martedì 31 gennaio 2017

Trieste Film Festival 2017

Poiché sono potuto andare solo per due giorni al Trieste Film Festival 2017, questa noterella non pretende di fornire un quadro complessivo del festivalla cui raison d'être è, com'è noto, l'attenzione al cinema dell'est europeo. Ricordo solo a titolo d'informazione che questo bel festival, ricco anche di iniziative a latere, presentava accanto ai film di fiction e documentari in competizione (principalmente, ma non solo, dell'est europeo) una personale del grande documentarista russo Vitalij Manskij, il premio Corso Salani per il documentarismo italiano, e una quantità di importanti sezioni collaterali. Fra gli eventi speciali ricordo l'ultimo film, purtroppo, del maestro polacco Andrzej Wajda, il Padre padrone dei Taviani nell'ambito di un omaggio a Omero Antonutti, nonché l'ultimo (brutto) film di Emir Kusturica, già visto a Venezia.
Mi limito quindi a qualche annotazione sui film visti, usando per comodità del lettore il titolo internazionale. E parto con il potente film rumeno Scarred Hearts di Radu Jude. Storia del soggiorno in sanatorio e della morte di un giovane intellettuale malato di tubercolosi ossea, negli anni trenta, Scarred Hearts è tratto – anche con molte citazioni dirette – dal romanzo autobiografico dello scrittore e poeta Max Blecher, scritto prima di morire. Mentre il film delinea la psicologia del protagonista e dei suoi amici ed il clima intellettuale e politico romeno (sono gli anni del fascismo montante di Codreanu e della Guardia di Ferro), emerge con forza indimenticabile l'affresco impietoso della malattia. Ed ecco, nella gabbia della malattia e del trattamento ospedaliero, la quotidianità, i sogni, perfino il sesso di questi giovani intellettuali malati, creature febbrili e rassegnate insieme, fra il sogno della guarigione e la coscienza sotterranea della sua impossibilità. Il film è sorprendente nella capacità di sostituire alla normalità che conosciamo l'altra normalità della vita in sanatorio – ed è inevitabile pensare a La montagna incantata di Thomas Mann.
Mentre non è una sorpresa la bellezza di Afterimage di Andrzej Wajda. Wajda è stato uno dei pochi registi capaci di fare grande cinema storico mantenendo la stessa semplicità “illustrativa” del cinema comune, eppure raggiungendo un alto e commovente livello artistico. Il film narra gli ultimi anni del grande pittore Wladislaw Strzeminski, perseguitato dal regime comunista polacco (siamo nell'epoca buia dello stalinismo) perché non si piega all'imperativo del “realismo socialista”. Strzeminski viene cacciato dall'insegnamento, espulso dall'unione dei pittori, non trova lavoro e soffre la fame; ciò affretta indubbiamente la sua morte per tubercolosi. In una scena all'inizio del film Strzeminski sta per cominciare a dipingere, e la tela bianca diventa rossa: perché la luce della finestra passa attraverso un enorme ritratto di Stalin appena issato sulla facciata della casa; un esempio fra tanti della capacità di Wajda di far scaturire l'immagine metaforica dalla vita stessa, anziché sovrapporcela.
Parlato in rumeno ma di produzione moldava è il notevole Anishoara di Ana-Felicia Scutelnicu. film lento e meditabondo, come sospeso, scandito in quattro stagioni che raccontano le stagioni della vita di Anishoara, una ragazza di villaggio che passa dall'adolescenza all'età adulta anche tramite un amore infelice. Lento, poco parlato, impegnativo ma capace di conquistare, il film è eccellente nel trasmettere la sensazione del tempo: sia quello immediato del momento sia quello “lungo” del passare delle stagioni, e nel suggerire senza drammaturgia, quasi con oggettività da documentario, la vita segreta dei sentimenti.
Il film vincitore del concorso lungometraggi, il serbo A Good Wife, è l'opera prima come regista della famosa attrice Mirjana Karanović – un buon film, ma che soffre di una sceneggiatura troppo prevedibile. Una casalinga di buon livello economico si vede crollare il mondo addosso: scopre di doversi sottoporre a una mastectomia e scopre una videocassetta che mostra crimini di guerra commessi dal marito su prigionieri bosniaci. E' certo una riflessione sulla Serbia e il passato che non passa perché non è riconosciuto (nella scena in cui la vicina di casa butta nella spazzatura la vecchia giubba militare di suo marito si può vedere una metafora della Serbia che rimuove il proprio recente passato anziché affrontarlo), ma si focalizza sui rapporti umani all'interno della famiglia e sulla psicologia della protagonista. Con ottime interpretazioni, fra cui in primis quella dell'attrice-regista.
Infine, due importanti documentari a dimensione di lungometraggio. Il primo è Like Dew in the Sun di Peter Entell. Il regista, figlio di emigrati ebrei ucraini, va alla ricerca della memoria e delle tombe dei suoi bisnonni in Ucraina, una terra (dicono racconti e canzoni che sentiamo nel film) imbevuta di sangue – dove da sempre è un “tutti contro tutti” etnico. Così l'odio feroce dell'attuale guerra civile, di cui Entell ci dà un reportage impressionante, si inserisce nel ricordo di una spirale inestinguibile di antichi odî e antichi dolori – gli ebrei, certo, ma anche i tatari ucraini, già deportati da Stalin e poi ritornati (i sopravvissuti).
Il secondo è Doomed Beauty di Helena Treštikova e Jakub Hejna, prodotto dalla televisione ceca, che ripercorre – intervistando la vecchia attrice prima della morte a 86 anni nel 2000 – la storia di Lida Baarova. Lei fu negli anni trenta una diva del cinema ceco e di quello tedesco, respinse una carriera a Hollywood, e dopo la sua disgrazia lavorò anche in Italia (appare ne I vitelloni di Fellini). La sua disgrazia, perché naturalmente oggi Lida Baarova è ricordata non per la sua carriera artistica ma per essere stata l'amante del gerarca nazista Josef Goebbels. Ciò la trasformò in Cecoslovacchia nel simbolo del collaborazionismo; dopo la guerra fu imprigionata, poi liberata, e dopo il colpo di stato comunista del 1948 fuggì avventurosamente in Austria per non essere arrestata di nuovo. Nel documentario ammette con l'intervistatrice che nessuno dei suoi ruoli è stato tanto drammatico quanto la sua vita. Un film sulla storia della vita di Lida Baarova (è il sottotitolo) – ma anche un film sulla cecità. Fra tutte le immagini che vediamo, footage storico e schegge di film, la più sconvolgente è questa donna vecchia, ancora con la traccia dell'antica bellezza, piena di amarezza (“I giorni non mi portano più niente… Non desidero niente, niente del tutto”), che fuma una sigaretta dietro l'altra e a volte si commuove e si mette a piangere sulla rovina della sua vita – che ha attraversato senza capire ciò che le succedeva intorno.

Nessun commento: