martedì 10 marzo 2015

Maraviglioso Boccaccio

Paolo e Vittorio Taviani

Un'algida eleganza preraffaellita è l'impressione che lasciano i colorati costumi nel verde dell'erba in Maraviglioso Boccaccio dei fratelli Taviani. Altri hanno segnalato il rimando “alla rappresentazione pittorica (pre)rinascimentale, fatta di eleganza e geometrie” (Paolo Mereghetti). Ora, è proprio dei Taviani un atteggiamento che si potrebbe definire estetismo (e che, sì, in alcuni loro film diventa accademismo estetizzante), ma esso non sorge dal nulla, né da un partito preso puramente visuale. La ricercatezza dell'immagine è, in loro, forma del distacco narrativo. Perché i Taviani hanno sempre voluto filtrare la messa in scena realistica in una dimensione metanarrativa, ovvero conscia di sé in quanto narrazione (in questo senso è giusto dire che sono sempre rimasti fedeli ai principi di quel cinema degli anni sessanta nel quale è iniziata la loro lunga carriera); il che comporta nel loro linguaggio cinematografico un delicato equilibro fra concretezza e astrazione. Oscillando lungo un raggio ai cui estremi potremmo mettere, se vogliamo, Kaos e La notte di San Lorenzo; due estremi, ma non due poli isolati, nel senso che comunque nell'uno c'è qualcosa dell'altro. E' un impegno artistico (e per i Taviani morale) ambizioso e rischioso, che ha prodotto anche film sonoramente falliti (Good Morning Babilonia) ma al quale bisogna riconoscere una sorta di generosa sincerità.
Tutto ciò si ritrova in Maraviglioso Boccaccio, che non per nulla mette i novellatori al centro, dando loro tanta importanza quanta ne dà alle cinque novelle raccontate – e anche fantasticando sui loro rapporti amorosi. Alcuni tratti (ora la voce narrante che sorregge un episodio, ora delle anticipazioni, come una breve inquadratura di Calandrino che sbircia da un angolo prima che inizi l'episodio suo) mi sembra rispondano sempre a un intento di distanziazione dal realismo tout court. I Taviani, che amano giocare sulla figura dell'attore nel contesto del racconto (non posso non citare lo splendido Franco Franchi di Kaos), nel presente film compiono un'operazione interessante dividendo le parti fra giovani attori non conosciuti (i dieci novellatori) e “divi” italiani usati come interpreti delle novelle. Sarebbe antipatico fare nomi, ma qui mi affretto ad aggiungere che un limite del film sta proprio in alcune interpretazioni – e non mi riferisco ai giovani sconosciuti.
Con un interessante segno di mutamento culturale, vediamo qui il sovvertimento di Dioneo (il nome allude alla lussuria, è il “venereo”), che in Boccaccio incarna l'elemento scherzoso e lascivo: una delle pagine più divertenti del Decameron, fuori dalle novelle, è alla fine della quinta giornata quando, toccando a lui di cantare la canzone conclusiva, stuzzica la “reggitrice” del giorno proponendo una canzone sboccata dietro l'altra (“Io ne so più di mille”) finché lei non perde la pazienza. Invece nel film Dioneo rappresenta fondamentalmente la voce del buon senso concreto; ed è lui che dopo 15 giorni (perché non dieci, mi chiedo) propone di ritornare in città, anche se i giovani non sanno cosa vi troveranno. Nel film dei Taviani, ed è una differenza rispetto a Boccaccio, questo soggiorno in villa è come un'elegia della giovinezza - “che si fugge tuttavia”, verrebbe da aggiungere – talché il loro addio sotto la pioggia assume una dimensione dolcemente malinconica e finale.
L'imperiosa realtà quotidiana, cui devono ritornare, è altrove – e i Taviani la mettono in scena con drammaticità nella descrizione iniziale, forte ed aspra, della peste di Firenze: dove certe forme della disperazione, come l'uomo che si fa seppellire vivo coi figli morti, ricordano perfino il lontanissimo Sotto il segno dello scorpione. Giustamente la prima novella raccontata nel rifugio in campagna, quella di Catalina, riprende il tema della peste in modo da costituire un trait d'union fra i due momenti (o mondi) del film.
Le cinque novelle si snodano sotto il segno d'una sorta di fredda ricercatezza. Molto bello, nella storia di Tancredi, Ghismonda e Guiscardo, quando Tancredi entra in un'ombra nera che lo avvolge per sussurrare “Strangolatelo e portatemi il suo cuore”; o come la più “boccaccesca” nel senso usuale dell'aggettivo, quella delle suore, viene aperta da un raffinata introduzione che ci mostra le protagoniste bambine. E quella di Calandrino e l'elitropia, la più famosa di tutto il Decameron, viene ampliata diffondendosi sulla beffa dell'intera città; per non dire che la variazione finale chiama in causa l'attività stessa del raccontare.
Certo, non mancano, nel film, i difetti. Cito solo un brutto calo di tono, nella novella di Ghismonda, su un oggetto fabbricato dal giovane artigiano innamorato: “Non dovete guardarlo, è una merda” - ed ecco che il racconto scade in pseudo-realismo giovanilistico televisivo. Ma quel che m'interessa sottolineare è che c'è un metodo e una coerenza sotto l'intera tessitura del film.
Ora, è inutile sottrarsi alla consapevolezza che il Decameron ha trovato la sua trasposizione principe con Pier Paolo Pasolini. Che nella sua fisicità sanguigna e potente rappresenta l'approccio opposto a quello dei Taviani; il film dei Taviani per l'appunto non è carnale, e si esiterebbe a sostenere che riesca a mantenere un'uniformità di tono lirico. Certamente quello di Pasolini resta un risultato superiore sul piano dell'arte cinematografica.
Ma bisogna dire che in Boccaccio esiste una vena sottile di eleganza malinconica, che fa pensare al gotico internazionale (e nella quale, per inciso, è immersa la novella che si svolge nella città di Udine). Pasolini questo non poteva renderlo; tutto il suo Decameron era legato alla concretezza del corpo – anche nella terribile storia di assassinio e fantasmi della Lisabetta. I Taviani, quella dimensione l'hanno intuita; e, quali che siano i limiti del film l'hanno trasmessa allo spettatore.

mercoledì 4 marzo 2015

Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza

Roy Andersson

Signore, che pazzi sono questi mortali!”, se la ride Puck nel Sogno di una notte di mezza estate, ma il termine fools vale anche buffoni. Pazzi e buffoni: lo si potrebbe mettere in epigrafe a Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza, film magnifico, nerissimo e follemente spassoso, nonché più saggio di quanto ci possa piacere di pensare; è opera del settantenne svedese Roy Andersson. In apertura, un personaggio dal viso cereo (come tutti) esamina gli uccelli imbalsamati in una sala di museo. Ma questi uccelli non sono tanto imbalsamati quanto la donna che lo attende immobile, o pure l'uomo stesso: perché nella loro fissità tassidermica almeno mantengono un'apparenza di vita e di volo, mentre questi personaggi viventi sono morti.
Bene, abbiamo un uomo che guarda gli uccelli. Ma se vogliamo prestar fede alle dichiarazioni del regista a Venezia, sono anche gli uccelli che guardano l'uomo: il film nasce dalla fantasia che osservino gli uomini dai loro rami e cerchino di immaginare cosa stanno facendo. Un piccione... consta di una serie di quadretti (i colori sono tenui, spenti) in piano sequenza, con un'inquadratura fissa frontale e distanziata che concretizza una distanza anche emotiva. Roy Andersson citava Brueghel il Vecchio; c'è poi chi ha menzionato Otto Dix e chi Edward Hopper; io per conto mio vorrei allegare Magritte. Sono episodi e personaggi comici e folli, sottilmente alieni; eppure, in questo speculum ornithologicum li riconosciamo benissimo come parte di noi.
Cosa sarebbe la vita senza un bicchierino”, dice un tale in un bar. A giudicare dai loro volti raggelati e apatici, anche con un bicchierino la loro vita non è un gran che. Impassibili come i personaggi di Kaurismäki (ma il primo Kaurismäki, quello di Calamari Union e Lemingrad Cowboys Go America), sono rassegnati e tristi. “Sono contento di sentire che state bene”, si ripetono di continuo al telefono, ma questo non fa che aggiungere qualcosa alla loro tetra comicità.
Storie di poesie non recitate, di morti improvvise che colgono comiche e surreali, di appuntamenti mancati con ridicola continuità, di minime speranze e amare delusioni, di una grassa maestra di flamenco che smanaccia un bell'allievo con la scusa della lezione, e lui rassegnato seguita ad allontanarle le mani. Più tardi li rivedremo come sfondo, che piangono, nella vetrina di un ristorante: in Andersson è fondamentale la profondità di campo, perché come la vita il suo cinema si svolge su differenti piani visivi.
E' un universo nel quale, in un anonimo bar di periferia d'oggi, può fermarsi l'esercito di Carlo XII (regale e autoritario, gay perso, che parla solo per bocca del suo luogotenente) in marcia nel 1707 per la battaglia di Poltava. Cantano la “Marcia di guerra” sulle note di Glory Glory Hallelujah. Più tardi la scena ritorna: l'esercito si trascina sconfitto e sfasciato, il re mezzo morto si ferma di nuovo al bar perché ha bisogno di usare il bagno. Geniale il collegamento oggettivo tra “Vostra Maestà, purtroppo il bagno è occupato” e “Metà del regno è perduta”!
Il ritorno di ambienti e di volti crea una geografia, un territorio diegetico. I protagonisti - se si può usare questo termine per un leggero filo conduttore - sono una coppia ultra-sfigata di rappresentanti di giochi e scherzi di una tristezza capitale: una maschera deprimente, un cuscino con risata incorporata che sembra uscito da un film dell'orrore, e non possono mancare i denti di Dracula di plastica, “sulla cresta dell'onda da tanto tempo”. Jonathan e Sam, l'uno un piagnone, l'altro un debole capoccia, sono un duo assolutamente beckettiano, come beckettiani sono il loro misero campionario e le loro ripetizioni (“Domani dobbiamo fare buoni affari”). E' importante ribadirlo perché Beckett – non solo quello teatrale ma anche quello narrativo (Watt) – non solo è alla base della coppia ma presiede al film.
Un piccione... è mostruosamente divertente; però, anche se i due sfigati ripetono di continuo che la loro missione è di aiutare la gente a divertirsi, c'è nel film una dimensione assai amara dell'esistenza. Chi sorride? Sorridono (compostamente) le bambine che giocano sul balcone, gli amanti, e soprattutto i marinai che baciano la taverniera Lotta la Zoppa in cambio di un bicchiere di acquavite, in un flashback nel 1943, nel cono di luce lontana del passato – memorabile scena di lontano calore cantata (ancora!) sulle note di Glory Glory Hallelujah, ma sembra Kurt Weill. Poi ritorniamo al presente, e il vecchio che ricordava si allontana faticosamente mentre la canzone prosegue solo in flashback sonoro – col che l'ironia distaccata dell'esposizione esplode in un folgorante momento patetico.
Un episodietto intitolato Homo Sapiens mostra una scimmia orrendamente vivisezionata che dalla sua postazione di tortura ascolta la sperimentatrice al telefono col solito “Sono contenta di sentire che state bene”. Qui il film vira al nero più cupo. Soldati dell'epoca coloniale costringono indigeni negri a entrare in una gigantesca macchina rotante che emette suoni musicali mentre li arrostisce vivi; qui ed ora, un gruppo di ricchi bianchi vecchissimi guarda (o ricorda?) bevendo champagne. L'orrore e le colpe dell'esistenza (e ci sarebbe qualcosa da dire sulla storia dell'Occidente). Infine, mentre un gruppo di personaggi alla fermata dell'autobus discutono follemente sul mercoledì, sentiamo fuori campo il tubare dei piccioni. Gli uccelli continuano - sempre perplessi - a guardare.