giovedì 21 settembre 2017

La fine del Rat-Man


Non ero così dispiaciuto, sul piano del fumetto, da quando nel lontano 1985 ha chiuso “Zora” (la vampira). Con il numero 122 si è concluso “Rat-Man” di Leo Ortolani.
Questa superba epopea dell'esagerazione comica (e della parodia: i suoi rifacimenti cinematografici e fumettistici ci hanno accompagnato negli anni) aveva tanti motivi di attrazione ma qui ne cito solo uno: la capacità geniale dell'anticlimax, la battuta conclusiva che rovescia (e degrada) un discorso. Gli anticlimax di Leo Ortolani sono belli quanto quelli di Woody Allen, e so benissimo che non è un complimento da poco.
Si capisce che dopo 20 anni Ortolani voglia trovare degli spazi nuovi – e tuttavia noi lettori ci sentiamo abbandonati come Linus senza la sua coperta. Non tanto per il Rat-Man, la cui parabola esistenziale arriva dignitosamente alla conclusione, ma per il gruppo di co-protagonisti che non incontreremo più.
E fra questi saluto in particolare due signore di cui mi piacerebbe avere il numero di telefono: Clara, la moglie super-infedele del capitano Brakko, e soprattutto Cinzia Otherside, formidabile, sfacciatissimo e tenero transessuale che – per motivi non facilmente comprensibili – è corso/a dietro al Rat-Man per tutta l'interminabile serie.
Interminabile ma ahimè terminata.

giovedì 14 settembre 2017

Dunkirk

Christopher Nolan

Mettiamo le mani avanti: Dunkirk di Christopher Nolan è un buon film di guerra. E' adeguatamente emozionante durante la sua ora e tre quarti e lo spettatore non esce insoddisfatto. Sennonché... e già, c'è un sennonché.
Ci sono film che crollano sotto il peso delle loro ambizioni. Per Dunkirk la faccenda è un po' diversa, forse più gloriosa, forse meno: Dunkirk crolla sotto il peso del suo trailer. In altre parole, il trailer che ha battuto ossessivamente i cinema era così ben realizzato da farci entrare con grandi aspettative (poi c'entra qualcosa anche il nome del regista); ci aspettavamo non già un film discreto ma un capolavoro del cinema bellico – e non lo abbiamo avuto. Sulla drammatica evacuazione di Dunkirk (che fuori dal mondo di lingua inglese sarebbe Dunkerque, ma pazienza) ci ha detto di più in pochi asciutti minuti il capolavoro di Noël Coward e David Lean In Which We Serve che tutto il film di Nolan.
Vediamo innanzitutto gli aspetti positivi. Dunkirk è un incrocio di linee geometriche che si dipartono da un punto che è la spiaggia: dove – in quella che è l'immagine più memorabile del film – linee di soldati inglesi aspettano in fila ordinata un possibile imbarco per la salvezza. Verso questo punto focale si dirigono le navi di salvataggio e le imbarcazioni dei civili inglesi, qui rappresentate per sineddoche dal piccolo yacht di Mr. Dawson, come pure gli Spitfire della RAF, come angeli vendicatori, che si impegnano in combattimento contro gli aerei tedeschi. Da questo punto focale si allontanano le navi cariche di soldati in ritirata, magari destinate a una triste fine per le bombe e i siluri nemici. Questo sistema spaziale è ricco di fascino e dà una struttura forte al film.
Un'idea molto efficace è che il nemico nel film non ha volto. I tedeschi che stringono d'assedio l'esercito inglese “parlano” all'inizio attraverso i volantini che fanno piovere dai loro aerei, ma per il resto del film rimangono un nemico esterno, quasi astratto, che si manifesta dal fuori campo attraverso cannonate, fucilate e siluri; vediamo solo gli aerei della Luftwaffe, di cui però indicativamente non vengono mai inquadrati i piloti (in netto contrasto con quelli della RAF). I soldati tedeschi appaiono come ombre indistinte solo in un segmento del finale.
Le scene più interessanti sono quelle di guerra aerea; qui il film mostra in modo eccellente la “fatica” del combattimento aereo, le difficoltà a inquadrare l'aereo nemico nel mirino e a colpirlo con le mitragliatrici in un punto vitale.
Dove Dunkirk è carente invece è sul piano umano, e questo è il grave limite della sceneggiatura, anch'essa firmata da Christopher Nolan. Questi soldati sono anonimi (e no, non possiamo farlo passare come simbolismo, poiché tutto l'impianto del film si muove in direzione contraria).
Probabilmente ciò è anche causato da una scelta narrativa che sulla carta sembra vincente: frazionare il racconto in una serie di sottostorie in un ossessivo montaggio parallelo – che viene però indebolito dall'incapacità del film di costruire degli autentici personaggi/episodio. Anche quei personaggi cui viene dato più spazio, non è che emergano a tutto tondo sul piano psicologico. In generale i personaggi non hanno consistenza – il che equivale a dire che ormai Hollywood ha perduto una delle componenti più preziose della sua eredità classica.
A tal proposito devo richiamarmi, in contrapposizione a questo film, alla lezione figurativa del cinema bellico inglese (anche realizzato “in diretta” durante la guerra, come il film di Coward e Lean sopra citato) – il quale poi era influenzato dalla grande scuola documentaristica dei Grierson e dei Jenkins.
L'elemento di maggior consistenza umana prima del solenne pre-finale, quando il mare davanti a Dunkirk si riempie delle piccole navi dei civili inglesi accorsi al salvataggio (ma perché così poche in un film ricchissimo di effetti speciali?), l'ho trovato all'inizio del film, quando i soldati francesi sulla barricata gratificano di sguardi ostili e di un sarcastico “Bon voyage” il soldatino inglese in fuga. Fuga che, beninteso, era una necessità strategica. “Dobbiamo riprendere il nostro esercito”, dice il contrammiraglio - perché la temuta invasione nazista dell'Inghilterra è alle porte. Nella ritirata di Dunkerque vengono salvati, che nella logica spietata della guerra vuol dire risparmiati, 335.000 soldati (non avere usato i carri armati fu il grande errore strategico di Hitler, sul quale ancora si discute).
In conclusione, l'impressione generale che lascia Dunkirk è che tutto quello che il film dice sia già stato detto meglio. Sulla tragedia della guerra fra mare e sabbia resta inarrivabile la sconvolgente apertura di Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg. Le esplosioni disastrose sulle navi col massacro di chi c'è sopra non valgono quelle del recente e superbo The Eternal Zero di Yamazaki Takashi. Più in generale, il senso di minaccia e di intrappolamento (la tragedia di Dunkerque, come di Dien Bien Phu o simili, è quella della condizione dell'animale in trappola) viene espresso adeguatamente sul piano narrativo ma sarei perplesso a dire che il film riesca a trasmetterlo compiutamente in modo empatico, né l'angoscia del tempo che sgocciola via. Avete visto per esempio il dimenticato Hunde, wollt ihr ewig leben (Stalingrado) di Frank Wisbar? E la frenesia disperata della sconfitta l'abbiamo vista molto meglio, per fare un nome illustre, in Michael Cimino.
Tuttavia, mi sembra giusto aggiungere che non è fair play nei confronti di Nolan criticarlo per non aver raggiunto quei livelli; è più giusto paragonarlo a Nolan stesso; e anche qui, bisogna dire che Dunkirk non vive al livello della drammaticità potente di Interstellar (“Non sono montagne, sono onde!”) o di altre opere nolaniane.

domenica 10 settembre 2017

Easy

Andrea Magnani

Un viaggio, si sa, mentre è un percorso all'esterno, da A a B sulla carta geografica, contemporaneamente è un percorso interno, è un viaggio dentro di noi.
Di questo parla Easy, scritto e diretto da Andrea Magnani, una coproduzione italo-ucraina distribuita dalla Tucker Film, valorosa casa di distribuzione friulana attenta – oltre che alla produzione locale e al cinema asiatico (sull'onda del Far East Film Festival) – al cinema dell'Est europeo.
Easy sarebbe il protagonista Isidoro (il bravo Nicola Nocella); ma easy è anche il compito che deve assolvere su incarico del fratello maneggione. Infatti il film reca sui manifesti, ma non sulla copia, il sottotitolo “Un viaggio facile facile”. Si tratta di riportare in Ucraina, passando per l'Ungheria, la bara di Taras, un muratore immigrato morto in un incidente per le cattive condizioni di sicurezza, per cui meno se ne sa meglio è. Easy è un uomo chiuso in se stesso: un ciccione depresso cronico, imbottito di tranquillanti, quasi catatonico; ma in gioventù è stato campioncino di go-kart e poi campione automobilistico, così in teoria sarebbe la persona adatta per quel lungo viaggio. La sua backstory viene rivelata a poco a poco. La sua carriera è finita quando si è addormentato in pista a pochi metri dal traguardo (per colpa dei tranquillanti di cui si faceva) – e nota che è la stessa cosa che vediamo capitargli durante il viaggio quando fa un giro per gioco con il muletto su una pista abbandonata. E' un tratto intelligente del film che quest'ultimo piccolo episodio si veda prima che noi sentiamo raccontare dell'episodio che ha terminato la sua carriera: in tal modo, esso è deprivato di un simbolismo altrimenti troppo evidente.
Se c'è un oggetto che può riassumere il personaggio di Easy è quel divano-finta-automobile che vediamo all'inizio del film. Da un lato, a livello diegetico, è finzione bizzarra, è il ricordo di un'auto, un simulacro che riprende (e per lo spettatore parodizza) i sogni infranti di Easy come campione automobilistico. Dall'altro, a livello simbolico, quella finta auto imprigiona Easy che ci si siede dentro a fare videogiochi di corse, rappresenta una gabbia psichica, dalla quale la peripezia del film lo farà uscire. Molto giustamente, mentre l'inizio insiste sui suoi primissimi piani di sguardi in macchina con aria scema – il che se fosse proseguito rischiava di divenire un tratto filmico troppo persistente – questo modo di inquadrarlo è mantenuto solo nell'apertura (che peraltro è la parte meno convincente del film).
Naturalmente in questo delirante viaggio-con-bara tutto va storto; nel suo vortice di sfiga, il film diventa una specie di catalogo dei Terrori del Viaggiatore Inesperto. Assai divertente, certo, e pieno di gag indovinate; ma al di là dell'aspetto comico, il viaggio di Easy assume un aspetto di sospensione stupefatta e fantastica. Epopea dello smarrimento in terra straniera, Easy è un grande film di visi. Indimenticabile il vecchio sul carro, indimenticabile l'anziana che serve ai due la zuppa, ma in generale c'è un “gusto fisionomico” che in qualche modo è tipico del mondo contadino est-europeo. Una menzione particolare deve andare alla fotografia di Dmitryi Nedria, che restituisce ottimamente le fisionomie, le atmosfere (queste fredde albe umide, queste notti impaurite), i panorami vuoti e i desolati paesaggi post-industriali. Easy è un esercizio di déplacement se mai ne abbiamo visto uno.
Un po' per senso del dovere, e molto per la forza propulsiva della sfiga, il protagonista si identifica totalmente con il suo compito; e le tragicomiche peripezie (a un certo punto la bara finisce anche a galleggiare su un fiume con Easy sopra come in barca) gli offrono l'opportunità di farlo uscire dal guscio. Il fatto che il compito sia di portare alla sepoltura una bara è indicativo, perché il risultato è che senz'accorgersene Easy va a seppellire il suo sé di uomo-bambino, agito e non agente, fin dall'alimentazione che gli impone la madre per farlo dimagrire: la mela e le barrette dategli dalla madre, che lui butta via appena partito comprandosi una vagonata di junk food; è una ribellione infantile, di pura golosità – ma è pur sempre l'inizio di una ribellione.
Beninteso, non è che diventi James Bond. Resta quel ciccione perplesso, quello sfigato a cui le cose succedono, e non le fa succedere. E tuttavia è indubitabile che l'Easy del finale sia tutt'altra persona rispetto all'uomo-bambino dell'inizio. Perché a tutti può capitare, nelle disgrazie della vita, di avvoltolarsi in se stessi, rinchiudersi in un bozzolo psichico da cui solo una forza esterna, uno shock, può farli uscire... un po' è la fossa dei serpenti di pre-psichiatrica memoria.
Il film non pone un'esplicita identificazione del protagonista con il morto Taras; ma notiamo che alla fine si crea un'autentica sostituzione. Dove c'era Taras ci sarà Easy? E' decisivo (e confermato da una dichiarazione del regista) che lo vediamo alla fine con un bambino, figlio di Taras, in braccio al posto esatto del vecchio trofeo delle corse che si portava ossessivamente dietro.
Per questo non penso che quello di Easy sia un finale aperto, come qualcuno ha detto. Anzi è chiuso, chiusissimo – semmai il punto è se Easy se ne renda conto. Ma poiché nel corso del film siamo giunti a sviluppare un'identificazione partecipe con questo ciccione smarrito, speriamo di sì.