domenica 22 novembre 2015

Mr. Holmes - Il mistero del caso irrisolto

Bill Condon



Sherlock Holmes non è semplicemente un investigatore vittoriano, è un’icona. Per questo ha goduto e gode tuttora di una serie infinita di trascrizioni cinematografiche e di riscritture letterarie (due termini che sovente coincidono). Di recente abbiamo visto i due film (deliziosi) di Guy Ritchie e la serie televisiva in abiti moderni con Benedict Cumberbatch (sarò sincero, not my cup of tea, ma Cumberbatch è ottimo e il processo del pensiero non era mai stato reso visivamente così bene); ecco ora l’interessante, ma non troppo riuscito, Mr. Holmes – Il mistero del caso irrisolto di Bill Condon. Ian McKellen vi interpreta Sherlock Holmes nella sua vecchiaia – ed è un doppio film in realtà, poiché ci mostra Holmes vecchissimo in ritiro nel Sussex nel 1947 e, sul filo del flashback, Holmes vecchio, molti anni prima, nel suo ultimo caso (mentre noi ce lo immaginiamo sempre giovane, o al massimo di mezza età, va ricordato che il cinema comprende almeno un altro Holmes vecchio, Peter Cushing ne La maschera della morte di Roy Ward Baker).
In realtà questo non è tanto un film di Holmes quanto un film post-Holmes. L’uomo che aveva stupito il mondo coll’acutezza del suo ingegno ora deve fare i conti con la perdita senile della memoria; né la pappa reale delle api che alleva né una miracolosa pianta giapponese servono a niente; eppure lui deve cercare, in modo doloroso e frustrante, di ravvivare i suoi frammenti di memoria per ricostruire quell’ultimo caso di tanti anni prima. Dopo quel caso Holmes era andato in crisi e aveva deciso di ritirarsi dall’attività investigativa; il dottor Watson - ora defunto, come gli altri personaggi della saga - ne aveva scritto una versione infedele dall’esito positivo, intitolata Il mistero della donna del guanto. E’ assai bella l’invenzione di un vecchio film in b/n tratto da quel racconto, che Holmes va a vedere in una scena (piccolo scherzo metacinematografico: lo Sherlock Holmes del film-nel-film è interpretato da Nicholas Rowe, che interpretò effettivamente il giovane Holmes in Piramide di paura).
Ora il vecchio Holmes, negli ultimi giorni della vita, vorrebbe mettere su carta la versione autentica dell’accaduto… ammesso che quella che a poco a poco ricorda lo sia… a beneficio di un ragazzino suo amico, ma soprattutto per fare i conti col proprio passato. Sarebbe stato molto interessante collegare la perdita della memoria da parte di Holmes con la mancanza che ha questo bambino della memoria del padre morto in guerra; ma il film non ci pensa (Christopher Nolan, per dirne uno, non si sarebbe fatto scappare questo spunto).
Mr. Holmes è una descrizione impietosa della vecchiaia (Ian McKellen, senza sorpresa, è eccezionale). E’ evidente la somiglianza con il miglior film di Bill Condon, Demoni e dei (Gods and Monsters), del 1998, anch’esso interpretato da McKellen: un ottimo film sugli ultimi giorni del regista omosessuale James Whale, il grande e sottovalutato autore dei primi due Frankenstein e de L’uomo invisibile: anche quello un film sulla vecchiaia, la memoria, la solitudine e in una parola il declino.
L’impianto narrativo è indubbiamente affascinante, e certo questo è un film da raccomandare a tutti gli holmesiani. Contrariamente a ciò che con una certa astuzia commerciale suggerisce il trailer, Mr. Holmes non parla di un antico cold case che viene risolto tanti anni dopo bensì del tentativo di ricordarlo per spiegarsene il significato morale e affettivo.
Il problema del film è un problema di sceneggiatura. Qui devo fare una confessione preliminare: non ho letto il romanzo omonimo di Mitch Cullin da cui il film è tratto. Tuttavia ciò non impedisce di fare una recensione, perché in ogni caso la questione è come il romanzo sia trascritto in termini sia narrativi (sceneggiatura appunto) sia di linguaggio filmico. La storia giapponese che s’incrocia con la storia principale, e che unisce il ricordo di un vecchio viaggio con l’emergere di un altro episodio dimenticato, è inserita alquanto goffamente, nonostante la sequenza a Hiroshima sia assai buona; in particolare la scena – che il prosieguo rivelerà importante – del tè a casa del signor Umezaki con sua madre è veramente girata con la mano sinistra, roba da seconda unità.
E poi, la storia (il caso della donna del guanto) che giace alla base di tutto ha una risoluzione francamente fiacca. Sherlock Holmes si è ritirato dall’attività investigativa per punirsi di un fallimento, e non ricorda quale; è un heauntotimorumenos senza sapere più perché; non si potrebbe immaginare un destino peggiore. Questo chiamerebbe uno sviluppo impressionante e terribile, il cuore pulsante del film. Invece esso, quando arriva, delude – non tanto per il contenuto (si gira intorno al solito discorso di Sherlock Holmes troppo cervello e poco cuore) ma per il modo frettoloso in cui è esposto. Il punto è che in Mr. Holmes Bill Condon si dimostra più capace nell’analisi che nella sintesi: i singoli pezzi sono (sovente) ammirevoli, il quadro complessivo che compongono risulta piuttosto spento. Diciamo la verità, Sir Arthur Conan Doyle – che pure non amava il suo eroe – ne capiva di più. 

martedì 3 novembre 2015

Tutto può accadere a Broadway

Peter Bogdanovich



Comincio dal fondo. Non è per nulla che alla fine della bellissima commedia di Peter Bogdanovich She’s Funny That Way (Tutto può accadere a Broadway) compare Quentin Tarantino nella parte di se stesso. Il vecchio Bogdanovich e il giovane (beh…) Tarantino hanno una cosa in comune: la tendenza a costruire film sul cinema, formare una storia che non è una mimesi sia pur ironica della realtà ma una mimesi (celebrativa) della mimesi cinematografica della realtà.
Poi naturalmente ognuno ha la sua strada. Tarantino crea un mondo surreale, un collage di memorie cinematografiche riproposte in una nuova composizione; Bogdanovich crea un film-celebrazione che nasce dalla riproposizione nostalgica, quasi filologica, dell’universo della commedia classica.
Non potrebbe dichiararlo più chiaramente She’s Funny That Way, che parte con l’omaggio a Fred Astaire e Ginger Rogers, Spencer Tracy e Humphrey Bogart; che vive di riferimenti e citazioni; che si conclude con un capitale frammento di Cluny Brown (Fra le tue braccia) di Lubitsch. Questo frammento finale assolve a più scopi: paga un debito riconoscendo l’origine del tormentone della noce e dello scoiattolo che attraversa il film; chiude in modo debitamente metacinematografico il film; rende omaggio a uno dei numi ispiratori del film stesso.
Per Bogdanovich i film classici non sono solo delle belle storie. Sono delle allegorie dell’esistenza, dei miti nel senso proprio della parola, che danno lezioni di vita e di morale. Dunque il citazionismo polimorfo del film non è semplicemente una raccolta di momenti preziosi e venerati stilemi ma è un riferimento costante che serve a costruire una visione del mondo e un’etica. Si potrebbe dire: cinematographia magistra vitae. E così la protagonista Isabella (Imogen Poots) trae la sua filosofia e la sua etica dai film - classici, ripeto (proprio come fa Woody Allen in Crimini e misfatti: le scene col nipote). La sua visione del mondo ha un’identificazione precisa, Audrey Hepburn: che è punto di riferimento di She’s Funny That Way sia nella soggettività della protagonista sia nell’oggettività del plot.
Questo materiale mitico si organizza in forma di replica (calda, invitante e, non occorre dirlo, divertentissima) delle commedie del cinema americano di una volta. E’ questa una delle basi del cinema di Bogdanovich, e basta citare Ma papà ti manda sola? Reggono il film un gusto narrativo vivacissimo, un senso scatenato del ritmo (ottimo per una storia che è un turbinio di equivoci e inganni a catena), un dialogo scoppiettante.
Come si suol dire: nessuna buona azione resta impunita. Il ricco regista teatrale Arnold Albertson (Owen Wilson) è un libertino benefattore: alle escort che gli sono simpatiche regala 30.000 dollari sull’unghia, col che dà loro l’opportunità di cambiar vita. Così fa con Isabella, una escort ottimista piena di onestà e buon senso, alla quale si presenta sotto il nome di Derek, perché è sposato con figli (è buffo che Derek Thomas fosse lo pseudonimo di Bogdanovich quando, lavorando per Roger Corman, “americanizzò” un fantafilm russo). Naturalmente salta tutto fuori; si potrebbe dire che She’s Funny That Way è un’illustrazione farsesca della teoria dei sei gradi di separazione, solo che qui ne occorrono assai meno. E’ una carambola di sorprese per i personaggi (ma anche per noi spettatori quando veniamo a sapere che quella di Arnold era una filantropia al plurale, fino alla deliziosa rivelazione finale). Una carambola di sorprese - continuamente punteggiata dallo squillo dei telefoni che inter/rompono sempre - in cui ogni maschio prima o poi si prende in faccia un cazzotto. L’umorismo di Bogdanovich, co-sceneggiatore con Louise Stratten, è dissolvente. I rapporti matrimoniali, quelli di amicizia, quelli di lavoro, per non dire de quell’idolo americano che è la psicoanalisi, si sciolgono nel calderone di incontri scontri e sotterfugi; mentre le forze che muovono il mondo risultano essere il sesso, il denaro e (attenzione!) la gentilezza.
Non occorre essere un acido laudator temporis acti per osservare che in She’s Funny That Way c’è una felicità di narrazione e di ritmo che appartiene piuttosto alle commedie del passato che del presente. E viene da pensare (con qualche amarezza) che appartiene al passato anche quella soprannaturale perfezione collettiva, da orchestra, delle caratterizzazioni e delle interpretazioni - che si allarga anche agli animali (Hawks insegna!). Nella commedia americana contemporanea, solo forse in alcuni film di Woody Allen, non gli ultimi, si è visto un effetto del genere. Di questa galleria di personaggi… come si diceva al tempo della screwball comedy… picchiatelli, non ce n’è uno che non sia azzeccato. E siccome ci vorrebbe un paragrafo intero per menzionarli, personaggi e attori, meglio rinunciare.  
Forse anche credere nel lieto fine, come ci crede pervicacemente Isabella, è una cosa del passato. E certo, mettere come figura positiva una escort nell’epoca del politically correct e della sessuofobia femminista fa anch’esso commedia del passato (ricordo capolavori di Billy Wilder come Irma la dolce e Baciami, stupido). Se penso a Peter Bogdanovich (il cui film ha avuto vita grama negli States) la sola definizione che mi viene in mente è di origine geopolitica: “orgoglioso isolamento”. 

domenica 1 novembre 2015

The Walk

Robert Zemeckis



Robert Zemeckis ha sempre amato dipingere le situazioni estreme. Un detective hard-boiled che vive in un mondo misto di umani e cartoons ed è costretto a diventare lui stesso un cartoon (è il senso del finale di Chi ha incastrato Roger Rabbit). Un naufrago su un’isola che ha solo una faccia dipinta su un pallone con cui parlare. Due donne morte-vive che nascondono la decomposizione sotto chili di trucco. Un pilota ubriaco costretto a compiere un volo coll’aereo rovesciato. E come dimenticare le pericolose passeggiate nel tempo di Marty McFly?
Metaforicamente possiamo dire che Zemeckis è attratto dai personaggi che camminano in bilico su una corda. Ora la metafora si avvera con The Walk, epica del funambolismo che racconta la camminata sul filo di Philippe Petit fra le Twin Towers il 7 agosto 1974.
Sgombriamo subito il campo dall’idea che l’attrattiva di The Walk consista semplicemente nella camminata: scena madre, certo, ma l’inevitabile fascino di un funambolo sul filo a 415 metri di altezza, con sotto lo spazio vertiginoso in 3D, non basterebbe a supportare un intero film. The Walk vive per il suo senso complessivo, e non solo per quella scena. Nonostante il suo linguaggio moderno, è un solido film all’antica; Zemeckis – anche co-sceneggiatore con Christopher Browne, dal libro di Petit - ha, in modo molto classico, diviso il film in tre atti e un epilogo.
Primo atto: formazione. Con un amabile tono bohémien (la descrizione iniziale di una Parigi fatata, piena di giochi e spettacoli per strada), e con uno svolgimento amoroso delicato, quasi da innamorati di Peynet, il film ci mostra la passione di Petit (l’ottimo Joseph Gordon-Levitt, addestrato da Petit in persona) per il funambolismo, nonché il suo primo addestramento sotto la ruvida guida di Papa Rudy (Ben Kingsley). E’ in questa sezione, più che nelle altre due, che Zemeckis sfoggia quella gradevole modernità di linguaggio, che dà un tocco di leggerezza.
Nel secondo atto, l’organizzazione della camminata fra le Twin Towers, il film diventa in tutto e per tutto uno heist movie: un thriller su un colpo grosso, come svuotare una banca. Il colpo di genio di Zemeckis e Browne è proprio l’ostinazione nel raccontare un’azione certo not totally legal (sono parole vere di uno dei “complici”) ma non criminale attenendosi accuratamente alla retorica e agli stilemi del cinema del crimine: l’attenta preparazione, l’osservazione del luogo, i complici infidi, l’audacia dei primi passi, la suspense dell’inevitabile imprevisto che rischia di far saltare tutto. Così viene attivata tutta quell’attrazione che arriva a farci battere il cuore per ogni intoppo perfino quando vediamo preparare un’azione da galera (potenza del punto di vista!), ma qui agganciandosi a quella leggerezza e quella tollerante adesione psicologica già costruite.
Il terzo atto - la camminata, inquadrata per lo più "a piombo" - è un’esplosione spettacolare: tutti i fili accuratamente preparati in precedenza vengono tesi al massimo (non è un indice della riuscita del film il fatto che ci sentiamo portati a parlarne con metafore tratte dallo stesso?). C’è qualcosa di sadico nel modo in cui The Walk sfrutta al massimo la durata, con Petit che quando vede i poliziotti accorsi sulla Torre si volta e torna indietro, poi lo fa di nuovo, si inginocchia, perfino si sdraia sul filo… Non importa qui quanto sia successo realmente e quanto no (ci sono libri e documentari, ma si può trovare subito un interessante articolo sul sito History vs Hollywood). Quel che importa è che è grande cinema di suspense, la tensione è come carta vetrata sui nervi, e si prova la voglia di unirsi ai poliziotti nell’implorare Petit di smettere.
Ora parliamo del 3D. Bisogna ricordare che il film è narrato in flashback dal protagonista che sta sulla cima della Statua della Libertà, con sul fondo le Twin Towers nel sole, e in mezzo uno specchio azzurro di mare. Quest’inquadratura ricorrente esprime visivamente il concetto base del 3D come lo usa Zemeckis: la distanza. Siccome la natura del 3D è di amplificare la lontananza fra i piani, esso favorisce l’idea di una distanza invalicabile; è lo stesso uso che ne ha fatto Cuarón per Gravity (diverso, naturalmente, quello bellissimo di Wenders in Ritorno alla vita). Il 3D in The Walk serve a mettere in risalto questa distanza paurosa del sotto, così lontano oltre il vuoto dell’aria, e così tanto più minaccioso. I funamboli, ci informa Petit nel film, non guardano mai in basso. Ma noi spettatori sì, noi guardiamo per lui, e l’abisso del 3D è per noi.
La parte finale fornisce un caldo, e imprevedibile, epilogo. Mentre molte sceneggiature avrebbero insistito sul successo raggiunto, o avrebbero smiagolato sull’improvvisa separazione fra Petit e la bella (Charlotte Le Bon), The Walk si eleva a un tono umanistico diventando un’elegia delle Twin Towers - alle quali l’impresa di Petit ha “dato un’anima”.
Non c’è mai, in questo sguardo retrospettivo, una menzione nemmeno implicita all’11 Settembre. Proprio questa omissione, così voluta, così patente, da rientrare nella figure retorica dell’aposiopesi (o reticenza), rende il disastro delle Twin Towers di nuovo dolorosamente vicino. E qui diventa possibile tracciare un collegamento ideale con la Parigi sognante del primo atto: dopo l’11 settembre quella spensieratezza dans la rue è diventata un ricordo, appartiene allo stesso modo delle Twin Towers nel sole alla dolcezza di un passato che è passato.