mercoledì 30 novembre 2016

Romeo and Juliet

regia teatrale di Kenneth Branagh e Rob Ashford

(Possibile sottotitolo: Note di un conservatore). Spiace dirlo, ma è una doppia delusione il Romeo and Juliet diretto da Kenneth Branagh e Rob Ashford per la Kenneth Branagh Theatre Company al teatro Garrick di Londra, e visto nei cinema grazie alla benemerita Nexo Digital.
Una doppia delusione - ove la prima delle due riguarda la regia delle riprese cinematografiche di Benjamin Caron. Questa sembra concepita per illustrare il detto “Il meglio è nemico del bene”. Dobbiamo spiegare che l'idea base dello spettacolo (di cui parleremo dopo) è di mettere in scena la tragedia in un'Italia fine '50 inizio '60, con esplicito riferimento a film come La dolce vita. Per questo, Caron e Branagh hanno pensato bene di usare il bianco e nero: al cinema, assistiamo allo spettacolo teatrale in un b/n che comprende le inquadrature del pubblico e del sipario.
Qui si tocca il problema passabilmente spinoso di quel terrain vague che si stende fra il teatro e la sua registrazione. E' inevitabile - e benvenuto! - in questo tipo di “teatro sullo schermo” un elemento di montaggio, per variare il punto di vista e soprattutto per rendere i primi piani degli interpreti. Si può anche accettare (controvoglia per quel che mi riguarda) la regia molto libera di Caron con zoom e angolature dall'alto che concretizzano un'esperienza visiva ancor più lontana dalla visione teatrale.
Ma con l'entrata del b/n siamo del tutto fuori dal teatro. Perché il teatro è la vita, la materialità, la realtà sul palco; una realtà che comprende il colore per sua natura. Onde se vuoi suggerire il b/n devi agire sulla messa in scena, non sulla sua registrazione.
Si dirà; ma appunto di registrazione si tratta, e non dello spettacolo. Ma, rispondo, si tratta di una registrazione che vuole aggiungere abusivamente un di più allo spettacolo: così quello che vediamo è un object inconnu a metà strada: non è più teatro e non è ancora cinema. Il compromesso è fallito; l'aura è andata a farsi friggere.
La delusione, tuttavia, riguarda anche la messa in scena in sé. Come già detto, lo spettacolo di Branagh evoca un'Italia (con tratti più meridionali che veronesi, a dire il vero) intorno al 1960; fra l'altro, a creare il colore locale, abbondano pesanti interpolazioni in (cattivo) italiano. Va detto per inciso che quest'italianità si esprime nei costumi e negli oggetti di scena, non nella scenografia minimale. Ad ogni modo, lo spettacolo sembra una copia poco riuscita di quello che, in passato al cinema, aveva fatto assai bene Baz Luhrmann (Romeo+Juliet, che si reggeva, giova ripeterlo, su un uso dell'anacronismo geniale e calibratissimo).
Si capisce bene l'intento: sul piano della messa in scena Romeo e Giulietta è la tragedia shakespeariana più a rischio di trasformarsi in figurina dei cioccolatini. Ma la legittima ricerca di un approccio originale non autorizza a certe soluzioni infelici (Giulietta all'inizio della scena del balcone è ubriaca come un lord) o ridicole (il Principe in divisa da carabiniere) o che stridono col testo (Romeo che fa un gestaccio a Tebaldo nella scena della pace; Frate Lorenzo che è molto più giovane di Romeo).
Per inciso, ci si potrebbe anche chiedere come fa Tebaldo, figlio del fratello del vecchio Capuleti, a esser nero; se l'attore fosse stato migliore, gli si poteva dare la parte di Frate Lorenzo, e contenti tutti.
E' un peccato perché il cast è generalmente buono; vanno ricordate in particolare Giulietta (Lily James) e la Nutrice (Meera Syal); e ovviamente il venerando Derek Jacobi nella parte di un Mercuzio anziano è delizioso, anche se soffre un po' dei limiti della messa in scena nella scena del duello.
Naturalmente una regia di Kenneth Branagh non manca mai di buone idee. Impressivo il finto suicidio di Giulietta la notte prima del matrimonio con il conte Paride, con quella drammatica caduta di veli/cortine. Ed è certo un bene che che sia rispettato, e anzi messo in evidenza, il carattere bawdy, sboccato, di molti passaggi del testo shakespeariano (io a tal proposito avrei mantenuto l'intera scena iniziale degli uomini di casa Montecchi, qui sacrificata). Tuttavia, un po' di maggiore ponderazione sarebbe stata necessaria; s'intervenga quanto si vuole, ma lo si faccia senza mano pesante; ed è lo stesso Branagh in molte regie teatrali e cinematografiche (vogliamo ricordare il suo bellissimo Amleto ottocentesco?) ad averlo dimostrato.


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