sabato 30 luglio 2016

Cell

Tod Williams

Quando nel 1966 uscì La Bibbia prodotto da De Laurentiis e diretto da John Huston, girava la battuta “E' meglio il libro”. Si parva licet etc., si può dire la stessa cosa per Cell di Tod Williams, tratto dal romanzo omonimo di Stephen King. Fin qui, niente di stupefacente: col cinema, il grande scrittore del Maine ha avuto fortuna sul piano quantitativo (molti titoli, e molti dollari) ma non troppo su quello qualitativo (vabbè, aver originato Shining dovrebbe già bastare, ma a lui non piace). Quel che sì è stupefacente è che, andando a vedere gli autori della sceneggiatura (il punto più debole di Cell), leggiamo: Adam Alleca & Stephen King.
La netta impressione è che l'uomo abbia incassato l'assegno e poi lavorato con la mano sinistra. Volendo essere più generosi, diciamo che King è molto bravo a scrivere in focalizzazione interna, cosa difficile da trasmettere al cinema.
Cell (romanzo) è un'apocalisse. Un impulso misterioso trasmesso attraverso i cellulari trasforma chi è all'apparecchio in una specie di zombi (chiamati nel romanzo telepazzi). Ma la cosa interessante è che queste creature, che formano telepaticamente un cervello collettivo, costituiscono una nuova società (orribilmente) aliena. Quando i protagonisti distruggono uno degli “stormi” scoprono di essere condannati a un misterioso supplizio pubblico (qui King tira fuori il suo terrore delle esecuzioni pubbliche già presente ne L'ombra dello scorpione), di cui vengono avvertiti nei loro sogni tramite un “rappresentante” degli zombi che per la sua faccia lacerata chiamano il Frastagliato. E la cosa più notevole è che il Frastagliato parla latino (nel sogno dell'esecuzione: “Ecce mulier… insana”, al che la folla di zombi risponde in coro “Non toccare!”). E' questo genere di bizzarria, non gratuita, non capricciosa, ma lacerante, che fa correre un brivido lungo la schiena: non solo l'alienità del nemico ma la percezione oscura e incompleta della logica altra che lo muove. L'irriducibilità del nemico alle nostre categorie logiche fa sempre più paura della sua potenza.
Cell (film) è fondamentalmente un film di zombi, piuttosto anodino, con alcune sopravvivenze dell'impianto più complesso del romanzo che fluttuano come rottami sul mare dopo la tempesta. E' basato su una sceneggiatura pigra, che trascrive il romanzo in modo pedissequo semplificando e annacquando, dove quell'aspetto misterioso ed estraneo che lo rende grisly va perduto. John Cusack e Samuel L. Jackson, typecasted come al solito, mettono in scena burocraticamente la loro avventura, e non a caso Cell peggiora via via che prosegue banalizzando l'impianto originale.
Certo, non è mai illegale modificare la storia; ma il film si situa in una sorta di terra di nessuno che tradisce l'incertezza; non ha la capacità narrativa di concretizzare il senso profondo del romanzo, ma neppure il coraggio di eliderlo del tutto. Le proprietà telecinetiche degli zombi qui sono solo alluse; il loro nuovo “universo” collettivo è definito in modo freddo e generico; così anche la figura del Frastagliato perde di spessore, tanto che il film la mantiene ma sembra non saper bene cosa farsene.
Se anche ci chiediamo cosa trova nel film chi non ha letto il romanzo, la risposta è: non molto. E' un qualunque film di zombi a budget ridotto (col solito montaggio accelerato, che qui serve soprattutto a risparmiare tempo), oltre a tutto costellato da una serie di spiegazioni orali di ridondanza piuttosto ridicola (la più bella è il “Se ne vanno” sussurrato quando i protagonisti sono assediati nascosti sotto la barca – si ha l'impressione che in una situazione simile uno potrebbe accorgersene da solo; e in ogni caso, sarebbe meglio non farsi sentire).
La regia di Tod Williams (Paranormal Activity 2) cerca di tirar fuori quello che può da questa sceneggiatura fiacca (e, si direbbe, da attori poco convinti): butta lì qualche trovata visuale piacevole sebbene abusata (i primissimi piani degli animali imbalsamati in una scena) e solo in un paio di momenti raggiunge una sua efficacia: penso ad alcune “inquadrature vuote” (il cielo, le anatre sull'acqua) in opposizione alla tragedia in/umana, o al bel tocco di montaggio quando al movimento di macchina ascensionale lungo l'antenna del trasmettitore risponde il movimento in discesa della cascata.
I diritti del romanzo di King furono venduti nel 2006, e c'è voluta una decina d'anni per realizzare il film e per farlo uscire. Potremmo ipotizzare che anche l'evoluzione tecnica avvenuta nel frattempo cospiri a dare a Cell un aspetto stranamente antiquato (mette al centro la funzione telefonica dei cellulari, trascurando tutti gli altri aspetti di social media che veicolano). Un'altra occasione perduta per King – ma siccome ci ha messo mano lui, non potrebbe lamentarsi.

giovedì 28 luglio 2016

Tutti vogliono qualcosa!!

Richard Linklater

Uno dei massimi racconti di Borges si intitola Pierre Menard, autore del Chisciotte. In cui un erudito, Pierre Menard, produce una riscrittura contemporanea del Don Chisciotteriscrivendolo identico: ma a distanza di quattro secoli siamo noi che lo leggiamo in modo diverso.
Questo racconto torna con prepotenza alla memoria vedendo Tutti vogliono qualcosa!! (1) di Richard Linklater, il cui protagonista Jake arriva come matricola al college e fa amicizia cogli studenti – una congrega di filibustieri – con cui abiterà (fra l'altro, sono tutti giocatori di baseball con una borsa di studio, donde la loro esilarante competitività). Il divertentissimo film di Linklater rappresenta una perfetta riscrittura di un tipo di cinema americano molto frequentato in passato: la commedia giovanilistica di studenti della high school o del college smaniosi di divertimento, e in particolare assatanati per l'alcool e il sesso. Si possono citare alla rinfusa mille titoli, come Una pazza giornata di vacanza di John Hughes, Risky Business di Paul Brickman, naturalmente Animal House di John Landis, la sitcom Bayside School, e la bella trilogia di Bob Clark (poi, James Toback) Porky'sispiratrice più tardi della serie American Pie. Spesso si indica in American Graffiti di George Lucas un modello per questo genere di film, ma anche il film di Lucas si inserisce in un'evoluzione, per la quale non sarebbe fuori luogo neppure ricordare i film di Andy Hardy con Michael Rooney.
Alla base di questo topos degli studenti terribili sta, per lo più inespressa, la consapevolezza dei protagonisti di vivere in un momento esistenziale di sospensione: il momento magico e irripetibile tra la subordinazione dell'infanzia e gli obblighi dell'età adulta. “Quant'è bella giovinezza / che si fugge tuttavia”: si vive per il momento - ma incombe nondimeno il futuro, il che produce un'implicita e segreta nota drammatica. Come il western parla della fine del West, così su questa elegia della giovinezza si stende l'ombra della sua fine.
Ho usato aggettivi come inespressa e implicita a proposito della maggior parte di questi film (non certo Lucas): che non vuol dire assente, bensì inserita sotto lo svolgimento, come in filigrana. Ora Linklater assume come orizzonte e “ricanta” quel cinema di studenti scatenati. Ma quella concezione amara del tempo in cammino, della giovinezza che brucia veloce e fugge, qui sale in primo piano. Non perché sia particolarmente esplicitata, al di là della bella conversazione di Jake con l'amica Nicole su Sisifo e il baseball poco prima della fine. Piuttosto, Linklater vi allude simbolicamente con un device, la didascalia ricorrente del tempo che manca all'inizio delle lezioni, e che si riduce sempre di più; peraltro, il valore metaforico della didascalia è talmente ben mascherato sotto quello diegetico (ossia l'avvicinarsi di quella rottura di p…) che essa potrebbe tranquillamente apparire in qualsiasi dei film citati, anche quelli più spensierati come American Pie. Ma quando nell'ultima immagine Jake e il suo amico, reduci da una noche brava, rifiutano la lezione addormentandosi, tutto ciò non ci inganna; è solo un'eco del ieri; e non per nulla quando arriva Jake ha già iniziato una relazione seria.
Ecco dunque il momento di giustificare il riferimento a Pierre Menard. Noi che vediamo tutti quei film sopra citati li vediamo alla luce della storia passata da allora, la nostra consapevolezza si riflette su di essi e li modifica; Linklater con Tutti vogliono qualcosa!! li riprende con una sorta di acribia e tuttavia realizza un'opera diversa, in cui quella consapevolezza entra in primo piano. Questo perché il futuro che incombe su questi ragazzi non è solo la crescita personale ma è anche una svolta politica e culturale nella vita e nell'autoconsapevolezza della nazione. C'è un momento in Tutti vogliono qualcosa!! che sembra buttato lì ed è invece assai significativo. I giovani protagonisti passano (fregandosene altamente) vicino a due stand di ragazze: il primo ha il cartello “Carter 1980”, il secondo “Reagan-Bush”. Quali che siano le nostre personali opinioni politiche (che scrive per esempio avrebbe acquistato un badge al secondo stand), non può non apparirci chiaro che siamo a una svolta, come si dice, epocale nella storia americana. La fine degli anni sessanta (e del loro prolungamento nei settanta), per sintetizzare.
Proprio per questo Linklater ambienta in quell'epoca il suo film, che è un autentico film storico, un film in costume (in questo senso si riallaccia per lucidità al lucasiano American Graffiti, tanto che avrebbe potuto avere lo stesso titolo). E', quello del film, il tempo delle macchine da scrivere, di Kerouac letto come bibbia, degli spinelli a manetta, di Carl Sagan; è il tempo – che oggi ci sembra esotico come gli antichi romani in cui non esisteva l'AIDS e la libertà sessuale era assoluta (“S'ei piace, ei lice”), quando il massimo di preoccupazione poteva venire dalla fidanzatina che ti avverte di avere il periodo in ritardo (beninteso questa non è la realtà storica – per esempio non erano affatto assenti le malattie veneree – ma l'immagine di sé che quella società aveva; che è a sua volta un fatto storico). Il tempo in cui ciascuno poteva perseguire l'ambigua innocenza dell'apoliticità, specie per quanto riguarda la politica internazionale (anche qui, vale l'osservazione precedente). Last but not least, il tempo in cui si espresse al massimo sviluppo un concetto utopico e illusorio di eterna giovinezza. Che Linklater adombra spiritosamente nel personaggio di Willoughby, il californiano super-sfumazzato che (si scopre) ha trent'anni ma si iscrive alle università del paese sotto falso nome perché gli piace stare lì.
Tutto questo non stupisce, se pensiamo a come tutto il cinema di Linklater tenda a situarsi nel corso del tempo – la storia degli stessi personaggi lungo un arco autentico di dodici anni, girando un segmento alla volta fra il 2002 e il 2013, nel geniale Boyhood, e in forma meno radicale nella trilogia sentimentale biografico-truffautiana Before Sunrise/Before Sunset/Before Midnight. In Tutti vogliono qualcosa!! l'operazione è diversa ma coerente: Linklater cristallizza non un momento qualsiasi ma quel momento storico isolandolo nel tempo in movimento, come un insetto nell'ambra. E proponendocelo in modo che noi spettatori vediamo, al di là del singolo momento, la storia nel suo fluire. Qui entra d'obbligo la citazione di un discorso di Willoughby nella scena in cui si spinellano insieme: “trovare l'essenza all'interno della struttura… è tutta lì l'arte”.

(1) Il titolo traduce l'originale Everybody Wants Some!!, che si potrebbe meglio tradurre “Ciascuno ne vuole un po'”. Quanto ai due punti esclamativi, coerenti col titolo originale, mancano sui poster ma sono presenti sulla copia – che fa testo.

venerdì 22 luglio 2016

It Follows

David Robert Mitchell

Morte di una formica. Subito dopo lo spietato prologo (su un'altra ragazza) che apre il bellissimo It Follows di David Robert Mitchell, vediamo la protagonista Jay immersa nell'acqua della piscina, che si accorge di avere una formica sul braccio. E cosa potrebbe fare? Nuotare fino al bordo con un braccio solo per tenerla fuori dall'acqua? Comunque, neanche ci pensa: immerge il braccio e l'annega. Così per la formica Jay è un indifferente dio della morte – esattamente come quella creatura lenta e neutra (It), muta e come priva d'emozione, che nel film uccide i giovani con una atroce “gratuità” che conosciamo specialmente dall'horror orientale. Come la ragazza del prologo (il cui cadavere contorto sembra proprio una formica schiacciata). Non siamo tutti come formiche per questa forza inconoscibile? Non sembra esserci odio nella sua impenetrabilità, non mostra emozione se non la ferocia al momento dell'attacco.
Una sera Jay ha un rapporto sessuale con un ragazzo; poi questi, prima di darsi alla macchia, le confessa di averle così trasmesso la maledizione: c'è una creatura inesorabile (“Questa cosa ti inseguirà”) che segue le sue vittime per ucciderle, assumendo diverse forme umane, fra cui magari quella delle persone amate. “E' lenta, però non è stupida”. Solo la vittima può vederla; tant'è che il film presenta in un paio di casi l'uso di soggettive dei personaggi minori per mostrarci che non vedono il mostro: un salto di focalizzazione poco disciplinato, ma probabilmente inevitabile.
Chi è perseguitato dalla creatura ha un solo modo per liberarsene: la maledizione si trasferisce a un'altra persona attraverso il rapporto sessuale. Ciò ha fatto gridare molta critica alla metafora dell'AIDS; c'è del vero, ma bisogna puntualizzare, pena l'incomprensione del film. L'allusione rientra in quel grumo nebuloso di suggestioni legate al corpo fisico sul quale si organizza It Follows – che è un film sul corpo (e di conseguenza sulla percezione), non sul sesso o la malattia; se c'è tanta importanza della sessualità è perché la materialità del corpo trova nella sessualità un punto nodale, tanto più nella condizione insicura e magmatica dell'adolescenza. E infatti, l'AIDS è contagioso mentre qui è vero il contrario, perché la maledizione si trasmette per via sessuale ma chi la trasmette se ne libera. A questo punto l'analogia evidentemente non vale più, e piuttosto siamo a quel topos dell'horror che potremmo chiamare della “maledizione a staffetta”. Molto opportunamente in una recensione Rudy Salvagnini ne allega un esempio famoso, il racconto Casting the Runes di Montague Rhodes James.
Sul che si innesta un discorso del tutto differente da quello del contagio, che è quello dello scambio. Mors tua, vita mea, con tutti i suoi addentellati morali: ecco il tema del film. Non è casuale il gioco di carte che vediamo fare ai giovani protagonisti, sul quale l'inquadratura insiste in dettaglio: è una variante di quel gioco che in Italia, almeno nel Nordest, si chiama popolarmente “pampalugo”, e in America è “l'uomo nero” (devo quest'ultima informazione a Francesca Sorbilli): si scartano le coppie e fa pescare una carta a un altro giocatore, cercando di fare in modo che rimanga con l'unica carta non accoppiata, col che ha perso.
Le diverse apparizioni della creatura sono accomunate da qualcosa di bizzarro, di unheimlich, che riporta certamente l'incongruo ma anche il censurato, il non guardabile: la nudità, i fluidi corporei che scorrono lungo le gambe, la brutale decadenza fisica della vecchiata; mentre l'angoscia della trasformazione dei familiari in mostro ha una lunga storia nell'horror, dal vampirismo alla trasformazione in zombi della bambina che uccide e mangia i genitori ne La notte dei morti viventi. Più in generale, proprio come con gli zombi lenti e sonnambulistici del capolavoro di Romero, la comparsa stessa di una persona sul fondo è un campanello d'allarme; in modo stridente la normalità si rovescia in pericolo. Così in It Follows la vittima scruta con angoscia l'essere umano che appare e che potrebbe non essere umano, e scambia coi suoi amici interrogazioni angosciose che riecheggiano continuamente nel film: “La vedete…?”, “Che cosa vedi?”
La scena sulla spiaggia, con l'avvicinamento del mostro sotto la forma di una donna in maglietta bianca, illustra perfettamente la strategia narrativa di Mitchell, che trasmette (delega) l'inquietudine e l'allarme allo spettatore prima che ai personaggi (tant'è vero che la score di Disasterpeace serve a sua volta a caricare di allarme un'immagine neutra, modificandone la nostra percezione). Anche ciò contribuisce a dar ragione delle scelte linguistica del film col suo uso dei campi lunghi. It Follows si caratterizza per un ritmo narrativo ampio e disteso, opposto al montaggio isterico oggi di moda, che rinforza l'effetto di spiazzamento. Il sontuoso piano sequenza iniziale, comprendente una panoramica a 360 gradi, esprime un'onnipotenza dello sguardo della mdp che è un'onnipotenza dello sguardo dello spettatore – ma che si rovescia in un'onnipresenza della minaccia: con una folgorante equazione il film ci dice che se tutto è visibile allora tutto può essere visto. Non esiste salvezza.
La difficoltà nel parlare di questo film è di non trovarsi ridotti a ripetere molte buone osservazioni che sono state già fatte in campo critico. Qui è d'obbligo citare almeno un'eccellente recensione di Stefano Lo Verme su Movieplayer.it, contenente fra l'altro l'osservazione fulminante che nel film l'ambientazione diegetica contemporanea è attraversata da richiami costanti agli anni Ottanta, “quasi a voler conferire all'intero racconto un sostrato onirico ma in maniera sottilissima, quasi impercettibile”.
Si potrebbe aggiungere che la sovrapposizione di questi due tempi ci riporta immediatamente a David Lynch. E che il riferimento non sia peregrino è dimostrato dalla scena in cui Jay, barricata in camera, si lascia convincere dagli amici ad aprire la porta, ma dietro l'amica Yara compare la creatura persecutrice in forma di un uomo gigantesco: e questo gioco di sproporzione delle dimensioni fisiche è puro Lynch. Ancora sui riferimenti cinematografici, tutta la critica ha giustamente menzionato John Carpenter; bisogna poi citare per la scena della piscina Jacques Tourneur – del quale It Follows, se non riprende l'ingegnosa ambiguità, certamente riecheggia la sensazione “lewtoniana” di un mondo assurdo che non perdona.
It Follows è un film estremamente intessuto, colmo di rime, analogie, rimandi, e di riferimenti calzanti sia sul piano della cultura alta (Dostoevskij, Eliot) sia di quella popolare, coi due film di fantascienza povera degli anni cinquanta-sessanta in b/n che vediamo trasmessi alla televisione. E' un film ricchissimo di suggestioni che si aprono nel testo - ne suggerisco un paio: il ritorno all'infanzia come fuga; l'acqua come simbolo di salvezza (cfr. anche il dialogo – ripetuto, con uno strappo al realismo – del secondo film visto in tv). Ma forse quello che meglio funziona da chiave del film è il riferimento finale da L'idiota di Dostoevskij, che così si può (goffamente) parafrasare: la tortura è orribile ma la vera tortura è, al di sotto di essa, l'avvicinarsi implacabile della morte. “La cosa peggiore è questa certezza”. Ecco, questo seguire implacabile – che forse o senza forse continua nell'ambiguo finale – è la morte.