mercoledì 28 ottobre 2015

Crimson Peak

Guillermo Del Toro



Non è esatto che sia un omaggio alla Hammer Film, come è stato detto, il gothic romance di Guillermo Del Toro Crimson Peak. E’ molto lontano dallo stile secco della Hammer; benché si svolga per la maggior parte in Scozia, è più americano che inglese; il suo nume tutelare è con tutta evidenza Edgar A. Poe (La caduta della casa degli Usher) - anche se Del Toro nelle interviste menziona le atmosfere di Cime tempestose e Jane Eyre. Certamente c’è un omaggio alla Hammer nel cognome della protagonista Edith (Mia Wasikowska), Cushing – ma in realtà (uno scherzo nascosto?) è il suo corteggiatore e poi sposo, Sir Thomas Sharpe (Tom Hiddleston), ad assomigliare a Peter Cushing da giovane, negli occhi azzurri e nel viso affilato.
Nel ricco, elegante manierismo di Del Toro, Crimson Peak è piacevole e molto avvincente, caratterizzato da eccellenti interpretazioni del trio protagonista. Nel montaggio si notano alcuni preziosismi come un paio di belle pseudo-carrellate che congiungono due scene, o il recupero di quell’antico segno d’interpunzione che è la chiusura in iride.
La tensione sempre presente in Del Toro verso l’infanzia e il passato si esalta in questo thriller gotico in costume, storia di avvelenamenti e orrori segreti in una lugubre casa in mezzo al nulla, fondamentalmente un contorto retelling della storia di Barbablù. Lo sviluppo è certamente prevedibile, ma proprio per questo Del Toro (co-sceneggiatore con Matthew Robbins) mette subito le carte in tavola, sia coll’apparizione come prologo (circolare al finale) di Edith ferita, sia mostrandoci subito, appena appena velati, i maneggi dei fratelli Sharpe, Sir Thomas e sua sorella Lucille (Jessica Chastain). Dunque il motivo di suspense del film non è tanto sul “cosa succederà” ma sul “come”, e in particolare sull’ambiguità psicologica del personaggio di Thomas. E’ un film sul lato oscuro dei sentimenti.
Certo, è popolato da spettri, che avvertono e denunciano. Sono figure miserande e terribili, anche quando siano protettive, come il fantasma della madre: entità ectoplasmatiche che vanno in disfacimento nel momento stesso in cui appaiono, fatte d’ombra e di fumo; esseri di un nero bruciato o del rosso del sangue, che si muovono fluttuando o scivolando come nel cinema orientale. Sono visualmente rimarchevoli, e più di tutti quella figura alla Salvador Dalì che si intravede nell’incubo di Edith.
Sotto questa storia di spettri e di delitti giace un’altra storia sottesa, una storia di crudeltà familiari – e di incesto, tema non nuovo nell’opera di Del Toro. Il quale peraltro non è un regista horror stricto sensu: anche Crimson Peak si svolge in un’atmosfera, benché orrorifica, quasi fantastica e fiabesca. La feroce dark lady ha qualcosa che si avvicina all’estremismo delle fiabe; e la protagonista Edith (scrittrice di storie romantiche con fantasmi) pur essendo adulta mantiene tuttavia qualcosa della bambina. Anche per questo il film glissa sull’elemento sessuale, che qui sarebbe entrato agevolmente (pensiamo a In compagnia dei lupi di Neil Jordan!); pure un’illustrazione pornografica che compare a un certo punto serve più che altro a informarci che dopo le nozze Edith ha conservato la verginità.  
Il rosso è il filo conduttore cromatico del film (già ce ne avvertono i loghi tinti in rosso della Universal e della Legendary Pictures): non dico il rosso del sangue ma il rosso scarlatto dell’argilla di Crimson Peak (che naturalmente sta per il sangue), onnipresente: la fanghiglia rossa che filtra da sotto le assi del pavimento, l’acqua che esce rossa dal rubinetto del bagno, le “vasche” rotonde piene di un liquido color sangue, contenenti un macabro segreto, e soprattutto la neve che si macchia di rosso per l’argilla che sta sotto. In quest’argilla sanguigna la casa sta lentamente sprofondando (Poe). La fotografia di Dan Laustsen dona a Crimson Peak una peculiare bellezza cromatica. Nella lotta fra il rosso, il bianco e il nero si inseriscono freddi toni azzurrini e audaci riflessi verdastri che fanno pensare alle più audaci scelte coloristiche di Floyd Crosby per Roger Corman (nonché, Del Toro dixit, Mario Bava). 
Guillermo Del Toro è un regista molto graphic. In lui, senza togliere nulla al plot, v’è una centralità dell’aspetto visuale. E per Crimson Peak l’accuratissima preparazione grafica è stata basilare – come si vede dal volume illustrato Crimson Peak: The Art of Darkness di Mark Salisbury, appena uscito. Di questo lavoro certosino, comprendente un’accuratissima ricerca sui costumi, tutto è notevole; ma quel che più di tutto si fa ricordare è la casa (e sì che di “dimore cannibali” ne abbiamo viste tante): questa immensa casa tetra, che dal tetto sfondato fa piovere nel salone raggi di luce gelida e fiocchi di neve come una versione crudele e perversa di Hogwarts; questa casa piena di scure farfalle malate, coi suoi corridoi infestati da fantasmi, con le stanze piene di vecchie cose inquietanti (le teste di bambolotti che “guardano” Edith quando sta per fare l’amore col marito) pronte a rivelare misfatti sepolti (i rulli fonografici e le foto ingiallite).
I bei titoli di coda che girano per la casa presentano come inquadratura finale la copertina di un libro: Crimson Peak di Edith Cushing. Dunque la piccola Edith ha coronato il suo sogno di divenire scrittrice? E’ questo un racconto autobiografico? O è la visualizzazione di una sua fantasia? Ma quel ch’è certo – vista la figura di Sir Thomas nel film – è che abbiamo assistito alla materializzazione del progetto narrativo esposto da Edith all’inizio: una storia di fantasmi che non sia una storia di fantasmi, in cui l’elemento romantico – il sentimento – passi in primo piano. 

domenica 4 ottobre 2015

Ritorno alla vita

Wim Wenders



C’è una battuta di importanza capitale in Every Thing Will Be Fine (Ritorno alla vita) di Wenders quando, nella hall a un concerto, Sara, l’ex compagna del protagonista (che lo guardava da un palco in platea), osserva: “Ti siedi ancora vicino all’uscita come una volta”. Sì, lo scrittore di successo Tomas (James Franco) è proprio un tipo così: quello che si siede sempre vicino all’uscita. Every Thing Will Be Fine si potrebbe definire sommariamente come una storia di colpa e redenzione - chiarendo che la colpa qui non è un fatto oggettivo ma una durezza dell’anima. 
Il fatto concreto è un incidente inevitabile: guidando nella neve Tomas investe accidentalmente due imprudenti fratellini in slitta, dei quali uno muore. Nessuno, nemmeno la loro madre single, gliene addebita la responsabilità; tuttavia il senso di colpa resta; perché se uccidi un bambino ti senti tragicamente colpevole anche se sei innocente. Tuttavia Tomas rifugge da questo senso di colpa riconoscendolo a livello razionale (sul momento mette anche in atto un tentativo di suicidio “dimostrativo”) e insieme indurendosi a livello emotivo; e il film racconta del suo recupero (in Wenders la dialettica è sempre tra la fuga e il ritorno).
Un avvenimento che accade anni dopo è indicativo: al luna park (meraviglioso come in questa scena Wenders fa passare il mood dall’allegria festiva alla minaccia) un incidente di cui sono testimoni spaventa Tomas, la sua nuova compagna Ann e la figlia di questa. Tornati a casa, Ann gli dice: “Non c’è niente che riesca a scalfirti?” – e ne nasce un “litigio freddo” con una discussione molto wendersiana sulle mani che tremano o no. Gli attimi in cui il mondo traumaticamente cambia dovrebbero cambiare anche noi. Ma noi facciamo resistenza al cambiamento; non è che non lo viviamo, ma lo nascondiamo a noi stessi e agli altri (per quale miracolo della forza di volontà, o per quale vischiosità del sentire, le nostre mani non tremano quando dovrebbero tremare?)
La realtà è che Tomas è un lontano discendente dello scrittore Wilhelm di Falso movimento. Senza nemmeno rendersene conto, fagocita le emozioni per trasferirle sulla pagina bianca; non per nulla gli viene osservato nel corso del film che i libri scritti dopo il suo incidente sono migliori; e in questo trasferimento è come se si assolvesse dall’obbligo del tremore. Sente la tragedia intellettualmente ma non più nelle fibre; lascia che il tempo la ottunda. Ancora alcuni anni dopo, l’incontro casuale con Sara (che era la sua compagna al tempo dell’incidente e che lui ha lasciato) lo conferma. Lo schiaffo improvviso di Sara ci ricorda che il male che uno ha fatto rimane comunque, per quanto uno possa cambiare e magari pentirsi (“Pensavo solo a me allora”. Il cinema di Wenders è pieno di queste figure).
Come si sarà capito, il film si dilata “nel corso del tempo”, qualcosa che Wenders ama molto, con salti ora di due anni, ora di quattro, che seguono la vita di Tomas, col passaggio da Sara ad Ann e il suo formarsi una famiglia, visto che Ann ha una figlia bambina (adorabilmente saputella, Mina è uno dei personaggi più brillanti del film). Contestualmente il film segue la vita di Kate, la madre del bambino ucciso, e di suo figlio Christopher. I due, Tomas e Kate, condividono in una sequenza magica un momento di commozione e ricordo (in questa scena la vecchia strip di foto che Tomas osserva è una reminiscenza di Alice nelle città); ma poi non si vedranno più. Fra le righe, c’è un accenno alla più grave e profonda delle questioni religiose occidentali: la teodicea: qual è il senso del dolore e del male?
Si potrebbe osservare che la narrazione parte in modo un po’ incerto; ma poi Every Thing Will Be Fine prende ala e cresce costantemente.  E’ anche un film sulla paternità mancata, altro tema wendersiano; Tomas non può avere figli (fisicamente e metaforicamente); anche la figliastra Mina gli ricorda - senza polemica - che lui non è suo padre; quando poi a Tomas è richiesto di assumere una funzione di aiuto e consiglio (cioè paterna) verso Christopher cresciuto, aspirante scrittore anche lui, si sottrae miserabilmente al suo compito. La vendetta di Christopher innesta una sequenza che dal punto di vista del linguaggio cinematografico si può definire solo magistrale, quando la famiglia torna a casa e trova una finestra aperta: parlo dello stupefacente senso di minaccia reso con piccolissimi carrelli da destra a sinistra e viceversa.
Imprevedibilmente (considerata la personalità di Tomas) il film si rivela un percorso di ricrescita. Nello svolgimento come possibilità e nella conclusione come possibilità concretizzata, con quell’abbraccio finale (e quei due primissimi piani, contrapposti, illuminati dal sole in faccia!) ritroviamo quella pietas, quel senso doloroso della fratellanza umana - in Italia potremmo dire leopardiano – che è un tratto base di Wenders, e di cui è manifesto Il cielo sopra Berlino col suo sequel. E’ come se accanto a Thomas e Kate ci fosse - invisibile stavolta a noi come a loro - uno degli angeli di quel film.
Inutile dilungarsi sulla bellezza dell’aspetto visuale (che nel buon cinema è sempre consustanziale al narrativo); dalla scena di minaccia citata al modo eccellente di risolvere una conversazione telefonica, a un movimento in dolly che rivela il panorama urbano attraverso la finestra di un grattacielo. Sono stati diffusamente segnalati i riferimenti visuali ad Andrew Wyeth; vorrei menzionare anche quelli a Edward Hopper nella scena del dialogo al bar con Christopher. Ma su un punto è obbligatorio soffermarsi, ed è l’uso del 3D.
Nonostante il nome, non è esatto dire il 3D dia la sensazione della tridimensionalità. Quello che fa è di scomporre i piani, aumentando la distanza fra il primo piano e il fondo; c’è un’illusione di profondità ma al costo di un effetto di schiacciatura che solitamente è più spiacevole che altro; e serve soprattutto a lanciare oggetti contro lo spettatore.
Invece Wenders, il direttore della fotografia Benoît Debie e la director of stereography Josephine Derobe comprendono bene la natura del 3D e lo hanno portato a un livello eccellente, almeno per lo state of the art. Wenders ha capito l’importanza delle linee oblique come congiunzione psicologica per connettere il primo piano e il fondo, e allora ecco oggetti nella posizione adatta, oppure strade e vialetti con pilastri e steccati che formano una linea obliqua. Nonché, naturalmente, un’abile scansione dei piani, o al contrario un’apertura senza limiti che eliminano propriamente quell’effetto di schiacciatura. Anche se non si può dire che i difetti siano sempre eliminati (penso alla bruttezza, verso l’inizio del film, di un primo piano in auto con un normalissimo gioco di messa a fuoco che il 3D rende irreale), comunque Every Thing Will Be Fine è un passo avanti su questo terreno scivoloso.