giovedì 29 settembre 2016

Blair Witch

Adam Wingard

Il cinema POV (in cui tutta la vicenda è vista come registrazione di una telecamera, con la giustificazione diegetica di un documento girato sul campo) ha un suo indubbio fascino di pseudo-realismo aggiuntivo – e questo è il motivo per cui esso viene applicato principalmente alla dimensione del fantastico. Si parva licet componere magnis, è paragonabile all'uso della prima persona in un racconto. Se c'è nella storia narrata (ossia sul piano diegetico) un filmato, ci dev'essere un filmante; per cui alla classica domanda “chi filma?”, il film risponde “il personaggio stesso”, rinunciando audacemente a proporre l'illusione di “farsi da sé”.
Eccoci dunque davanti al POV Blair Witch, deplorevole sequel del bellissimo (sempre POV) The Blair Witch Project – Il mistero della strega di Blair del 1999 (tra i responsabili ci sono, spiace dirlo, Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez, i registi del primo film). Un gruppo di quattro ragazzotti, due maschi e due femmine, decidono di compiere la fatidica ricerca della casa misteriosa che compariva nel filmato originario. Uno di loro è personalmente coinvolto, essendo il fratello minore di Heather, la protagonista scomparsa del primo film. Al gruppo si aggiungono due tipi un po' ambigui, un ragazzo e una ragazza del luogo, che dicono di sapere qualcosa e possono fare da guida (viene eliso dall'universo diegetico del film il primo sequel, BW2 – Il libro segreto delle streghe, di Joe Berlinger). Molto confidenti nella tecnica, i nostri eroi partono provvisti di videocamere auricolari con GPS incorporato, una per ciascuno, una telecamera HD fissa e perfino un drone.
E' proprio questa moltiplicazione degli apparati di ripresa a provocare la seconda domanda, che manda al tappeto Blair Witch. Okay per “chi filma”; ma “chi monta?”
Non c'è neanche l'invenzione (come in The Blair Witch Project) del ritrovamento e del possibile editing del materiale. Siamo dentro la registrazione nel momento stesso in cui viene effettuata, e così, chi sceglie fra le differenti registrazioni? Lo stesso passaggio da una telecamera all'altra è editing. Ci sono dei campi e controcampi di dialogo. Ci sono dettagli, che implicano un montaggio: un personaggio guarda la registrazione della telecamera fissa (posizionata su un ramo) sul suo tablet e noi vediamo in dettaglio quello che vede. Nel finale, quando la ragazza striscia nel tunnel, vediamo la sua telecamera che riprende parte del suo corpo – e vediamo anche un controcampo di lei inquadrata da davanti, come se fosse ripresa in un'inquadratura oggettiva. In altre parole, in Blair Witch c'è (ingenuamente visibile) un'istanza superiore che si occupa del montaggio.
Certo, potremmo postulare per convenzione che come spettatori abbiamo il potere di spostarci fra le varie registrazioni visive (magari con momenti di racconto “oggettivo”), recuperando l'onnipotenza dello sguardo del cinema in generale; ma a questo punto, evidentemente, risulta distrutta l'essenza stessa del film POV. Per inciso, Blair Witch non è il primo o il solo film a cadere in questa trappola; diciamo però che lo fa con una percentuale di ingenuità (o sciatteria) che altri stanno ben più attenti ad evitare.
Se anche a qualcuno tutto ciò non importasse, comunque la sceneggiatura è frammentaria e fiacca. Il film non ha un'ombra della drammaticità, della convinzione, della naturalezza dei personaggi di The Blair Witch Project. Gli unici momenti che fanno effettivamente correre un brivido sono solo due: quando qualcosa si muove dentro la ferita infetta nel piede di una ragazza, e quando ricompaiono due dispersi e scopriamo che sono passati cinque giorni (mentre noi coi protagonisti abbiamo “vissuto” solo una notte). I personaggi sono scialbi e mal definiti (per inciso: non per essere politically correct, ma perché nelle cattive sceneggiature, se nel gruppo c'è un negro, dev'essere sempre il più stupido della compagnia?). La loro logica comportamentale lascia pesantemente a desiderare (esempio: l'unico che crede fin dall'inizio alle forze malefiche del bosco è quello che si allontana dal gruppo in piena notte perché ha sentito un rumore inquietante e va a vedere).
Va aggiunto che Blair Witch cerca, com'è naturale, di costruirsi sul gioco fra intelligibilità e inintelligibilità dell'immagine, con la mimesi delle telecamere fuori controllo, gli errori di ripresa, i difetti tecnici e quant'altro; ma questi “errori” nel presente film appaiono più che altro opportunisti, tesi soprattutto a tener desto l'aggancio visivo dello spettatore. Un film POV “deve” avere una costruzione frammentaria, scomposta e frazionata; ma qui lo fa con un girare in tondo per cui un film di 89 minuti sembra lunghissimo. A dirla tutta, più che un sequel sembra in effetti un cattivo remake. 
 

giovedì 22 settembre 2016

Independence Day - Rigenerazione

Roland Emmerich

Roland Emmerich è un regista assai diseguale, che ci ha dato opere passabilmente buone e altre francamente brutte. Independence Day – Rigenerazione appartiene al novero delle buone – anche se non è bello come il film originario di cui è il sequel.
Il primo Independence Day (1996) fu una specie di grido nella notte, stranamente profetico. Come fu subito notato (anche polemicamente), era una critica esplicita e sarcastica al buonismo spielberghiano. Basta ricordare due battute di Will Smith: “Sono solo un tantino ansioso di andare lassù a spaccare il culo a E.T.” e (dopo il cazzotto all'invasore alieno) “Questo è quello che chiamo incontro ravvicinato”. Come in X-Files, la verità è là fuori, ma soprattutto c'è qualcuno là fuori che non è particolarmente amichevole. Il film comincia sulla Luna, dove la targa messa nel 1969 e piena di ottimismo viene coperta dall'ombra minacciosa dell'astronave aliena.
Semplice buon senso, diremmo oggi, ma riportiamoci al 1996: era l'epoca dopo il crollo dell'Unione Sovietica quando Francis Fukuyama aveva teorizzato la “fine della storia”. Il mondo sembrava avviato alla pacificazione, e le sue contraddizioni destinate a risolversi nella marcia del progresso (e del libero mercato). Pochi anni dopo, l'11 settembre 2001 suonò un brusco risveglio.
E si vide che Independence Day non era una fantasia scollegata dalla realtà (e reazionaria, aggiungevano i più ideologizzati). Certo, c'erano i musulmani jihadisti e non i marziani; ma che ci fosse il nemico fuori dalle porte, lo aveva visto con esattezza chirurgica (per la cronaca, un altro film che accennava allo stesso concetto – sebbene in modo più laterale ai fini della trama – fu True Lies di James Cameron). Adesso che di tutte quelle illusioni è rimasta terra bruciata (o ground zero), cosa può dirci che già non sappiamo un sequel di Independence Day? A parte ovviamente il divertimento immediato?
Infatti in Independence Day – Rigenerazione, ambientato esattamente vent'anni dopo, c'è un indebolimento della risonanza metaforica. Ma ciò anche perché, mentre il punto di riferimento del primo film era il mondo reale, quello del secondo è il film originario: com'è giusto, visto che la tentata invasione aliena del primo film ha instaurato una timeline alternativa che col nostro mondo attuale non ha rapporti. Ovvero, là andava a pezzi il “vero” 1996, qui ci troviamo in un 2016 del tutto svincolato dalla realtà attuale. Sono vent'anni che non ci sono guerre e l'umanità vive relativamente in pace. Evidentemente per gli uomini – questa sanguinaria razza di scimmie! – solo l'esistenza di un nemico in agguato può rappresentare un motivo per smettere di combattersi. E personalmente sono convinto che gli sceneggiatori, Roland Emmerich, Dean Devlin e altri tre, siano ancora troppo ottimisti.
Su questa timeline alternativa piomba il colpo di maglio di un nuovo attacco, rinforzato, degli extraterrestri. C'è il tentativo di Emmerich di giocare sul potenziamento della grandezza (che già era una carta vincente del primo film). Se nel film originario l'astronave madre era gigantesca, in questo ha 3000 miglia di diametro – ispirando la battuta più memorabile del film. Va subito detto però che Independence Day – Rigenerazione non è capace di mantenersi su questa inconcepibile scala di grandezza, e la descrizione della lotta torna a dimensioni più contenute. Comunque, grandi abbastanza per devastarci. L'immagine della nave aliena che “ara” la città come fosse un campo non si lascia dimenticare. La CGI assume il suo ruolo più ovvio, potenziare fino all'inimmaginabile “l'immagine del disastro” – e lo fa indubbiamente bene.
In contrapposizione al revisionismo di molto cinema commerciale contemporaneo (per cui sequel = remake = reboot), Independence Day – Rigenerazione attinge pienamente alla riserva narrativa e retorico-morale del film originario; risentiamo anche il grande discorso “churchilliano” del presidente Whitmore. Però con l'introduzione della sfera bianca entra nell'universo diegetico di Independence Day il concetto di una guerra galattica e di un “pianeta della resistenza” popolato di rifugiati. Questo concetto lucasiano (ma la presenza di George Lucas è visibile in tutta la saga) permette di ipotizzare una via di fuga a quella che altrimenti sarebbe una coazione a ripetere nel caso di ulteriori sequel (altrimenti, quanto dovrebbe essere grande la prossima astronave?).
Siccome è il 4 luglio 2016, e gli extraterrestri tornano a rompere mentre si festeggia il ventennale di quello del primo film, Independence Day – Rigenerazione deve fare i conti col film precedente anche in termini di personaggi, giacché – secondo la buona regola dei film di catastrofi – quel film saltava su una pluralità di linee narrative (alla fine convergenti). Il sequel fa una scelta logica, eppure coraggiosa: richiama in servizio con identico ruolo di co-protagonisti tutti i personaggi di vent'anni prima. Fa eccezione Will Smith, per la cui mancanza all'appello la sceneggiatura inventa che il personaggio è morto in un incidente di collaudo in passato; è presente solo in un paio di foto, nonché nella persona del figlio, o più precisamente figliastro, che abbiamo visto bambino nel primo film (i figli sono peraltro il modo per introdurre attori giovani nell'insieme). Ci si chiede, per inciso, se non sia la morte diegetica di Will Smith a propiziare la morte, nel presente film, della sua vedova; perché se fosse stato vivo probabilmente gli sceneggiatori gliel'avrebbero fatta riabbracciare sana e salva alla fine; basta vedere 2012 per capire che per Emmerich le catastrofi planetarie servono a far ritrovare le coppie.
Così la caratterizzazione dei personaggi trova una sfumatura di profondità assumendo nella propria definizione la percezione automaticamente drammatica (vedi in particolare l'ex presidente Whitmore, Bill Pullman) del tempo che passa. Viene anche elaborata una nuova importanza per un personaggio secondario del primo film, lo scienziato picchiatello interpretato da Brent Spiner. Independence Day – Rigenerazione è una vera e propria rimpatriata, e questo non è l'ultimo dei suoi motivi di attrazione, magari artisticamente modesti - ma sicuri.