domenica 22 ottobre 2017

Blade Runner 2049

Denis Villeneuve

L'incontro fra Ridley Scott e Denis Villeneuve per realizzare il seguito di Blade Runner è quasi un ossimoro – perché sono due registi agli antipodi: Ridley Scott è un regista dell'emozione; Denis Villeneuve è un regista filosofico e meditativo. Blade Runner 2049 nasce da una collaborazione effettiva: Ridley Scott è produttore e dei due sceneggiatori Hampton Fancher e Michael Green, Fancher era stato sceneggiatore del primo Blade Runner. Eppure ne nascono due film assai diversi. Il secondo, diciamolo subito, non perfetto come il primo; è un misto (anche affascinante, a suo modo, in questo!) di pregi e difetti.
Il primo terzo di Blade Runner 2049 è il meno interessante sul piano dell'ambientazione. Forse il pregio maggiore del primo Blade Runner era il suo carattere di pervasività dell'esperienza. Un lavoro geniale sulla scenografia, sulla fotografia e sul suono trasportava lo spettatore talmente dentro la Los Angeles futura da potersi paragonare a un trip allucinogeno. Abbiamo visto tanti nostri domani sullo schermo, ma forse mai li abbiamo “vissuti” con egual forza.
Ritroviamo quella Los Angeles in Blade Runner 2049, realizzata in CGI; è un bell'affresco, come quelle dei film di Star Wars, certo; ma non ha lo stesso impatto e appare una copia un po' scolorita, più anonima – anche perché qui, tocca proprio dirlo, il digitale mostra la sua inferiorità rispetto ai vecchi trucchi realizzati per la pellicola. L'idea più innovativa è quella degli ologrammi pubblicitari giganti, fra cui uno erotico che si china inquietante sul protagonista. Tuttavia non si avverte in questa città la paurosa concretezza del film di Scott.
A voler essere pedanti, una specie di complesso d'inferiorità è già dichiarato nella prima immagine. Blade Runner si apriva sul dettaglio di un occhio, ma quello era un film che il motivo dell'occhio attraversava tutto; Blade Runner 2049 si apre programmaticamente su un'immagine analoga, solo con una grande palpebra: immagine che oltre a essere francamente bruttina risulta inutile, perché i motivi simbolico-visuali del film di Villeneuve sono altri.
Il racconto non scorre sempre in modo fluido (specie se lo paragoniamo con la spietata determinazione di Ridley Scott). La narrazione è a volte faticosa; ci sono dei momenti di ingenuità (per esempio il modo in cui il protagonista K imbroglia un po' troppo facilmente il suo superiore Madame Joshi) e, francamente, di prevedibilità. Una scena di super-action alla fine del film è piuttosto infelice. A volte il testo appare esageratamente sentenzioso (bisogna dire che il doppiaggio italiano non aiuta). Il cattivissimo Wallace (Jared Leto) è una figura che addirittura danneggia il film: nel suo modo di parlare “poetico/religioso” sfiora, o anche più, il ridicolo.
Blade Runner era un noir – anche al di là della voce narrante presente nella prima versione ed espunta nei due successivi director's cut. Villeneuve, come ho già avuto modo di scrivere a proposito di Arrival, come regista mira piuttosto a Kubrick: il regista filosofico per eccellenza. E' l'ontologia dei replicanti che gli interessa, più che il dramma dei personaggi dell'altro film. Non a caso un elemento importante ma non decisivo del film di Scott, quello dei ricordi innestati, diventa la chiave di volta dell'intero film di Villeneuve. In Blade Runner 2049 le tematiche sono esistenziali e interiorizzate. Che cos'è la verità? Cosa significa avere un nome? Quali sono i sentimenti di una creatura artificiale? O addirittura di un ologramma? Qui alludo a Joy, che emerge come la figura più rilevante dell'intero film. Non per nulla il discorso sulla paternità, assente in Scott, qui viene audacemente inserito con la sorpresa che i replicanti possono procreare (il “miracolo” annunciato nella prima sequenza).
Se la cifra di Blade Runner era l'affollamento, quella di Blade Runner 2049 è l'isolamento. Se Blade Runner limitava il più possibile gli spazi aperti, Blade Runner 2049 mira a vastità desolate. Costruzioni di importanza centrale nella trama si ergono come cattedrali nel deserto – o vengono fotografate come tali. Fin dall'inizio, con l'albero secco e le baracche nella “terra desolata”, un'idea di paesaggio vasto e vuoto ritorna nel film.
E' un film di solitudini. In Scott (coerentemente con i canoni del noir) il protagonista era solo nella folla; in Villeneuve è solo con se stesso. E se in Scott amava una replicante, in Villeneuve ama un ologramma, una creatura virtuale più fragile di una farfalla, dolorosamente legata alla macchina che la produce.
Almeno a parere di chi scrive, Blade Runner 2049 migliora nella misura in cui si allontana dall'esigenza di dare un sequel al plot del Blade Runner originale, si allontana dal quadro di costrizioni del primo Blade Runner. Ovvero, Villeneuve ha bisogno per il suo discorso dell'universo diegetico di Blade Runner più che della sua diegesi da prolungare con qualche artificiosità.
In altri termini, Blade Runner 2049 sarebbe risultato migliore (mi si perdoni quella che per molti sarà una bestemmia) se si fosse dispensato interamente dal prosieguo della storia di Deckard e di Rachael e avesse avuto l'audacia di svolgersi interamente e autonomamente nel mondo dei replicanti 2049, post-Tyrrel e post-disastro, senza voler ripescare i personaggi del primo film. In teoria, sul piano della sceneggiatura, ciò non sarebbe stato difficile; non voglio dire, s'intende, che sarebbe stato produttivo sul piano commerciale.
Il tema dell'identità interiore dei replicanti già esisteva nel film originale; non è solo per la bellezza del testo che il grande discorso di Rutger Hauer morente sull'alto dei tetti è diventato uno dei momenti iconici della storia del cinema (per non dire, più terra terra, che il suo incipit è passato in proverbio). Qui però esso assume una centralità assoluta – e così due film diversissimi si congiungono in un senso di humanitas che declinano in modo diverso ma è un comune sentire.
Mi piace sottolineare che in Blade Runner 2049 questa umanità va oltre le figure dei replicanti per incarnarsi, come già detto, nel personaggio più nuovo e stupefacente del film: la compagna del protagonista Joy, una sorta di ologramma senziente che si accende e si spegne sulla consolle, e ci si può anche portar dietro fuori di casa purché si possegga un (costoso) “emanatore”; in una scena assai rilevante, per poter fare l'amore con il protagonista lei si “sintonizza” con una prostituta, in pratica sovrapponendo i loro corpi. Priva di un corpo, Joy ha sentimenti così umani da gridare una disperata dichiarazione d'amore nel momento in cui viene distrutta (l'interpretazione di Ana de Armas è eccellente, e fa da contraltare a un Ryan Gosling alquanto inespressivo). Più ancora dei replicanti – in fin dei conti che siano esseri umani lo sapevamo fin da subito – questa umanità di una creatura non di carne e di sangue ci colpisce profondamente. Vale la pena di citare, benché in modo un po' tendenzioso, il vecchio Terenzio: “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”. E' il pensiero e non l'involucro a determinare la specie; e averlo sottolineato – in modo artisticamente felice, altrimenti non varrebbe nulla – è a mio parere il maggior risultato “filosofico” di Blade Runner 2049.

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