris Kyle si arruola nei Navy Seals (l'addestramento con gli istruttori cattivissimi è un ricordo di Gunny).
Questo recensore l'ha ripetuto più volte: Clint Eastwood ha una profonda somiglianza con Howard Hawks, non solo per la nettezza del racconto, del dialogo e della morale. Alla base del cinema di Hawks sta la figura dell'uomo che sa fare il proprio mestiere (pagandone il prezzo, certamente: c'entra con l'ossessione ma soprattutto col rapporto con la donna). Il cinema di Eastwood come quello di Hawks è un cinema di eroi; e l'eroe hawksiano come quello eastwoodiano è un professionista.
Così Chris, che è un ottimo tiratore, diventa il più grande sniper (cecchino) della storia dell'esercito americano. Breve digressione: è interessante notare che all'inizio del film vediamo il suo occhio magnificato nella lente del cannocchiale del fucile ma Eastwood non sfrutta quest'immagine, proprio come le soggettive del mirino sono assolutamente neutre; manca in Eastwood qualsiasi tipo di forma metacinematografica: per lui il racconto è il racconto e basta.
Siamo dalle parti di Hawks anche nel corteggiamento di Taya (Sienna Miller). Com'è un corteggiamento hawksiano? E' un corteggiamento adulto fra due adulti – dove ciascuno sente l'altro come suo pari. Nel presente film, comincia con reciproche battute nette e “maschili” e diventa una gran bevuta di whisky – finendo con lei che vomita e lui che le sorregge la fronte (sublime, concludere col vomito una scena di innamoramento! Chi altri avrebbe osato farlo?).
Eastwood non è un ingenuo. Sa bene che la guerra ti divora. Non è solo la dolorosa “deformazione professionale” che produce, per cui vediamo Chris, anche a casa in America, sobbalzare a ogni rumore imprevisto o sussultare con improvviso sospetto quando un furgone lo sorpassa in modo spericolato. C'è di più: c'è la tendenza a perdersi nel vortice della guerra come unica esistenza (nel film la guerra viene paragonata alla fiamma per la falena). La guerra come ossessione. In una scena superba vediamo Chris davanti alla tv che guarda – ce lo dice il sonoro di esplosioni – una delle sue registrazioni di combattimenti; ma poi il movimento della mdp inquadra il teleschermo rivelandoci che è spento: quello che sentiamo è un sonoro interiore. E' notevole, su questo aspetto, la somiglianza di American Sniper con The Hurt Locker di (altra menzione) Kathryn Bigelow; solo che là c'era la solitudine, qui il mondo degli affetti, la famiglia (ed è, questo, un tema fordiano). La moglie e i figli oppure i compagni di battaglia, che contano sulla protezione della sua mira infallibile? Nell'angoscia di Chris il film esprime ancora una volta il concetto molto eastwoodiano della responsabilità.
Anche quando sei qui tu non ci sei”, gli dice la moglie Taya - il concetto è ripetuto più volte, è una linea rossa del film. E' una scissione che troverà una risoluzione alla fine col ritorno di Chris alla famiglia (lo annuncia simbolicamente l'immagine del suo fucile da sniper lasciato a terra durante una ritirata precipitosa in una tempesta di sabbia). I legami si riannodano; la moglie gli dice che è un buon padre... “e sono felice di aver ritrovato mio marito”.
Questo non è un film a lieto fine. Dopo il suo ritorno Chris Kyle si dedicò ad aiutare i mutilati di guerra, e fu ucciso da un un reduce con problemi psichici che accompagnava al poligono di tiro su richiesta della madre. Stupenda l'ellissi sulla morte. Vediamo fuori dalla porta il pazzo bastardo, che ha già in questa prima e unica apparizione un'aria da assassino – stacco al viso di Taya improvvisamente turbato – ed entra un “nero” con la semplice didascalia che annuncia l'uccisione, nella forma dei “destini” che concludono molti film.
Ma qui il film prosegue: entrano – sulle note del Silenzio di Ennio Morricone – le immagini autentiche dell'ultimo viaggio di Chris nella bara, con la gente che si assiepa lungo le strade e sui viadotti per salutarlo agitando bandiere americane. Al fondo del cinema di Eastwood sta la morte, proprio perché è un cinema della realtà della vita, e al fondo della vita sta la morte, che vince sempre. Ma non c'è in questo ombra alcuna di decadentismo. Quello che importa per Eastwood è l'amore (di una donna, di una famiglia o di un'intera comunità) che ci si lascia dietro.
Così Eastwood congiunge la lezione di Howard Hawks e quella di John Ford in un altro film indimenticabile.

giovedì 8 gennaio 2015

Big Eyes

Tim Burton

Può sembrarci strano Big Eyes di Tim Burton, abituati come siamo a pensarlo come un regista del fantastico puro. Tuttavia si inserisce in modo logico nella sua filmografia.
Il film parte dell'immagine-base burtoniana: due file di casette unifamiliari disposte a specchio, ciascuna col loro prato e vialetto, lungo un viale assolato. E' il “mondo congelato” di Burbank dove Burton ragazzino ha vissuto un'infanzia di malinconici sogni; ed è l'immagine da cui partono i suoi film, nei quali si esce da quel viale di villette borghesi alla ricerca di un altro mondo: in senso spirituale (Frankenweenie) o materiale (Edward mani di forbice - che insegna che, se quell'altro mondo vuoi portartelo a casa, finisce male). Orbene, l'andarsene da quel vialetto è la prima cosa che vediamo fare a Margaret in fuga da un marito “soffocante” che in Big Eyes non vediamo mai.
Certo, l'uscita dal “mondo congelato” burtoniano di solito apre a un'avventura fantastica. E qui? Beh: anche qui. Perché la storia (vera, come i quadri) dei coniugi Keane è una di quelle in cui la réalité dépasse la fiction. Lei va a San Francisco e conosce l'affascinante Walter Keane, pittore alla Pissarro e gran venditore (di case, di quadri, di se stesso). I dipinti di Margaret – bambine dai grandi occhi – hanno molto più successo di quelli di lui. Walter, che in realtà non ha mai dipinto nulla, si appropria dei quadri di Margaret (firmati semplicemente Keane) con un misto di bugie, di pressione psicologica pavloviana e anche di minacce. Questo dura anni; con la crescita del successo diminuisce inversamente l'autonomia della pittrice, ridotta a ghost-painter del marito. A un certo punto lei in un supermercato comincia a vedere tutte le donne coi grandi occhi dei suoi quadri (è l'immagine più tipicamente burtoniana del film).
Non è una boutade ispirata dal titolo se dico che Big Eyes ricorda Big Fish. Quest'ultimo rappresentava il potere assoluto dell'affabulazione; Big Eyes presenta al proprio interno un esempio di affabulazione leggendaria altrettanto riuscita e nel personaggio di Walter (un ottimo Christoph Waltz, con la sua dentatura da predatore e una capacità alla Barry Lyndon di autoconvincersi delle proprie illusioni) una creatura assurda non meno fantastica – benché non mitica – di quelle che popolavano Big Fish.
Qui, ahimè, casca l'asino. Sul piano psicologico la sceneggiatura di Scott Alexander e Larry Karaszewski non è all'altezza dell'assurdità della vicenda. Se Waltz delinea con la sua solita impressionante sicurezza un ritratto perfetto di parassita, il personaggio della pur brava Amy Adams non si lascia sentire “a pelle”. Come si può essere così stupidi (arrendevoli, se preferite) per lunghi anni? Il film nella sua parte centrale non risponde in modo convincente, benché a un certo punto ci provi con una voce narrante esterna (un giornalista) usata in modo alquanto goffo. E' vero che nel cinema di Burton i suoi personaggi-bambini sono incapaci di difendersi dal mondo, ma prima Margaret ci aveva fatto l'impressione opposta. Rimane nel tessuto del film una “zona bianca”; né Big Eyes ha il minimo intento di creare una figura dostoevskiana per cui questa stessa domanda irrisolta diventi il punto focale. In ogni modo, tutto è bene quel che finisce bene: c'è un processo (delizioso James Saito nel ruolo del giudice) e la verità e i diritti vengono ripristinati.
Big Eyes è peraltro molto interessante anche per un aspetto che va al di là di questa vampirizzazione artistica. Intanto, diciamolo subito fuori dai denti: quando un critico (Terence Stamp), un gallerista e un'intenditrice concordano nell'esprimere un giudizio assolutamente negativo sui dipinti “dai grandi occhi” firmati Keane, hanno perfettamente ragione.
Questi quadri sono poco più su dei terribili clown che sono la progenie maledetta dei pittori della domenica. La verità è che Margaret Keane ha inventato un modulo estrinseco e l'ha applicato a stampo (a un livello indubbiamente più alto, è lo stesso problema dei ciccioni di Botero). Come dice Terence Stamp nel film, è grafica, non pittura. E che Margaret non raggiunga mai un livello pittorico alto lo mostra il fatto che quando, in segno di protesta e indipendenza, cambia stile, produce dipinti mediamente migliori ma dipende fortemente da Modigliani. Osservazione personale: senza esigere Francis Bacon o Lucian Freud, quanto è più bello l'accademismo muscoloso e pompier di Frank Frazetta o Boris Vallejo!
La parola “grafica” ci aiuta a capire il senso profondo del film. La perversa genialità di Walter non mira a fondare un impero sulla vendita dell'originale bensì della riproduzione. Direbbe Benjamin che in questo caso la riproducibilità è tanto più facile in quanto l'aura di questi quadri di basso valore artistico è trascurabile. Quanto Burton sia consapevole di questo nodo centrale lo mostrano in modo indubitabile i titoli di testa (il film poi mette in epigrafe una colossale sciocchezza di Andy Warhol).
Anche se il parere di Burton sull'artista è positivo, e in passato le ha commissionato un ritratto della compagna Lisa Marie (peraltro una delle sue opere migliori), Big Eyes è anche una riflessione pacatamente ironica non sull'arte ma sulla sua riproduzione a livello di massa; non la riproduzione come copia del dipinto ma il dipinto come base per la sua riproduzione; e allora abbiamo il gioco di specchi di una menzogna che viene riprodotta in milioni di esemplari – ovvero la menzogna che possedere un poster di Keane significhi possedere un Keane. L'inganno nell'epoca della sua riproducibilità tecnica.

domenica 4 gennaio 2015

L'amore bugiardo - Gone Girl

David Fincher

Il destino avverso e implacabile è l'ingrediente costitutivo del noir: il mondo come macchina spietata fatta per travolgere il protagonista - estrema evoluzione, rimpicciolita e involgarita, dell'ira deorum del mondo classico. Questo destino può prendere l'aspetto impersonale della coincidenza (che è appunto il nome moderno che diamo al Fato), e di questo l'esempio cinematografico più estremo e delirante è il capolavoro Detour di Edgar G. Ulmer. Oppure può prendere l'aspetto di una macchinazione invincibile in cui una mente superiore – mastermind – procede freddamente a tessere la ragnatela che avviluppa la vittima. Guarda caso, proprio il gioco da tavolo Mastermind (sfida fra un codificatore e un decodificatore) appare sottobraccio a Nick (Ben Affleck) quando si presenta al bar di sua sorella Margo (Carrie Coon) all'inizio de L'amore bugiardo – Gone Girl di David Fincher, per lamentarsi con lei di sua moglie Amy (Rosamund Pike). E' un piccolo tocco metanarrativo, e ve ne sono altri nel film; per esempio, è difficile non pensare che quando i due coniugi si dicono “Quanto siamo belli: da prenderci a pugni in faccia” non vi sia un'allusione a Fight Club. I film di David Fincher sono in generale metafore dell'angoscia sottesa ai rapporti sociali (o alla condizione esistenziale: Seven), e anche qui la condizione di Fight Club, la follia (auto)distruttiva per rispondere a un'oscura carenza che si avverte sotto la patina del successo, si ricrea nella “coppia perfetta” di Nick e Amy. Si potrebbe anche dire che il loro è un fight club di fantasmi – nel senso che sono due finzioni entro un gioco di finzioni. Amy è (invenzione geniale di Gillian Flynn, sceneggiatore dal proprio romanzo) il modello di un'Amy ”vera” che è falsa: la Amazing Amy sulla quale i suoi genitori hanno pubblicato una serie di libri illustrati per ragazzi, dove tutto quello in cui l'Amy reale non riusciva a eccellere (il violoncello, la pallavolo) si sublimava nel successo dell'Amy immaginaria. Onde l'Amazing Amy della realtà si rispecchia nell'Amazing Amy della pagina scritta, fictional fin dall'allitterazione; e vive con rabbia coperta lo iato fra la sua concretezza e la sua immagine trasposta. Quanto a Nick... Nick è un burino del Missouri (ci vuole coraggio a Hollywood per disegnare un protagonista scopertamente mediocre e apertamente antipatico) che Amy per farsi amare ha trasformato in una figura altrettanto immaginaria, e il poveruomo è rimasto incastrato dentro la finzione, e ci si contorce come un verme sull'amo.
Questa sorta di anti-mélo non è l'argomento patente bensì lo sfondo del thriller: in cui (lo sappiamo, vero, che di questo film non si può parlare senza spoiler?) Amy riesce a mostrarsi veramente amazing sul solo terreno sul quale il suo doppio di carta non poteva avventurarsi, quello del crimine. Il tutto con un contorno di notazioni passabilmente sarcastiche sulla civiltà mediatica.
Sul piano del racconto, L'amore bugiardo – Gone Girl (quando il titolo inglese è complicato i geniali distributori italiani lo mantengono; quando è icastico e facile, lo cambiano) si appoggia su un elegante, efficace gioco sulla focalizzazione e sullo statuto dell'immagine. Ancora una volta, seguendo la lezione di Hitchcock in Paura in palcoscenico, David Fincher ci mena per il naso sfruttando l'antica superstizione della realtà delle immagini – e ricorda alquanto quel che aveva fatto Bryan Singer ne I soliti sospetti. Il film si articola nella prima parte, prevalente in lunghezza, su due piani: il “racconto primo”, con Nick che si trova di fronte alla scomparsa della moglie (proprio nel giorno dell'anniversario, in cui era tradizione che lei gli preparasse una “caccia al tesoro” con indizi in rima), e la visualizzazione del diario di Amy, che ci racconta l'antefatto – tutt'altro che edificante circa il personaggio del marito – della loro vita matrimoniale. Ora, noi spettatori siamo talmente attaccati al concetto che quanto vediamo sullo schermo sia “ciò che accade” che le sequenze in flashback del diario di Amy ci arrivano con una perentorietà fattuale pressoché uguale alla narrazione al presente focalizzata su Nick. Si crea un gioco psicologico per cui noi sospettiamo con facilità (come Fincher e Flynn vogliono) di Amy in relazione alla sua scomparsa - ovvero in relazione al racconto primo - ma ci beviamo come acqua fresca la visualizzazione del diario. C'è qualcosa in questo, per l'appunto, connessi a una superstizione dell'immagine; ben difficilmente cadremmo in questa ingenuità se leggessimo degli excerpta di diario in un libro.
Va aggiunto che l'alternarsi delle due linee narrative è gestito dal film con estrema eleganza (onore al montaggio di Kirk Baxter), coi flashback che dialogano col racconto primo in una logica di risposta e opposizione creando una vera tensione drammatica. Non per la prima volta si può osservare che l'eccellenza estetica si traduce in veridicità narrativa. Nella seconda parte, il racconto si biforca in due linee indipendenti relative alla (ex) coppia, con l'effetto di una moltiplicazione del gioco di specchi deformanti che costituisce l'essenza del film.
Ma quel che dà al film il suo carattere più profondo e angoscioso, e lo eleva all'altezza di grande noir, è la conclusione. Che non occorrerà qui descrivere (dopo aver spoilerato tutto il film, lasciamo almeno questo brandello alla fame dello spettatore che non l'abbia ancora visto); basterà dire che la domanda finale di Nick sul futuro ci lascia con un'impressione molto disturbante (del tutto fincheriana): che la continuazione ideale del film, quella parte di vita dei protagonisti che non conosceremo mai - a meno dell'ambigua e insoddisfacente soluzione del sequel - sia non meno impressionante e tragica del film stesso.

Othello

Orson Welles

Vi sono due misteri nell'Otello di Shakespeare, dal quale Orson Welles ha tratto lo splendido film che ci mise tre anni a girare (1949-51), costruendolo a pezzi e bocconi ogni volta che trovava finanziamenti.
Il primo mistero, naturalmente, è Iago: nella sua azione velenosa su Otello quel che ci spaventa è la sua irriducibilità a un motivo. Possiamo razionalizzarla in tanti modi, dall'ambizione frustrata all'impotenza sessuale che Welles suggerì all'interprete Micheál mac Liammóir (senza però insisterci troppo); ma sempre ci scontriamo con quelle sue terribili parole della conclusione: “Demand me nothing; what you know, you know”.
Con un impiego geniale del profilmico, architettonico e scenografico, Welles rende meravigliosamente la rete mentale in cui Iago imprigiona Otello e tutte le sue vittime. E' un film frammentato tanto sul piano del montaggio quanto sul piano visivo; l'inquadratura è frazionata e sovente imprigiona i personaggi in grate, losanghe, sbarre.
E appunto il secondo mistero è Otello. Come può un uomo “del mondo esperto” come il Moro farsi impaniare con tanta facilità? Certo, Welles nel famoso libro-intervista a Peter Bogdanovich (Io, Orson Welles, Baldini & Castoldi, Milano, 1966) dice: è un soldato, non conosce le donne. Sì, ma questo soldato, moro, da schiavo è diventato generale veneziano; fosse così facile da ingannare, sarebbe caduto rovinosamente molti anni prima. Se è lecito scherzare su materia così grave, e non si rivolti il Bardo nella tomba, quando ci offendono le sventure di Desdemona ci vien da dire che la tragedia, meglio che Othello the Moor of Venice, avrebbe potuto chiamarsi Othello the Moron of Venice (moron com'è noto vuol dire babbeo).
Otello, senza dubbio, prima di tutto è un uomo d'arme. Nello straziante monologo, in Cipro, con cui dà l'addio alla sua vita felice e a se stesso, ormai convinto del tradimento di Desdemona, enumera e saluta per sempre quegli oggetti e segni della vita militare tramite i quali si è elevato. “Othello's occupation's gone”, scandisce Welles come un rintocco funebre, mentre la nave veneziana di Lodovico urta la banchina e la vela cala, commento visuale al testo parlato.
E tuttavia: ascoltiamo il suo discorso al Senato, all'inizio della tragedia. E' lì per difendersi da ben gravi accuse: rapimento, stupro, magia, ai danni della figlia di uno dei grandi della Repubblica, e per di più da parte di un Moro (ai mori si attribuiva tradizionalmente un'inusuale carica di lussuria). Entra Otello. “Most potent, grave and reverend Signiors”...
La sovrana bellezza della sua orazione si misura tutta nel cadenzato splendore di questo solenne incipit. Questo discorso non serve solo a fornire le proprie giustificazioni; serve a porre chi lo pronuncia su un piano di parità coi suoi ascoltatori. Egli getta in faccia l'eloquenza e la gravitas del suo dire a chi lo ritiene poco più che un mercenario. Non sono un barbaro, dice Otello, sono nobile quanto voi; l'elegante costruzione retorica del mio discorso vi dice che sono un cortegiano. Sì, Otello sa raffinatamente parlare (anche se retoricamente lo nega): è il potere della sua parola che ha conquistato Desdemona.

Ma le ossessive spie linguistiche del testo shakespeariano, che Welles sottolinea nella sua riduzione filmica, raccontano una storia diversa, una storia di inconsci (o meglio, semi-consci) dubbi e terrori. Il terrore del Moro è di essere effettivamente quello che gli altri vedono in lui: di essere nero (anche per i suoi amici: Cassio brinda “Alla salute del nero Otello”), “fuligginoso”, selvaggio; “un indiano”, dirà lui stesso nel finale. Già nel discorso in Senato è fiero come Ulisse, ma Welles ci mostra la sfumatura di dolore che gli passa in viso sulle parole “sold in slavery”. Teme nell'anima ancora di essere “schiavo” (un termine che per contrappasso nel finale sarà usato come insulto verso Iago).
La breve scena del suo saluto a Desdemona (che deve raggiungerlo a Cipro più tardi) è preceduta dall'inquadratura dei Mori che battono le ore (schiavi di bronzo!). Rappresentano sul piano visuale quella distanza tra Otello e Venezia che il generale nega a se stesso perché è una distanza dalla propria auto-immagine. Un brusco stacco ci porta da Venezia a quell'incubo febbrile che è Cipro – Welles non intende costruire un mondo realista ma un paesaggio mentale (Santos Zunzunegui, Orson Welles, Cátedra, Madrid, 2005).
Ecco dunque dove giace la radice della sua ingenuità. Iago canta a Otello la canzone che egli teme oscuramente sia il vero: come può Desdemona amare il Moro? Più tardi, quando ormai lo ha ben avviluppato, Iago è addirittura insultante: parla di quell'unione come perversione, quindi dimostrazione di lussuria, ergo propensione al tradimento.
Men should be what they seem”, ripete Otello con Iago nella loro camminata sulle mura della fortezza di Cipro, seguita in carrellata. Otello ha costruito la sua personalità di generale e cortigiano in opposizione a schiavo moro; è lacerato dalla paura che si apra uno iato tra la propria auto-immagine e le sue origini, che quella personalità che si è costruita sia solo una sovrastruttura fragile e artificiale sotto la quale si rivela il selvaggio. Non per nulla in una scena Welles ci mostra Otello riflesso nello specchio mentre ascolta gli insinuanti veleni di Iago: inizia la scissione della personalità.
Un dettaglio è degno di nota: nella sequenza citata della passeggiata sulle mura (in cui Otello resiste per l'ultima volta a Iago, minaccia di ucciderlo, ma poi cede e d'ora in avanti si farà manovrare da lui), Otello indossa un indumento arabo, un burnus dall'ampio cappuccio con la nappa. Esso rappresenta simbolicamente il suo ritornare al suo mondo originario: altro segno del crollo della sua personalità. E infatti proprio in quella scena Otello, imprecando contro Desdemona, dice che il nome di lei è nero “as my own face” - è una folgorante rivelazione di sé.

Poco dopo, vediamo la crisi epilettica di Otello. Il Moro è disteso a terra, i gabbiani, in soggettiva, riempiono il cielo. Come osserva Peter Conrad nel suo splendido Orson Welles: The Stories of His Life (Faber and Faber, New York, 2003), qui Welles mescola significati verbali e visuali. I gabbiani (gulls), che furono attirati faticosamente spargendo grano, rimandano al gullible (ingenuo) Otello, e infatti Emilia nel quinto atto lo chiama “O Gull!”. La gente guarda dalle mura e ride, con confusione sonora tra le risa e le strida dei gabbiani. Questo è l'orrore di esser visto nella debolezza e nella sconfitta; il generale è divenuto ridicolo.
Spostiamoci ora a una scena precedente, la festa a Cipro, quando Iago convince Cassio a ubriacarsi, e ne segue la rissa di Cassio con Roderigo, con un combattimento nell'acqua in una struttura labirintica, irreale: fu girato in un'antica cisterna portoghese del XV secolo, “la risposta portoghese a Poe”, come annota spiritosamente Micheál mac Liammóir nel libro in cui ha raccontato la sua esperienza (L'onesto Iago, Giunti, Firenze, 1995). Soprattutto va sottolineata la presenza della gente che guarda dall'apertura rotonda in alto: ciò corrisponde a quel terrore dello sguardo, quella violazione dell'intimità, che attraversa il film. E infatti nel finale compare un'analoga apertura, si apre un lucernaio - simile a un occhio gigantesco - nel soffitto nella camera da letto di Otello. Questa violazione corrisponde ai terrori più profondi del Moro. Egli teme appunto di essere visto spoglio della sua veste di uomo civilizzato, di essere ridotto dallo sguardo impietoso al barbaro che teme di essere. E' guardando verso questo “occhio” che Otello (inquadrato dall'alto su fondo nero, richiamo visuale al funerale che apre il film) pronuncia la sua tragica confessione, in cui si paragona a un miserabile indiano la cui mano ha buttato via una perla che valeva più di tutta la sua tribù. Al tempo di Shakespeare, quando la scoperta dell'America è ancora fresca, l'indiano è il prototipo del selvaggio; è all'indiano che Shakespeare pensa nel tratteggiare la figura di Calibano ne La tempesta.
Nelle sequenze finali, scrive acutamente Maurizio Del Ministro (Othello di Welles, Bulzoni, Roma, 2000) “la terra sembra essere minacciata da un'eclissi o una conflagrazione”. Ma possiamo specificare questo concetto collegandolo al lucernario che si apre sulla camera. Mundus patet, dicevano i Romani nei tre giorni in cui veniva aperto il mundus, la fossa sacra ai Mani, e il mondo dei morti e quello dei vivi erano in comunicazione. Anche per Otello, nel momento che la sua realtà è crollata, mundus patet, i fantasmi del suo inconscio ne sono usciti (l'apertura dall'alto indica che sono terrori connessi alla visione) - e quell'apertura rotonda si richiude solo quando Otello stramazza morto al suolo.

Già pubblicato in “Mente ad arte. Percorsi artistici di psicopatologia, nel cinema ed oltre” a cura di Matteo Balestrieri – www.psychiatryonline.it